L'ostaggio di Teheran (Segretissimo SAS)
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L'ostaggio di Teheran (Segretissimo SAS)

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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L'ostaggio di Teheran (Segretissimo SAS)

Informazioni su questo libro

Prigioniero in un sotterraneo di Beirut, William Schackley rimpiange amaramente di essere nato. Infliggendogli torture di una crudeltà disumana i suoi aguzzini vogliono che confessi di essere il capo della CIA in Libano, ma lui non intende piegarsi. Difficilmente ne uscirà vivo, a meno che i colleghi dell'Agenzia non trovino il modo di salvarlo. L'unica soluzione praticabile è ricorrere a un intermediario in contatto con il gruppo sciita filoiraniano dei sequestratori. I termini dell'accordo sono un pugno nello stomaco per i funzionari di Langley: l'ostaggio sarà liberato a fronte di una fornitura di missili anticarro. E lo scambio dovrà avvenire nel sultanato di Oman, zona neutra per le parti in causa. Atterrato a Mascate, capitale di questa monarchia assoluta dove le auto di lusso hanno sostituito i cammelli e i quartieri residenziali hanno spazzato via i villaggi, Malko Linge non è per niente tranquillo. L'uomo che regge i fili della trattativa è immischiato con i servizi segreti di troppi paesi per poter giocare davvero pulito. Per fortuna a spalleggiare il Principe delle Spie ci sono due fedelissimi cani da guardia. Di quelli che prima sparano e poi parlano.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2022
eBook ISBN
9788835717577

