
- 228 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
" Pura è una parola che ho sempre trovato stupenda: esprime bellezza, autenticità ed è priva di compromessi. Pura è il modo in cui mi sento io, e se c'è un momento in cui questa purezza emerge in tutta la sua meraviglia, è subito dopo avere fatto sesso, quando ho ricevuto e soprattutto dato piacere. In quel frangente, la purezza deriva dall'essere me stessa, dal non indossare maschere o nascondere la mia natura più autentica. La purezza nasce dal rispetto profondo verso le proprie aspirazioni, dall'accogliere i desideri e le inclinazioni senza più farsi condizionare da giudizi altrui e preconcetti."
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Informazioni
eBook ISBN
9788835717805Categoria
Biografie in ambito musicaleParte prima
IN UN MARE SCONOSCIUTO
Radici
Quand’è stata la prima volta che ho preso consapevolezza del mio corpo? È una domanda che mi sono posta con una certa frequenza, senza riuscire a individuare un momento particolare. Credo che la sessualità sia entrata nella mia vita con la stessa naturalezza con cui ho imparato a camminare o parlare, senza la necessità di un evento scatenante. Mi capita spesso di rifletterci, nei momenti in cui la mente è più rilassata e riguardo con calma la strada che mi ha condotta a diventare Malena. Di solito mi abbandono ai ricordi prima di addormentarmi, quando la casa silenziosa si avvolge intorno a me, regalandomi la protezione delle cose familiari. Sotto il piumone, lascio che i pensieri si stacchino dalla frenesia quotidiana e fluiscano liberi di riportare voci, profumi, visi e sensazioni di giorni lontani. Gesti semplici e sorrisi privi di malizia, che bastavano a illuminare intere giornate, rivivono con la nostalgia e la tenerezza delle cose perdute. E accade allora che quasi mi sdoppi, sono di nuovo la bambina il cui cuore batte forte prima di essere chiamata alla lavagna dalla maestra o nell’attesa che il ragazzino che mi piace alzi lo sguardo verso di me. E allo stesso tempo sono la donna di oggi, che ha imparato a guardarsi indietro con indulgenza, consapevole di come ogni gesto, ogni parola, ogni gioia e ogni dolore abbiano contribuito a farmi crescere e a regalarmi la completezza che ho raggiunto.
Oggi so riconoscere le mie radici, vedo con chiarezza quanto siano profonde e quanto mi aiutino ad affrontare le difficoltà legate alla professione che ho scelto. Se essere donna non è facile in nessun ambiente professionale, per chi lavora nel mondo del porno i pregiudizi sono ancora più radicati. Con questo non voglio lamentarmi o piangermi addosso, quello che ho ricevuto e ricevo ogni giorno dal mio mestiere, non solo sotto l’aspetto economico ma anche e soprattutto della crescita personale e della sicurezza in me stessa, è impagabile. Sul set e nelle produzioni ho conosciuto persone magnifiche, che mi hanno dato tantissimo. Oggi mi considero una donna migliore di quella che ero solo sei o sette anni fa, sotto tutti i punti di vista, e questo lo devo in gran parte alla professione che ho scelto.
Quando ho iniziato a collaborare con Rocco Siffredi ero del tutto consapevole che mi sarebbe arrivato addosso uno tsunami di fango e maldicenze, ma non per questo mi sono nascosta. Credo anzi che l’averci “messo la faccia” dal primo momento abbia contribuito in buona misura a disinnescare i tanti leoni da tastiera che mi si sono scagliati contro, quasi fossi uno degli sfoghi migliori per le loro frustrazioni represse. Oggi le offese e le ingiurie mi scivolano addosso senza lasciare traccia, ma mentirei se dicessi che tutte le critiche le vivo allo stesso modo. Una cosa ha ancora il potere, se non di farmi arrabbiare, perlomeno di procurarmi molto fastidio, ed è il luogo comune che mi vorrebbe cresciuta come una sorta di sbandata, priva di affetto e sostegno. “Povera ragazza, chissà quante ne ha passate. Solo Dio sa in che ambiente privo di affetto dev’essere cresciuta.” Sono solo alcune delle frasi, certo non tra le più offensive, che sento quasi quotidianamente a proposito della mia infanzia.
