Nelle stesse ore, Togliatti era a pranzo a casa. Togliatti in genere a pranzo mangiava in trattoria. Ma quel giorno era tornato a casa. Perché voleva stare tranquillo, per un colloquio delicato. E così aveva chiesto alla fidata Adalgisa un bel piatto di tortellini. Di cui era ghiotto. Al compagno Ercoli piacevano i tortellini.
Quel giorno a pranzo c’era Pietro Secchia, detto Botte. Andava fatta un po’ di strategia. Secchia era il numero tre nella gerarchia ufficiale del PCI, ma il primo nella gerarchia del PCI sotterraneo. Con il suo vivace spirito rivoluzionario, organizzava e guidava le azioni dei facinorosi che poi Togliatti e Amendola deploravano ufficialmente. Aveva a disposizione una vera e propria organizzazione paramilitare, di partigiani e militanti. Foraggiata con aiuti russi che arrivavano attraverso la Jugoslavia. Secchia aveva centomila uomini pronti alla lotta armata. Nel momento del bisogno. Con gruppi sceltissimi, tipo la “Volante Rossa” di Milano, che operavano all’ombra di associazioni innocue.
Togliatti lo aveva voluto a Roma per tenerlo sotto controllo. Ma Secchia non perdeva occasione per sbuffare contro i compagni che si erano persi nei meandri del lavoro ministeriale e parlamentare. A Roma proprio non riusciva a integrarsi.
«Segretario, la tensione cresce nel paese. Come sai, le rivoluzioni non cadono dal cielo. Procediamo?»
«Non ancora. Noi dobbiamo vincere le elezioni. Siamo il più grande Partito comunista in Europa. Possiamo e dobbiamo andare al potere per volontà del popolo. Non con le armi. E tanto meno con l’Armata Rossa...»
«Ma un aiutino?» Secchia smaniava. Mentre i tortellini erano finiti. E la Adalgisa era già pronta a portare quelli che erano rimasti nella pentola.
«Vedremo. Ora pensiamo a come procedere con la Costituzione. Il progetto va bene. Stiamo tenendo. Stiamo confondendo i democristiani. Ma ora il momento è decisivo. Me lo diceva ieri Calamandrei. Che tra i giuristi è il più bravo. Ora dobbiamo montare pezzi usciti da diverse officine. Potrebbe accadere che ci si accorga che gli ingranaggi non combaciano e le giunture non coincidono. E allora servirà qualche ritocco.»
«E quindi?»
«Quindi questo lo hanno capito anche gli Alleati. Anzi, secondo me glielo hanno detto quelli di Von Casper.»
A Secchia scappò una sonora risata. Ormai anche il Migliore usava il soprannome alla tedesca per De Gasperi. Alzò il bicchiere del vino, in segno di assenso.
Togliatti riprese: «Gli Alleati adesso vogliono un controllo diretto. Per avere articoli a loro favorevoli. Hanno chiesto un “tavolo di collaborazione”. Terracini è stato abile. Ha messo Giannini e Bozzi, che sono professorini. Poi la nostra Mattei che è dura. Ma chi mi preoccupa è quello dei democristiani. Il Dottore».
«Lo immagino bene, segretario. Noi lo teniamo d’occhio da tempo, il Dottore. Ha i suoi scheletri. Gli piacciono le donne. E penso che lo tengano d’occhio anche da Mosca.»
«Bene. Perché lui è troppo bravo. Bravo perché sa confondere le idee. Ha due talenti. Innanzitutto è un attore. Sa recitare, modulare la voce, fingere stati d’animo. Così confonde gli interlocutori. Ma la cosa peggiore è che conosce molto bene anche il diritto. Soprattutto i trucchi linguistici. Sai bene che basta cambiare una parola e cambia tutto.»
«In che senso?» Secchia aveva iniziato a fare l’operaio da ragazzo e non conosceva certo le sottigliezze dell’arte giuridica.
«Nel senso che una virgola, una parola modificano tutto il significato. Prendi l’articolo 1: quello che dice “l’Italia è una repubblica democratica”. Saprai quanto ne abbiamo discusso in sottocommissione. Io ho proposto di scrivere “repubblica democratica di lavoratori”, per mettere in chiaro l’impostazione marxista della nuova Italia. Invece proprio il Dottore si è messo a questionare, e stava quasi per far approvare una piccola modifica: “L’Italia è una Repubblica democratica del lavoro”.»
«E non sarebbe stata la stessa cosa?»
«Assolutamente no! Ci ho messo una buona mezz’ora a convincere i socialisti, anche loro ci stavano cascando. Se si dice repubblica di lavoratori si vuole intendere che lo Stato ha una impostazione marxista.»
«Certo» lo interruppe Secchia che di queste cose era esperto assai. «Significa che lo Stato è composto di lavoratori. E come sappiamo il lavoro è la caratteristica essenziale che distingue gli uomini dagli animali: solo gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza e il loro progresso. Il nostro progresso è condizionato dalla nostra organizzazione fisica. Il lavoro, cioè, non è la condanna dell’uomo come documenta la tradizione biblica, ma è l’unica manifestazione della libertà umana, ovvero della capacità di formare la propria esistenza specifica.»
