Ma pensa: ho di nuovo il mio vecchio posto sul treno.
Carrozza dodici, sedile trentasei. Solo che questo è l’Eurostar da Londra a Parigi del venerdì sera e non il locale da Beauvais di quella volta. Non mi ero accorto del posto fino a quando non sono salito. Ho fatto di corsa tutta la stazione di St Pancras per arrivare in tempo. A dire la verità ero perfettamente in orario. E infatti mi sono fermato a comprare un fumetto di Batman. Come quella volta, tanti anni fa.
Poi quando ho visto il pianoforte lì, nel bel mezzo della hall, ho pensato che non ho mai il tempo di suonarlo perché sono sempre in giro, e poi è a casa dei miei genitori e quello era un momento perfetto. Mi sono seduto, e ho cominciato ad arpeggiare sui tasti. La classica cosa che fai quando ancora non vuoi far capire cosa suonerai.
Poi ho attaccato November Rain dei Guns N’ Roses e proprio mentre cominciavo a sentirmi Axl Rose mi sono reso conto che stavo perdendo il treno.
Dodici e trentasei, sembra ieri. E invece sono passati più di trent’anni. Trenta!
Se ci penso… Avevo dodici anni, non c’erano i cellulari e quindi esistevano ancora gli scherzi telefonici. Il muro di Berlino era crollato da due anni ma ancora non era uscito Nevermind dei Nirvana e nemmeno il Black Album dei Metallica.
Mi sembrava un momento pieno di aspettative. Forse perché era l’inizio di un nuovo decennio, ed era la prima volta che ne vedevo cominciare uno. Al principio di quello precedente ero troppo piccolo per rendermene conto.
Era un po’ come se fosse già un secolo nuovo, anche se al Duemila mancavano ancora nove anni. Il Duemila ci sembrava un futuro lontano, eppure si stava avvicinando. Era il futuro dei film di fantascienza, quello in cui avremmo visto le macchine volanti e i viaggi su Marte sarebbero stati all’ordine del giorno.
Nell’attesa di quel futuro strabiliante viaggiavo su un vecchio treno, che sembrava uscito direttamente dal Far West. Secondo me andava ancora a carbone. Gli scompartimenti erano divisi da paratie di legno. I portacenere erano d’ottone. Tutto aveva un’aria molto solida, ma terribilmente antica.
Il mio treno di oggi invece è nuovo nuovo, uno di quelli con la porta dello scompartimento che si apre con uno sbuffo elegante, le prese per la corrente e il wifi. Non mi stupirei se in bagno ci fosse anche la carta igienica, e forse più tardi andrò a controllare.
Riprendo fiato dopo la corsa mentre cerco il mio posto. Una bambina alza lo sguardo, mi fissa e ride del mio ansimare. Il vano per i bagagli è pieno di valigie ma è rimasto un buco che sembra fatto apposta per il mio trolley. Lo sollevo e lo faccio scorrere nello spazio libero tra le valigie.
Cerco il sedile corrispondente al mio numero. Il trentasei è proprio davanti alla bambina.
Bene.
Mi pare un’ottima coincidenza.
Faccio sempre caso alle coincidenze. Di solito, quando compro un biglietto per qualsiasi cosa, un treno, il cinema, un concerto, il numero è la prima cosa che guardo. Mi piace l’idea di far coincidere i numeri cercando una qualche logica.
Voglio dire, trentasei è tre volte dodici. Quindi nella carrozza dodici è un ottimo numero. Se, per esempio, mi capita la carrozza quattordici sono contento se il numero del sedile è il ventotto (due volte quattordici) oppure il quarantadue (tre volte quattordici).
Quarantadue tra l’altro fino all’anno scorso era anche la mia età.
Se in aereo mi capita il numero diciotto (ci avete fatto caso? Nella maggior parte dei voli non esiste il sedile con il numero diciassette, si passa direttamente dal sedici al diciotto. Questione di superstizione) e il volo parte alle diciotto, sono contento. Se poi è anche il giorno diciotto, mi sembra tutto talmente inverosimile che di solito mi addormento prima del decollo, dimenticando di avere una leggerissima fobia di volare.