Ricordo una volta in cui tornavo da un impegno di lavoro a Milano e guidavo, diretta in Puglia. Chiunque abbia percorso quel migliaio di chilometri di autostrada conosce bene l’effetto quasi ipnotico che gli infiniti rettilinei della A14 provocano sui viaggiatori. Le macchine che sfrecciano a un metro sembrano distanti come fossero di un altro pianeta, i paesi si riducono a fugaci vedute di campanili, ciminiere e campi di calcio dove mai metteremo piede. Per sfuggire alla noia, l’unica soluzione è fermarsi ogni due o trecento chilometri, per bere un caffè, fare pipì o anche solo per sgranchirsi le gambe. L’episodio a cui mi riferisco accadde nel 2017. Era un giorno in cui mi sentivo particolarmente stanca e, a peggiorare le cose, il cielo si era mantenuto su un grigio freddo e uniforme che non aveva lasciato scampo sin dalla barriera di Milano Sud. Ricordo che mi fermai in una stazione di servizio, da qualche parte a metà strada, e che parcheggiai in un piazzale invaso da TIR con targhe di ogni nazionalità. Appena sganciai la cintura e feci per scendere, di botto mi tornarono alla mente le parole che una nota conduttrice (ormai quasi ex, sarebbe più corretto dire) mi aveva rivolto durante una trasmissione TV di pochi mesi prima. Nella registrazione aveva sentenziato, con granitica sicurezza, che dietro la mia scelta lavorativa ci fossero grossi problemi di disagio familiare e anaffettività. Durante le riprese non avevo lasciato trasparire né fastidio né rabbia, anzi ricordo di essere stata molto sorridente e di aver risposto con un’educazione e una calma persino eccessive, quasi fossi disinteressata. L’immagine che diedi di me non corrisponde al vero, in realtà vivo le emozioni molto profondamente. È solo che preferisco tenerle per me, evitando piazzate e scene madri. Con le mie emozioni scelgo di fare i conti quando sono da sola, e così accadde in quel parcheggio spazzato da un vento gelido ai bordi dell’autostrada.
Appena feci per scendere dall’auto, chissà per quale misteriosa associazione mentale la voce insinuante della “quasi” ex conduttrice tornò a risuonarmi nelle orecchie, con tutto quel carico di pregiudizio sul modo in cui sono cresciuta, peggiorando l’umore già pessimo di quella giornata di viaggio. Questa falsa credenza mi fa arrabbiare per due motivi. In primo luogo perché mi sembra che sottragga responsabilità alle scelte che ho fatto, dipingendomi come una disgraziata, costretta dalla vita su un cammino a senso unico, senza alcuna possibilità di trovare strade diverse.
La seconda e più importante ragione è che viene tratteggiato un quadro della mia famiglia lontanissimo dalla realtà. Se dovessi usare un aggettivo per descrivere il mio ambiente familiare, quello più adeguato sarebbe di certo “normale”. Sono cresciuta come tantissime altre ragazze in una famiglia presente e generosa, che non mi ha fatto mancare nulla. Non eravamo certo ricchi, in famiglia lavorava solo mio papà, ma a me e mia madre non mancavano mai belle scarpe o abiti firmati. Mio padre era un vero e proprio cultore dell’ordine e della bellezza, amava le donne curate e ben vestite, mentre detestava ogni forma di sciatteria. Da piccola, quando studiavo, avevo l’abitudine di attorcigliare i capelli con le dita, un gesto che mi aiutava a mantenere la concentrazione e a escludere rumori e distrazioni. Un giorno ricordo che, mentre mi affannavo sulla poetica di Foscolo, tormentando i capelli con più forza del solito, d’un tratto alzai lo sguardo e trovai papà in piedi a un metro da me, che mi fissava.
