Dal finestrino la vista della costa siciliana annunciò che presto l’aereo sarebbe atterrato. Anche se Marco era molto nervoso e arrabbiato, non riuscì a evitare di provare quella strana e piacevole sensazione che lo coglieva ogni volta che giungeva a Palermo. I rilievi aspri che sfumavano dal verde al marrone chiaro spiccavano fra il blu del mare e l’azzurro del cielo. I colori erano così intensi da togliere il fiato.
In Sicilia ci andava tutte le estati, fin da quando era un neonato. I suoi genitori erano nati in quella regione, perciò era normale trascorrere le vacanze dove potevano incontrare parenti e amici. Da loro Marco aveva ereditato l’amore per quella terra piena di contrasti, ma non provava un vero e proprio senso di appartenenza. Era nato in Veneto e aveva trascorso lì i suoi tredici anni di vita andando a scuola, frequentando i coetanei, praticando diversi sport… Non parlava il dialetto con il quale sua madre e suo padre erano soliti conversare in casa ed era sempre molto attento a non lasciarsi sfuggire qualche inflessione dialettale perché non voleva essere associato al Sud. La Sicilia rappresentava le origini della sua famiglia, non le sue. Di questo Marco era del tutto convinto.
L’aereo cominciò a vibrare. Si stava preparando per l’atterraggio e si trovava a fare i conti con raffiche di vento che sferzavano la costa.
– Siamo quasi arrivati – gli disse suo padre.
Marco non lo degnò di una risposta. Da quando gli aveva imposto quel viaggio, si era chiuso in un mutismo arrabbiato. Il fatto, poi, che se ne fosse appena uscito con una frase tanto banale, gli fece stringere i pugni per la collera.
Quando avrebbe smesso di trattarlo come un bambino?
“Siamo quasi arrivati”? Pensava forse che fosse un poppante che aveva bisogno di essere tranquillizzato o che non sapeva dove si trovassero?
Alzò il volume della musica che stava ascoltando nelle cuffie e lasciò che lo sguardo si perdesse oltre il finestrino. La terra si avvicinava velocemente e il rollio causato dal vento aumentò.
Qualche passeggero lanciò esclamazioni di paura e preoccupazione, ma Marco non sentì nulla. Sommerso dalla musica che gli inondava le orecchie, osservava il paesaggio che sfuggiva veloce sotto di lui. Una vibrazione accompagnata da un rimbalzo decretò che l’aereo era atterrato. Gli alettoni si alzarono per rallentare la corsa, così il velivolo scivolò sulla pista fino a curvare verso l’aeroporto. Ai colori della terra si sostituì il luccichio delle onde.
Su una cosa era d’accordo con i suoi genitori, forse l’unica: il mare della Sicilia era meraviglioso.
Seguì il padre ostinandosi a non rivolgergli la parola. E anche quando, a bordo dell’auto presa a noleggio, lui cercò di sfondare quel silenzio con qualche considerazione sul traffico, Marco continuò a ignorarlo volutamente.
Quello che i suoi genitori gli avevano fatto era troppo grave… Lo avevano condannato senza dargli il beneficio del dubbio e il castigo che avevano scelto era davvero terribile.
Strinse di nuovo i pugni per la rabbia. Era così furioso… così deluso…
Durante l’ora di viaggio in macchina, davanti ai suoi occhi sfilarono panorami da sogno con un mare che sfumava in tutte le tonalità del blu. Poi imboccarono le strade che li avrebbero portati a San Ciro, il paese in provincia di Trapani dove il nonno si era trasferito da un po’ di anni.
Il paesaggio si fece monotono nell’alternarsi di saliscendi e curve tra colline dove crescevano viti, ulivi e sparuti fichi d’India. I paeselli spuntavano qua e là, sommersi dalla campagna.
Al pensiero di dover trascorrere tutta l’estate in mezzo a quella desolazione, Marco si sentì in trappola. Esasperato, sbuffò e colpì con un pugno la portiera.