Questa volta, stranamente, quando avevo comprato il biglietto non avevo fatto caso al numero. Per cui sono doppiamente soddisfatto della mia coincidenza numerica e mi siedo.
Vorrei leggere il fumetto di Batman che ho preso, ma l’ho lasciato nel trolley.
Sono combattuto: alzarmi di nuovo, prendere il trolley, aprirlo, tirare fuori “Batman” e rimettere il trolley a posto, oppure rimanere seduto e continuare a ignorare cosa succerebbe a Gotham se il Joker, prendendo delle pillole, diventasse una persona normale?
Alla fine la pigrizia vince tre a zero e rimango seduto. Il Joker rinsavito aspetterà.
Osservo la bambina seduta davanti a me, intenta nella lettura.
«Che cosa leggi di bello?» chiedo.
Lei sembra che non aspettasse altro. Mi mostra soddisfatta il fumetto di un personaggio televisivo che penso dovrei conoscere.
Sembra molto felice. E così la mamma accanto a lei.
Non so se ci avete mai provato anche voi, a guardare le persone per capire se sono felici. Io lo faccio sempre. Le scruto, cercando di essere discreto perché a molte persone non piace essere guardate. Le osservo e cerco degli indizi. Da cosa si capisce se uno è felice?
Forse se sorride mentre parla al telefono o mentre risponde ai messaggi di qualcuno? Oppure se ha la camicia stirata e i capelli in ordine?
Sì, perché potrebbe indicare che c’è qualcuno che gli vuol bene che gli stira le camicie o per cui vale la pena pettinarsi.
Che in realtà non vuol dire niente, uno magari porta le camicie in tintoria o se le stira da solo, e semplicemente gli piace avere i capelli a posto, però non ha nessuno. Ma allora forse è qualcuno che è felice anche da solo, che è un modo di essere felici pure quello, no?
Io penso sempre troppo. A questo genere di cose, intendo. Ma non posso farci nulla. E nel frattempo guardo le persone, cosa che a qualcuno dà fastidio. Cioè, finché sei un bambino, va tutto bene. Ma quando lo fai da adulto, le persone pensano subito che sei un maniaco.
Così certe volte per smettere di guardare la gente tiro fuori un blocchetto di carta e disegno. Oppure mi distraggo guardando fuori dal finestrino.
Mi piace guardare i cartelli stradali.
È curioso: ce ne sono alcuni più rovinati di altri, come se in certi posti il tempo scorresse in maniera diversa. Alcuni cartelli sono perfetti. Altri tutti mangiati. Mia nonna mi diceva che era la salsedine. La salsedine corrode tutto.
Il treno si muove. Partiamo.
Sto lasciando Londra. Intendo che non ci tornerò. A Londra c’era qualcosa che è finito. Con una persona. Quindi vado via, torno a casa.
È strano trovarmi di nuovo in treno, allo stesso posto preciso di quel treno di trent’anni fa. All’epoca viaggiavo da solo perché i miei si stavano separando.
Non ho mai capito dove fosse finito il loro amore. Nel mio ricordo, un giorno andavano d’accordo e il giorno dopo cominciarono a litigare. Probabilmente non è così, probabilmente litigavano già da prima e io non me ne ero accorto. Oppure non avevano ancora litigato ma tutto si stava preparando per quel momento.
Per me fu la vacanza al mare. Da quella vacanza, ci furono solo litigi.
Sul treno fermo al binario di fronte ci sono due innamorati. Deduco che lo siano perché si baciano. Chissà se anche loro due stanno tornando a casa oppure stanno partendo per un qualche posto?
Fa differenza? In termini di felicità, sì. Ma forse sono felici comunque, perché sono insieme. Ecco, forse, la felicità non è dove vai o da dove torni. È un luogo che ti porti dietro.
Come uno zaino.