«Che sono quei capelli? Vatti a sistemare!» esclamò, con voce calma e pacata, che nulla toglieva all’autorità che emanava da lui. Senza nemmeno pensarci, scattai in piedi e corsi in bagno a pettinarmi. In quel momento ubbidirgli e accontentarlo era per me molto più importante del compito in classe che mi attendeva il giorno dopo.
Mio padre non alzava mai la voce, da lui ho ricevuto un unico, solitario e indimenticabile schiaffo. Gli bastava un solo sguardo per farsi capire. Non è mai stato un uomo di grandi parole o gesti espansivi. Non ricordo un suo “ti voglio bene”, un abbraccio o un bacio. L’affetto l’ha sempre dimostrato con i fatti e con la presenza, e non era neppure un papà bacchettone o noioso. Amava circondarsi di amici molto più giovani di lui, quasi a sfuggire i molti coetanei troppo presto rassegnatisi alla pesantezza dell’età adulta.
Gioia del Colle negli anni Novanta era tutto fuorché un luogo mondano. Anche solo andare al ristorante fuori dalle occasioni canoniche – cresime, battesimi e matrimoni – appariva una sorta di stravaganza, eppure mio padre ogni sabato ci portava a mangiare fuori, facendoci sfoggiare i vestiti migliori. Amava tantissimo ballare, ogni occasione era buona per una serata danzante. Ancora oggi mi viene la pelle d’oca per la nostalgia di quando ci agghindavamo per uscire; in quei momenti si respirava in casa una sorta di elettricità al pensiero delle belle ore che avremmo trascorso insieme alla nostra famiglia allargata. Non frequentavamo molto gli amici, preferivamo vederci con un nutrito gruppo di parenti. Che fosse un veglione, la festa di carnevale o un semplice compleanno, non perdevamo occasione per riunirci e condividere momenti spensierati. Quando penso a quegli anni mi rivedo circondata dall’affetto allegro di zii e cugini, sempre sotto lo sguardo attento di mio padre.
Il rapporto con mia madre era invece molto più complicato. In lei vedevo soprattutto la parte severa, sempre pronta a puntualizzare e a rimproverare. Era, ed è ancora, una donna bellissima. Non ricordo nemmeno più quante volte mi hanno detto che era stata la ragazza più bella di Gioia del Colle. La ammiravo, avrei voluto tanto essere come lei, il mio aspetto l’ho preso tutto dal lato paterno, ma questo non era sufficiente ad avvicinarci. Litigavamo spessissimo, per motivi che, il più delle volte, mi sembravano ingiusti, anche perché io non ero certo una ribelle. Se mi imponevano la ritirata alle dieci di sera, alle ventuno e cinquanta ero a casa, immancabilmente. Non mi impuntavo mai; non chiedevo, come la maggior parte delle mie amiche, di poter restare fuori un’ora in più. Ubbidivo senza fiatare e la cosa non mi pesava, mi sembrava anzi nel giusto ordine delle cose. Eppure mia madre continuava a mostrarsi insoddisfatta, sommergendomi con la pesantezza del proprio carattere.
Uno dei pochi episodi di vicinanza che ricordo legato a lei, accadde quando avevo sedici o diciassette anni. Saremmo dovuti andare a una festa di compleanno, io mi stavo preparando, quando la sentii chiamarmi con una voce strana. Corsi in camera sua e la trovai con un gran sorriso in faccia, mentre indicava uno dei cassetti del comò. Seguii il suo sguardo e d’un tratto provai una felicità enorme: stava indicando il suo mascara, per la prima volta in vita mia avevo il permesso di truccarmi. Mentre i bei vestiti e qualche gioiello erano ben visti e anzi incoraggiati, i miei genitori consideravano il trucco una cosa volgare, mamma stessa ne faceva un uso lievissimo. Sino a quel momento non mi ero mai nemmeno potuta avvicinare a una trousse. Iniziai a saltare e urlare per la gioia, so che alle ragazze di oggi potrebbe sembrare una cosa ridicola, ma per me si trattò di una vera e propria conquista, un pezzetto di libertà che mi veniva concessa, e sono felice di aver condiviso quel momento con mia madre.