1

William Schackley fissava le pale immobili del grande ventilatore sospeso sopra la sua testa come una minaccia… incongruo oggetto di lusso in quella stanza di otto metri quadri nella quale marciva esattamente da sessantotto giorni: un ufficio in disuso che dava sul parcheggio sotterraneo di un moderno edificio ormai senza inquilini, alla periferia sud di Beirut. L’americano ripensò per l’ennesima volta ai pochi secondi che avevano cambiato la sua vita. Erano le sette e mezzo del mattino e lui, come al solito, si stava recando in ufficio. Due automobili, una Mercedes color granata e una Renault 12 bianca, senza targhe, erano sbucate dalla via Hamra, bloccando la sua Dodge. Poi gli spari, i vetri volati in frantumi, il suo autista accasciato sul volante, insanguinato, i ragazzini ancora quasi imberbi in tenuta mimetica, armati di Kalashnikov, che lo strappavano dalla macchina. Il più agitato continuava a urlare: — Andiamo, andiamo, se no ti ammazzo!
William Schackley aveva sentito male dietro l’orecchio per qualche settimana, nel punto in cui lo avevano colpito col calcio di un’arma.
L’ultima cosa che aveva notato prima di perdere conoscenza erano stati i passanti che scappavano o voltavano la testa dall’altra parte. Era tornato in sé sdraiato sul pavimento tra i sedili anteriori e quelli posteriori della Mercedes. Tre uomini erano seduti con i piedi sulla sua schiena. La macchina correva nel traffico pazzesco di Beirut ovest, preceduta dalla Renault bianca che si faceva largo a furia di raffiche sparate in aria. Durante il tragitto gli avevano bendato gli occhi e gli avevano ammanettato le mani dietro la schiena.
Mezz’ora dopo i suoi rapitori erano penetrati in un sotterraneo e lo avevano subito rinchiuso dove si trovava in quel momento.
Al momento della sua cattura, nella cella faceva un caldo soffocante, umido, insopportabile; ora, con l’arrivo dell’inverno, l’afa aveva ceduto il posto a un’umidità gelida. William Schackley era stato rapito il 16 ottobre e adesso era il primo di febbraio. L’americano passava il suo tempo steso sulla brandina, leggendo e rileggendo i pochi libri e i giornali vecchi che gli venivano dati ogni tanto.
Una chiave girò nella serratura e il prigioniero alzò la testa senza la minima emozione. Durante i primi giorni di prigionia si aspettava a ogni istante di essere liberato! Non poteva immaginare che un gruppo terroristico trattenesse a lungo un terzo segretario dell’ambasciata americana. Certo, Beirut era una città demenziale, pericolosissima, ma in ogni caso dovevano esistere delle regole… Arrivato in Libano tre settimane prima del rapimento, William Schackley era andato a vedere le macerie della vecchia ambasciata, ridotta in polvere da un’autobomba. Uno spettacolo spaventoso che non era nulla di fronte all’incubo attuale.
La porta si aprì ed entrò il più giovane dei carcerieri: uno sciita dal viso ancora infantile, con un bracciale rosso su cui era stampato un versetto del Corano. Era lui che portava ogni giorno la molokhié, una zuppa verdognola con pezzi di pollo e di carne. Stavolta aprì la manetta che teneva il prigioniero legato al letto e tirò brutalmente.
— Andiamo! — disse in inglese.
Forse era l’unica parola che conosceva in quella lingua.
Passando attraverso il grande sotterraneo pieno di casse di munizioni, di camion dotati di armi pesanti e di veicoli crivellati di pallottole, il carceriere si tirò dietro William Schackley fino ai gabinetti. Ne lasciava sempre la porta socchiusa, con il dito sul grilletto del Kalashnikov, come se temesse che l’americano lo bombardasse con le sue feci.
William Schackley si trattenne quanto poté, poi uscì trascinando i piedi: quella era la sua unica passeggiata quotidiana.
Si era lasciato crescere la barba come i suoi carcerieri e aveva perso dieci chili. Riattaccato al letto, si mise a rileggere per la ventesima volta una copia di “L’Orient-Le Jour” vecchia di cinque settimane.
Regalo insperato del capo dei carcerieri. Un iraniano dallo sguardo cupo, dottore in teologia, che veniva sempre a fargli lunghe tirate incandescenti contro il “Grande Satana”, cioè gli Stati Uniti, e che i suoi compagni sciiti libanesi chiamavano rispettosamente “Zaim”, il Capo; William Schackley ne conosceva solo il nome di battesimo, Reza, ma sapeva che insegnava alla Scuola coranica sciita di Hey-El-Sellom, nella periferia meridionale.
Nei cinque minuti successivi all’arrivo, dopo la sua cattura, Reza aveva iniziato l’interrogatorio.
“Chi è lei? Da quanto tempo si trova a Beirut? Quali sono le funzioni dell’ambasciata? Chi sono le spie americane a Beirut? Perché vi accanite contro gli ‘oppressi sulla Terra’?”
Che erano poi gli sciiti.
L’americano veniva frastornato con domande, spintonato, minacciato. Qualche volta, quando non rispondeva abbastanza in fretta, uno degli hezbollah faceva schioccare l’otturatore del suo Kalashnikov con un rumore sinistro e appoggiava la canna alla tempia del prigioniero. Un gesto ingenuo e terrificante nello stesso tempo, dato che William Schackley sapeva che quei ragazzini dal viso fresco invaso da una peluria nascente erano tutti degli assassini. Aveva risposto come meglio poteva alle domande, lasciando nel vago le risposte pericolose.
La cosa peggiore fino a quel momento era stata quando lo lasciavano con gli occhi bendati nella sua cella negli intervalli tra gli interrogatori. William Schackley restava sul lettino, dondolando la testa, sbattendola a volte contro il muro fino a impazzire. All’inizio aveva pensato che si trattasse di una crudeltà gratuita dei suoi aguzzini. Invece era qualcosa di molto più diabolico.
Quando dopo alcune ore gli tiravano via di colpo la benda, la luce forte della lampadina nuda diventava accecante. La testa cominciava a girargli e doveva fare uno sforzo terribile per concentrarsi e rispondere alle domande che gli urlavano in faccia.
Gli interrogatori erano cessati di colpo dopo un mese e nessuno gli aveva più rimesso la benda. Per due volte Reza lo aveva costretto a scrivere una lettera al presidente degli Stati Uniti supplicandolo di fare qualcosa per liberarlo. William Schackley aveva usato le parole più neutre che aveva potuto. Non aveva nessuna notizia del mondo esterno. A parte quelle poche dei giornali che gli portavano. Dal rumore degli aerei aveva capito di trovarsi nelle vicinanze dell’aeroporto di Beirut. Di tanto in tanto Reza andava a chiacchierare con lui, impietosendosi ipocritamente sulla sua sorte e dicendogli che sarebbe stato costretto a tenerlo prigioniero finché fosse rimasto anche un solo diplomatico americano a Beirut…