Suo padre rallentò e gli sfilò le cuffie dalla testa.
– So che sei arrabbiato – esordì – e non credere che ciò mi renda felice…
– Allora dimmi perché mi hai portato in mezzo a questo schifo! – lo interruppe il figlio.
– Lo sai il motivo. Io e tua madre te lo abbiamo spiegato.
– Mi avete raccontato un sacco di stupidaggini! Questa è la verità! – gridò Marco sentendo la rabbia risalirgli fino alla gola. – Pensate che dandomi questa punizione, risolverete tutti i problemi? Non mi avete ascoltato! Non avete capito che io non…
– Basta! – gli intimò il padre, fermando l’auto sul ciglio della strada. – Non voglio più sentirti dire che non hai fatto niente! È proprio perché non ti rendi conto di quello che hai rischiato che passerai un po’ di tempo con tuo nonno.
– Mi lasci con un vecchio in mezzo al nulla e pensi che accadrà un miracolo? Ti aspetti che mi trasformi nel figlio perfetto che tu e mamma avreste voluto avere?
Lo sguardo di suo padre adesso era di pietra. – Non permetterti mai più di mancare di rispetto a tuo nonno – sibilò. – E ricordati che io e tua madre ti amiamo e non abbiamo mai pensato che fossi un figlio imperfetto. Crediamo solo che tu abbia bisogno di aiuto per capire… –. Ingranò la marcia e si rimise in viaggio senza aggiungere altro.
– Scapperò! – disse Marco in preda a un forte senso di impotenza. – Scapperò e non mi troverete più! Non voglio stare qui!
– Non importa ciò che vuoi in questo momento – mormorò il padre. – Importa l’uomo che diventerai domani.
La casa del nonno era una piccola costruzione completamente nascosta fra gli ulivi. Appena scesero dall’auto, Argo andò ad annusarli. Era un cane intelligente che abbaiava solo quando necessario. Pur essendo un Border Collie, non aveva il classico aspetto di quella razza e questo lo rendeva speciale: il pelo bianco era attraversato da una serie di sfumature bellissime di grigio.
Anche il nonno, che in quel momento stava uscendo dalla casupola, era un esempio di contrasti. La pelle era scura, segnata dal sole del Meridione, ma i capelli, un tempo biondi, ora viravano verso il bianco.
Marco lo aveva frequentato poco e non poteva certo dire di avere costruito chissà quale rapporto con lui. Erano quasi degli estranei e ciò rendeva quella “vacanza” ancora più spiacevole.
L’uomo fissò il figlio e il nipote senza lasciar trasparire alcuna emozione. Con un cenno del capo li invitò a entrare.
Marco non poté fare a meno di notare l’incredibile somiglianza che c’era fra loro due: lui e il nonno avevano lo stesso fisico longilineo e gli occhi di quell’incredibile colore azzurro. Fin da bambino la madre gli diceva che poteva averli ereditati solo da quel parente burbero e solitario perché nessun altro in famiglia li aveva così.
All’interno, la casa era piuttosto spartana. C’era il necessario per vivere e nulla di più. Da quando era morta la nonna, erano scomparsi anche quei pochi soprammobili che c’erano in passato. Sopra il camino si vedeva solo una vecchia foto scattata il giorno del matrimonio dei nonni.
Quando i due adulti cominciarono a parlare, il ragazzo preferì uscire in giardino. Si sentiva in gabbia, senza scampo.
La prospettiva di dover rimanere lì per tutta l’estate era drammatica. Erano isolati perfino rispetto al centro abitato di San Ciro perché tutto intorno si vedeva solo campagna.
Come avrebbe fatto a sopravvivere in mezzo a quella desolazione?
Un pensiero lo folgorò facendogli mancare il respiro. Sfilò lo smartphone dalla tasca con il terrore negli occhi. Sospirò di sollievo. Per un attimo aveva temuto che il telefono non prendesse. Per fortuna non era così. Non c’era molto campo, ma non era del tutto tagliato fuori. La tecnologia sarebbe stata la sua unica ancora di salvezza.