A parte questi rari episodi, tra me e lei non c’era molta complicità, purtroppo. Da lei tendevo anzi a nascondermi e un evento in particolare accentuò la distanza tra noi. In casa, all’epoca, non si parlava di sentimenti o problemi personali, figuriamoci di sesso. Non solo i miei genitori non ne parlavano con me, ma non credo di averli mai nemmeno sentiti discuterne tra loro. Da questo punto di vista non eravamo un’eccezione, in nessuna delle famiglie che conoscevo si affrontavano argomenti del genere. I luoghi deputati a indagare i misteri del corpo erano allora i corridoi di scuola, durante la ricreazione, o le staccionate del parchetto dove si ritrovavano le compagnie dei ragazzi di Gioia. Al riparo dagli adulti, tra le mie amiche era tutto un sussurrare frasi, a metà tra il misterioso e il finto sgamato, tipo: “Mi ha sfiorato il seno”, “me l’ha fatto vedere”, “ieri gliel’ho toccato”.
Appena partivano queste confessioni, io mi defilavo velocissima. Non avrei provato vergogna o imbarazzo a parlarne, sentivo piuttosto che fossero cose private, di cui si godeva molto di più se le si teneva segrete. A ripensarci suona decisamente curioso alla luce del mio percorso di vita, ma credo che le amiche mi considerassero una ragazza del tutto disinteressata al sesso. Piuttosto che confrontarmi con loro, preferivo raccontare dei primi turbamenti su di un piccolo diario, abitudine che avrei poi portato avanti negli anni, anche se con molta discontinuità. Di quel diario ero molto gelosa, lo tenevo in camera nascosto tra i libri più vecchi, dov’ero certa che fosse al sicuro.
Un giorno rientrai da scuola contentissima, avevo preso un “Ottimo” in matematica e non vedevo l’ora di raccontarlo a casa. In attesa che mio padre tornasse dal lavoro, corsi in camera per scrivere tutte le emozioni che sentivo dentro. Il vocabolario dietro a cui nascondevo il diario mi sembrò leggermente spostato, ma fu solo quando lo tirai fuori dalla libreria che sentii la rabbia gonfiarmi il petto. Il diario era girato al contrario rispetto a come lo avevo lasciato. Per la prima volta provai la sensazione di essere stata tradita, non tanto perché mia madre avesse letto ciò di cui non parlavo con nessuno, quanto per il modo in cui aveva agito, incurante della mia sensibilità. La persona che più di ogni altra avrebbe dovuto capirmi e proteggermi mi spiava di nascosto, e chissà da quanto tempo.
Corsi da lei e ne seguì una delle peggiori litigate di quegli anni. Ci urlammo contro a lungo per poi tenerci il broncio, sfinite e amareggiate, senza più scambiare una parola. Fu solo quando mio padre tornò dal lavoro che le acque si calmarono. Ricordo che entrò nella mia stanza, io ero buttata sul letto a pancia in giù, a digiuno, arrabbiata e con gli occhi gonfi di pianto. La gioia per il buon voto in matematica si era squagliata come le meduse che i miei cugini trascinavano d’estate sulla sabbia bollente. Papà si avvicinò, e con la voce calma di sempre disse solo: «Milé, lo sai com’è fatta! Non è per cattiveria, non resiste alla curiosità di sapere che combini. Tu, d’ora in poi, non le scrivere quelle cose, meglio se te le tieni per te».
Se mai ci fosse stato bisogno di una prova di quanto lo sentissi vicino, quell’occasione servì a suggellare il legame con lui. A differenza di mia madre, che mi mandava di continuo in bestia, a lui bastava un gesto per tranquillizzarmi. Eravamo profondamente complici, non certo come amici, piuttosto come un padre e una figlia consapevoli delle differenze di ruolo e di gerarchia esistenti tra di loro. Se con mia madre il conflitto era quasi all’ordine del giorno, mio padre era allora il mio primo e unico uomo. In lui trovavo il sostegno e la forza, ero sicurissima che il suo silenzioso affetto ci sarebbe sempre stato per me.