Un improvviso frastuono strappò William Schackley ai suoi ricordi. Una macchina si era fermata davanti alla sua cella con un grande stridore di freni. Udì delle grida, delle esclamazioni, dei passi affrettati e una chiave che girava nella serratura. L’americano posò il giornale, incuriosito. Cosa significava quell’insolito trambusto?
Reza entrò nella cella: il viso, di solito calmo, era sconvolto dal furore, gli occhi fiammeggianti di odio. L’iraniano era circondato da una muta di giovani barbuti, infuriati. Agitava un giornale, che gettò sul letto urlando: — Bastardo! Spia! Ci hai mentito! Devi morire!
William Schackley, spaventato da quella improvvisa esplosione di rabbia, si chinò sul giornale. Era il “Washington Post” del giorno prima. Un articolo era messo in rilievo da un grosso tratto di matita rossa: “William Schackley, il diplomatico americano rapito a Beirut quattro mesi fa, sarebbe in realtà capo della CIA in Libano”.
L’americano non ebbe il tempo di leggere il resto. Reza gli era balzato addosso e gli faceva sbattere la testa contro il muro, urlando insulti in lingua farsi. Gli altri hezbollah si spingevano per colpire il prigioniero con i calci delle loro armi o per sputargli in faccia. Il pestaggio finì solo con lo svenimento di William Schackley.
Quando l’americano riprese coscienza era seduto su una sedia, con le mani legate dietro la schiena, la faccia tumefatta, in mezzo a un cerchio di gente dall’espressione carica di odio. Reza aveva ritrovato la calma.
— Così sei una spia della CIA — disse. — Se non vuoi morire subito devi dirci la verità. Confessare tutti i suoi delitti… compresa la tua responsabilità nella morte di centinaia di nostri fratelli.
— È ridicolo — protestò William Schackley. — Sono soltanto un diplomatico.
Un pugno in faccia lo fece tacere. Con la bava alla bocca, Reza lo scosse urlando: — Sei una spia! Sei una spia!
— No — protestò William Schackley. — No, non è vero!
Si era messo a urlare anche lui e metteva tutta la sua forza in quei “no”. Reza si raddrizzò.
— Ti faremo confessare!
Diede alcuni ordini in arabo. Tre hezbollah si gettarono sul prigioniero e lo denudarono dalla vita ai piedi. Poi lo spinsero verso la porta della cella, tenuta aperta da Reza. Urtandolo e trascinandolo, gli fecero appoggiare il pene e i testicoli tra il muro e lo stipite. Madido di sudore, l’americano udì appena le domande di Reza e gli insulti degli altri.
Il dolore lancinante, atroce, gli strappò un grido disumano quando la porta, chiusa di colpo, gli schiacciò gli organi genitali. Gli si piegarono le gambe e cadde sputando un getto di bile sui suoi aguzzini.
Quattro adolescenti in tenuta mimetica, con il petto bardato di giberne di tela per i caricatori dei Kalashnikov, spinsero brutalmente William Schackley fuori dalla cella.
L’americano si sentì fermare il cuore. Da una settimana lo picchiavano tutti i giorni per un paio d’ore.
I suoi torturatori non avevano ripetuto l’esperimento della porta, certo per il timore di ucciderlo. Schackley aveva ancora dei forti dolori al basso ventre e per due giorni non era riuscito a urinare. Malgrado quei barbari maltrattamenti, ricominciava vagamente a sperare. Si era aggrappato ai dinieghi, e i suoi aguzzini non avevano trovato nessuna prova della sua appartenenza alla Central Intelligence Agency.
Era sicuro che il Dipartimento di Stato avesse smentito tutto. Il suo grado elevato nella gerarchia diplomatica deponeva in suo favore.
Lo stomaco gli faceva molto male. Il giorno prima uno dei carcerieri glielo aveva calpestato con gli stivali.
Lo fecero fermare in mezzo al sotterraneo. Cercò di controllare il respiro dicendosi che non sarebbe andata peggio del giorno prima, che quelli avrebbero finito per stancarsi. Non pensava nemmeno più a una liberazione, in certi momenti sperava addirittura che lo ammazzassero. Avevano già minacciato di farlo dopo avergli scattato una fotografia Polaroid con in mano una copia del quotidiano “Al Nahar”. Dicendo che lo facevano per avvertire le autorità americane della sua esecuzione.
Una Mercedes arrivò nel sotterraneo. Ne scese Reza con aria feroce, delle bombe a mano alla cintura, una fascia rossa intorno alla testa. Lo accompagnava un uomo dagli occhi neri, un po’ fissi, con una barbetta ben curata e folta, avvolto in una abaya bianca.
Reza disse in tono grave: — Sei un criminale troppo importante per noi. Perciò abbiamo chiesto al fratello Amir, che è un giudice, di occuparsi del tuo caso. Faresti bene a confessare i tuoi delitti. Lui saprà farti parlare, così come ha costretto alla confessione tutti i nemici della Rivoluzione di Salehabad.
William Schackley guardò l’iraniano, cercando di nascondere la paura.
Salehabad era una ex latteria, situata tra la città santa di Qom e Teheran, trasformata dagli integralisti in prigione e centro di tortura. Ufficialmente il posto era indicato come luogo di ritrovo per drogati… L’arrivo dall’Iran di quel sinistro carnefice dal viso sereno era sicuramente di pessimo auspicio.
— Non ho niente da nascondere — riuscì a dire William Schackley con voce calma. — Non sono una spia, sono un diplomatico.
Amir l’Iraniano scosse lentamente la testa e disse in perfetto inglese: — Non serve negare, sappiamo tutto su di lei. Appartiene senza dubbio alla CIA. Era in servizio a Karachi nel 1977. Dei fedayyìn palestinesi avevano attaccato l’ambasciata americana, in quel periodo, e portato via dei documenti. Siamo riusciti a procurarcene alcuni che parlano di lei. Deve decidersi a confessare per il bene della Rivoluzione islamica. Altrimenti dovrò ricorrere ai metodi previsti dal Corano per costringerla a dire la verità.
William Schackley aveva la sensazione di provare una brutta commedia, ma il corpo dolorante gli diceva che si trattava della realtà, purtroppo. Sostenne lo sguardo ardente dell’iraniano in abaya bianca.
— Sono un diplomatico. No...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’OSTAGGIO DI TEHERAN
  4. PERSONAGGI PRINCIPALI
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. Copyright