Suo padre ripartì il giorno seguente. Durante quelle poche ore trascorse con il nonno, i silenzi erano stati più assordanti delle parole. Tre generazioni di uomini che avevano pranzato e cenato insieme senza dirsi praticamente nulla. Perfino Argo sembrava sconcertato e li aveva osservati per tutto il tempo con sguardo curioso.
– Ciao Marco – gli disse suo padre mentre saliva in auto. – Ci sentiamo…
Non gli aveva risposto. Lo aveva guardato sparire oltre le curve e gli alberi con un profondo senso di abbandono.
Come avevano potuto i suoi fargli una cosa del genere?
Si rese conto di stringere i pugni solo quando avvertì il dolore delle unghie conficcate nei palmi delle mani. Aveva voglia di urlare e forse anche di piangere.
– Amuni’!
La voce perentoria del nonno lo fece sussultare. Per un attimo pensò che stesse parlando al cane, ma quando si voltò si rese conto che lo stava fissando.
– Sì, sto parlando con te. Andiamo!
– Dove? – gli chiese sgarbatamente il nipote.
– Ora vedi…
Non aggiunse altro e Marco fu tentato di girarsi e andare nella direzione opposta. Fu l’entusiasmo di Argo a farlo desistere. Correva avanti e indietro aspettando che lui lo seguisse.
Camminarono per un tratto lungo un sentiero che si snodava fra gli ulivi. Il ronzio degli insetti e il frinire delle cicale furono gli unici dialoghi ad accompagnarli.
Si fermarono quando raggiunsero un basso edificio con il tetto fatto di paglia, canne e rami. Il nonno armeggiò con la serratura della porticina di legno ed emise qualche verso di incoraggiamento al quale risposero dei belati.
In pochi minuti uscirono all’aperto almeno trenta pecore.
Argo sembrava impazzito. Correva da tutte le parti cercando di mantenere il gregge unito e spingerlo verso la collina. Quando una pecora si fermava a brucare, lui abbaiava e la costringeva a raggiungere le altre. Anche nonno e nipote si unirono alla comitiva per fermarsi solo sulla sommità del colle. Mentre le pecore cominciarono finalmente a rifocillarsi sotto lo sguardo attento del cane, Marco si sedette ai piedi di un vecchio ulivo nodoso.
– Cos’hai combinato?
La voce ruvida del nonno lo fece sussultare. Non si era neppure accorto che si fosse avvicinato a lui.
Strappò un filo d’erba e cominciò a spezzettarlo in silenzio.
– Allora? – insistette l’uomo.
– Te l’avrà già raccontato mio padre, no? – gli rispose bruscamente.
– Voglio sentirlo da te.
La tentazione di tacere, solo per fare un dispetto, era forte, ma altrettanto forte era la voglia di dare la sua versione dei fatti perciò, dopo qualche minuto, cominciò a raccontargli quello che era successo.
– Ho degli amici… – iniziò partendo un po’ da lontano. – Sono quasi tutti più grandi di me tranne Ricky, un mio compagno di classe. È stato lui a farmeli conoscere.
Si fermò un attimo aspettandosi le domande che gli avevano fatto anche i suoi genitori, ma il nonno tacque perciò continuò a raccontare.
– Sono dei tipi tosti! Non hanno paura di niente e tutti vorrebbero far parte del loro gruppo. Quando mi hanno accettato, ero gasato. Avevo sempre voluto essere come loro perché gli altri li guardano con rispetto. Nessuno li prende di mira. Mi hanno insegnato a difendermi… Mi hanno trattato da grande e non da bambino come fanno i miei o i prof a scuola. Mio padre dice che sono dei drogati e dei delinquenti. È convinto che anch’io abbia fumato erba, ma non è vero! –. Innervosito, Marco si alzò in piedi e infilò le mani nelle tasche dei jeans. – Nessuno ha tentato di costringermi a f...