«Parli come Marx.»
«Certo, perché conosco Marx a memoria. Questo è un passaggio fondamentale da L’ideologia tedesca.»
Togliatti tornò al piano applicativo: «Benissimo. Se scrivessimo “L’Italia è una Repubblica di lavoratori” siamo tutti sicuri di cosa vogliamo dire. Se invece cambiamo leggermente le parole, cambia tutto il senso. Non ci crederai, ma porto sempre con me il resoconto di quanto ha sostenuto quell’istrione del Dottore per spiegare alla Commissione cosa significa, a suo dire, “Repubblica democratica del lavoro”».
Togliatti prese dal taschino un portacarte e passò al compagno Secchia un foglio dattiloscritto, accuratamente piegato. Il pezzo centrale era evidenziato a matita rossa:
Dicendo che la Repubblica è basata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto a un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune.
Secchia non poteva crederci: «Ma è tutta un’altra cosa! Non più una Repubblica che appartiene ai lavoratori, ma una Repubblica che si fonda sull’impegno degli uomini... Anche Marx entrerebbe in ebollizione a leggere cose così. Pensa al Cremlino...».
«Esatto! Tutto per una sfumatura. Tutto per aver modificato “lavoratori” in “lavoro”. Un’astrazione che sfuma, annacqua, disperde... Come sa fare il Dottore. Magistralmente.»
Secchia bofonchiò, mandando giù l’ultimo mezzo bicchiere di rosso: «È proprio diabolico ’sto Dottore. Segretario, vuoi che gli diamo una lezione? Una di quelle che sappiamo dare noi...».
«Non ancora. Ma dobbiamo essere pronti a neutralizzarlo.»
La faccia di Secchia si illuminò. Questi erano i compiti che a lui piaceva eseguire: “neutralizzare” gli avversari.
Alle 17.30, nello studio di Ruini faceva più caldo del solito.
Oltre a Bozzi, alla Mattei, al Dottore e a Giannini erano venuti anche Togliatti, Nenni e Mario Cingolani per i democristiani. Poi avevano chiamato anche Saragat. Nitti aveva delegato il vecchio Orlando. Terracini stentava a tenere l’ordine.
Andava decisa una strategia sulla gestione del tavolo di collaborazione, come lo chiamavano gli Alleati. Anche se la Mattei preferiva piuttosto chiamarlo “il tavolo del ricatto”.
Saragat provò la mediazione. Cingolani lo seguiva. Il Dottore sembrava più assente del solito. Ma gli altri Costituenti non potevano certo sapere quanto tormento avesse dentro per quella busta verde.
Togliatti era aggressivo. Spavaldo. Del resto, il Migliore faceva sempre così. Quando sapeva di avere ragione era flessibile, finanche remissivo. Ma quando si sentiva in difficoltà, attaccava. Con forza. Era una tattica imparata a Mosca. Che portava sempre i suoi frutti.
E così, nello studio di Ruini, l’aria si scaldava.
Dopo una mezz’ora buona di battibecchi, Terracini fece valere la sua autorità di presidente. O almeno ci provò. Del resto, quando si confrontava con Togliatti era sempre in difficoltà, per la rivalità con il segretario.
Le strategie possibili, in sintesi, erano due, ritenendo non praticabile la tesi di rifiutare il tavolo, sostenuta con vigore solo dalla Mattei e, in parte da Nenni, che si sentiva sempre più forte.
«Allora cerchiamo di fare un punto. In sostanza, una prima possibilità è che la nostra delegazione faccia solo finta di collaborare, almeno per prendere tempo. Si può avviare un’analisi accurata del progetto di Costituzione, cercando di perdersi in cavilli, tecnicismi, interpretazioni.»
Si rivolse a Giannini, Bozzi e al Dottore: «Sappiamo che voi siete maestri del diritto e potete tenere gli Alleati in una palude giuridica per settimane».
Togliatti lo interruppe: «E non dimentichiamo che hanno anche la nostra Teresa che è brava, eh!».
Togliatti ci teneva a tenersi buona la Mattei. Soprattutto in quel momento in cui si era convinto che la mediazione fosse la strada migliore. A lui piaceva la mediazione. Un’apertura al dialogo, almeno una finta apertura, poteva far gioco. Sia alla prepotenza degli Alleati, sia ai suoi progetti di arrivare al potere.
Il Dottore per un attimo si distolse dal tarlo di Emma e della busta ancora chiusa e annuì ampiamente. Quella volta era sulla stessa posizione di Togliatti, anche se per motivi del tutto diversi. Avviare una finta mediazione e vedere che succede.
Terracini riprese la parola: «Ma si può anche collaborare davvero. Come ci dicono gli amici democristiani, gli Alleati possono aiutare molto la nuova Italia. Sarebbe inutile farli irritare con tattiche da doppiogiochisti».
Non restava che trovare davvero formule costituzionali di compromesso.
Cingolani faceva ampi cenni di assenso: «Sempre meglio realisti e soprattutto trasparenti, vero Giusepp...