Scoperte
Oggi ritengo di vivere il sesso alle sue più alte potenzialità. Ne ho fatto non solo una professione, ma per molti versi una vera e propria forma d’arte. E a coloro che dovessero sentirsi scandalizzati se non offesi da questo accostamento, convinti che l’arte risieda soltanto nelle più alte creazioni dell’intelletto, vorrei chiedere: cos’è l’arte se non espressione di talento e creatività, un mezzo attraverso cui comunicare emozioni e una felicità pura e sana? E scoprire il piacere, perfezionarlo, ascoltare e comprendere il partner, fino a fondersi con i suoi desideri, non è l’espressione di un talento che unisce mente e corpo? Un’arte che non necessita di critici, libri e interpretazioni a suon di paroloni, ma che ciascuno può sviluppare liberamente, al riparo della propria camera da letto. Parlerò a lungo e con dovizia di particolari di che cosa intenda con questa idea di sesso come espressione artistica. Ciò che voglio anticipare da subito è che a tale “traguardo” non sono giunta perché sia una superdonna, baciata da madre natura con chissà quali doni o caratteristiche fisiche. Se oggi riesco a ricevere il massimo piacere fisico e mentale, se grazie al sesso mi sento ogni volta ringiovanire e rifiorire, non è perché abbia delle doti speciali. Qualunque donna, e lo stesso vale per i maschietti, può trovare nella pratica sessuale (quella privata e personale, naturalmente, non voglio fare proselitismo o apologia del porno), lo stesso mix di gioia, adrenalina e libertà che ho imparato nel tempo a sperimentare. Io stessa, a questa consapevolezza, sono arrivata un po’ per volta, facendo tesoro di ogni insegnamento che l’esperienza mi ha offerto.
Credo che il mio percorso sia stato duplice. Da un lato la sempre maggiore comprensione del corpo, acquisita grazie all’ascolto e all’attenzione verso tutte le sensazioni che il fisico mi trasmetteva. Dall’altro lato, altrettanto importante, un processo di liberazione e alleggerimento della mente, che mi ha consentito di buttare via tutti i fardelli da cui il sesso è storicamente schiacciato.
Quando è cominciato questo percorso, in quale particolare circostanza il sesso è venuto a bussare alla mia porta per la prima volta? Questa domanda mi è stata fatta un’infinità di volte e credo di aver deluso chi si aspettava chissà quali folli rivelazioni. La verità è che la mia iniziazione è avvenuta in modo lento e ponderato, senza colpi di testa o pazzie. La cosa che è rimasta costante, fin da quando ero ragazzina, è stata l’antipatia per la masturbazione. So che può suonare strano, molte delle mie coetanee raccontavano il piacere che si procuravano toccandosi e non ho niente in contrario all’esplorazione solitaria delle proprie zone intime. Non penso affatto sia un gesto immorale o inutile, anzi. Semplicemente, per me non ha mai funzionato. Le volte che provavo a toccarmi, incuriosita e attratta da quella parte di me che cominciavo a percepire affascinante e misteriosa, non riuscivo a provare un vero piacere. Avvertivo piuttosto qualcosa che all’inizio associavo al disagio, ma che poi ho presto identificato come “mancanza”. Quando avevo dodici o tredici anni, associavo il piacere sessuale unicamente alla presenza di un altro corpo (maschile, all’epoca le fantasie non mi consentivano di andare oltre). Era solo il contatto diretto, lo sfioramento involontario o cercato con un coetaneo a risvegliare dentro di me le prime avvisaglie del piacere fisico.
Con il tempo il rapporto con la masturbazione non è cambiato, non riesco a procurarmi il piacere da sola, a meno che non ci sia qualcuno che mi stia guardando o sia inquadrata da una telecamera. Pensare che qualcuno si ecciti osservandomi mentre mi tocco rende la masturbazione un gesto non più solitario, ma una vera e propria condivisione del piacere, e questo mi fa letteralmente andare fuori di testa. Naturalmente, e direi anche per fortuna, quando avevo tredici anni non c’era nessuna telecamera a riprendermi e così i miei primi incontri con il piacere sono avvenuti tramite i ragazzi.
Il primo che ho baciato lo ricordo come fosse ieri. Si chiamava Ennio, un mio coetaneo che consideravo il più bello di tutta la classe. Era alto, con la pelle scura al punto da sembrare quasi un mulatto e, a far da contrasto, una dentatura perfetta e bianchissima. Quando lo guardavo sentivo dentro di me un’agitazione nuova, un misto di emozioni che facevano a pugni l’una con l’altra. Sfiorarlo con le ginocchia seduta in mezzo alla comitiva, ascoltare la sua risata, sorprenderlo a guardarmi per poi girare la testa, o anche solo osservarlo mentre giocava a pallone con gli altri maschi, ogni suo gesto scatenava un miscuglio di tenerezza e desiderio di possesso. Avevo paura di trovarmi sola con lui e una voglia matta di riuscire ad avvicinarlo senza nessun altro presente. Tutte le notti andavo a dormire con il suo nome in testa. In lunghissimi film che proiettavo solo per me, Ennio si avvicinava con la bocca alla mia, togliendomi il respiro. Con la fantasia potevo gustare il sapore delle labbra, morderle leggermente, passarvi la lingua e sentirle morbide e umide. Era un’emozione nuova, a cui non sapevo dare un vero e proprio nome. A tredici anni, l’attesa del primo bacio è stata un’esperienza totalizzante, pura e ingenua, del tutto libera dalle disillusioni poi arrivate con l’età adulta.
A volte mi capita di riguardare le foto di quegli anni, le brevi gite con la classe dentro Gioia del Colle o a festeggiare qualche ricorrenza con la famiglia. In tutte mi sembra di scorgermi proiettata verso la macchina fotografica, in pose che suggeriscono una malizia ancora innocente ma già ben identificabile. Mentre le mie amiche sfoggiavano tute monocromatiche, o al più jeans poco femminili, io mi rivedo curatissima, con gonnelline e camicette sempre abbinate in modo impeccabile. Uno dei ricordi più belli è una breve vacanza a Roma, quando mia madre e mio padre mi regalarono il primo paio di scarpe con il tacco, cinque centimetri sotto una tomaia di vernice lucida. A sera le tiravo fuori dalla scatola e le rimiravo a lungo, non vedendo l’ora di sfoggiarle davanti a Ennio. I miei sentimenti per lui divennero uno degli argomenti preferiti di discussione con le amiche.
Ricordo che la mia scelta destò all’inizio molta sorpresa, nessuna delle compagne, infatti, ritrovava in Ennio lo stesso fascino che aveva stregato me. La cosa non mi dispiacque, anzi in un certo senso mi sollevò, la strada per conquistarlo era priva di concorrenza. In ogni caso, tutta la compagnia si prodigò affinché potessi coronare il sogno del mio primo bacio, in uno di quei moti di affetto spontaneo e disinteressato che a quell’età si danno purtroppo per scontati, non sapendo ancora quanto li si rimpiangerà scontrandosi con le maschere indossate nella maturità. L’occasione perfetta si manifestò con il mio quattordicesimo compleanno. Essendo nata in gennaio, la mia festa era sempre la prima e questo rappresentava per me motivo di orgoglio e rendeva la giornata ancora più speciale.
I quattordici anni, poi, rappresentarono un passaggio importante anche agli occhi della mia famiglia. Decidemmo di festeggiare al ristorante di mio zio, riservato tutto a me per l’occasione. Invitai l’intera classe, che era poi la cerchia delle amicizie anche al di fuori della scuola, incluso naturalmente Ennio. La serata trascorse come un sogno a occhi aperti, in un cresc...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Pura
- Introduzione
- Parte prima. IN UN MARE SCONOSCIUTO
- Parte seconda. LUNGO IL FIUME DELLA VITA
- Parte terza. UN PORTO DI TRANSITO
- Epilogo
- Ringraziamenti
- Copyright