«Bleah, non sa di niente. Di’ quello che vuoi, mamma, ma l’Oolong è mille volte meglio» dichiarò Jole, sputacchiando il tè verde che la madre le aveva regalato, magnificandone il gusto speciale.
«I tuoi soliti pregiudizi» sospirò Melania, versando una stilla di miele nella tazza scompagnata e sbreccata.
«Pregiudizi un cazzo, ’sta risciacquatura sembra bile.»
«Non dire parolacce.»
«Allappa ed è amara.»
«Fa bene al cuore.»
«E schifo al cazzo.»
«Vuoi un ceffone?» la minacciò la madre come quando lei aveva sei anni, cioè quarantacinque anni prima.
Jole, come allora, sbuffò, l’altra tirò dritto: «E poi previene i tumori».
«Che non ho.»
«Per ora, tesoro.»
«Ma vaffanculo, mamma! Comunque, la prossima volta ci facciamo un Lipton.»
«Non credo. Hai appena gustato l’Anji di Zhejiang, un tè molto pregiato che costa di conseguenza. Vedi di apprezzarlo.»
«Be’, sei miliardaria» la sfotté la figlia con un’alzata di spalle. «Puoi permetterti un colpo di testa, ogni tanto.»
«Centoventi euro dodici bustine?»
«Centoventi cosa? ’Sto piscio? Quasi quasi me lo rivendo.»
«Saresti capace» borbottò Melania assaporando la miscela bollente. «Ottimo.»
«Schifoso, mamma, soldi buttati.»
«Quanto quelli spesi per darti un’istruzione.»
Jole ruttò sonoramente.
«La smetti?»
Ruttò di nuovo.
«Spiritosissima» sospirò Melania alzandosi dalla sedia. «Bene, è ora che vada.»
L’altra, stravaccata su una poltroncina di velluto mezza sfondata, allungò la gamba e arpionò le Crocs con la punta del piede, si alzò e lisciò il prendisole stazzonato, incollato al sedere. «Merda, con ’sto caldo si appiccica tutto» mugugnò, sentendo le goccioline di sudore scorrerle lungo la schiena. «Come cazzo fai a non morire con quel cilicio?» domandò a sua madre che si stava abbottonando fino al collo la giacchetta di lino color melanzana.
«Un piccolo sacrificio per essere sempre in ordine.»
«Alludi? Ce l’hai col mio Kameez?»
«Per carità, tesoro, è così folk» rispose Melania con una smorfia, imboccando il corridoio. «Se fossimo nel ’71, poi, sarebbe di gran moda.»
«Stai invecchiando male, mamma.»
«Anche tu, figlia.»
«E la prossima volta che vai in Cina portami un kimono, non ’sto trinciato di calli e duroni che mi hai costretto a bere.»
«Il kimono è giapponese, Jole, non cinese» la corresse Melania. «E il tè verde è un coacervo di proprietà benefiche, non subisce ossidazione ed è un toccasana per i tessuti. Nessuno ringiovanisce, pensaci.»
«Parti subito?» cambiò discorso l’altra.
«Praticamente.»
«Dove hai detto che vai?» domandò Jole, afferrandosi una caviglia che piazzò sopra la testa, restando in equilibrio su un piede.
«Messico. Sei ancora piuttosto snodata» constatò Melania. «A che ti serve? Tanto, ormai.»
«Be’, con tutte le lambade che mi sorbisco, guai se non fossi snodata. E poi che cazzo vuol dire ormai? Mica ho cent’anni.»
«Nemmeno venti.»
«Messico dove, di preciso?»
«Città del Messico. Buona serata, cara» tagliò corto la madre abbracciandola senza trasporto.
«Farò il possibile. Chissà, forse scopo» la provocò Jole. «In caso vuoi saperlo?»
«No. Rimango col dubbio» ribatté l’altra. «Sempre col bebè, immagino.»
«Yes!» fece lei accompagnando la risposta con una strizzatina d’occhio. «E comunque è più giovane di te.»
«Di tre mesi?»
«Di tre anni.»
«Uh» squittì Melania. «Te la fai con un minore, rischi l’arresto.»
«È un bell’uomo» ribatté Jole.
«Ti credo sulla parola.»
«Vuoi sapere come si chiama?»
«No.»
«Tanto non te lo dicevo.»
«Disdetta.»
«È un tipo meraviglioso, sai?»
«Te l’ho chiesto?»
«Intelligente.»
«Furbo di sicuro.»
Jole incassò con una smorfia. «Capisci perché non te lo presento?»
«Non ti venga in mente. Potrei piacergli» la provocò Melania.
«Potrebbe odiarti» fece lei, un filo troppo seria.
«Non traslare, tesoro.»
«Io mica ti odio.»
«Sarà. Ma sappi che stare con tuo nonno non diminuirà gli anni che hai, se è questo a cui miri.»
«Non è questo.»
«Ah. Allora ti piace molle, è l’unica spiegazione che do al vostro rapporto malato.»
«Malato secondo te, che hai sotterrato quattro mariti, ti ricordo.»
«Mica li ho ammazzati. Due cancri e due infarti: è statistica.»
«Fai paura. Fredda e calcolatrice.»
«Sennò non potrei gestire l’azienda che ti lascerà la cospicua eredità che ti aspetti.»
«Non me l’aspetto, giuro. Ho un lavoro, stai tranquilla.»
«Un lavoro? Quell’ammasso di frustrati sovrappeso è un lavoro, secondo te?» domandò Melania, sinceramente stupita.
«Incredibile ma vero» confermò Jole.
«Ok, allora rivedrò il testamento e lascerò tutto alla Federazione Italiana Scala Quaranta.»
«Credevo l’avessi già fatto» buttò lì la figlia, scherzando fino a un certo punto.
Melania afferrò il trolley che aveva mollato all’ingresso, la ventiquattrore coordinata, la Book Tote di Dior e si piazzò davanti alla porta.
«Niente trucco? Come fai a rinunciare a uno sbaffo di kajal, mamma? Io morirei» sospirò Jole che sfoggiava, come sempre, occhi bistratissimi.
«Non sono una battona e ho ottant’anni. Ecco come faccio.»
L’altra deglutì per quell’accenno velenoso al suo maquillage.
«E poi vado in mezzo agli Aztechi, non mi serve il kajal» recuperò Melania, consapevole di avere esagerato.
«Il kajal serve sempre» osservò sua figlia, ripescando un soffio di leggerezza. «E, solo per sapere: in mezzo agli Aztechi ci vai con quel tailleur? Sarebbe meglio, che ne so… un poncho, un sombrero.»
«E dei baffoni spioventi, magari. Non sono un cartone animato, Jole, hai un’idea del Messico molto disneyana.»
«È questo che mi ha salvato la vita, mamma» rispose lei, seria. «Una visione del mondo molto disneyana.»
«Continua così, allora» ribatté l’altra punta sul vivo. «E, solo per sapere, quando ti togli quell’aggeggio dalla bocca?»
«A me piace, ho sempre desiderato l’apparecchio ai denti, meglio tardi che mai.»
«Quindi ti piace sembrare il bancone di un ferramenta?»
«Mi piace raddrizzarmi un canino che va per i cazzi suoi.»
«Speriamo che quel ladro di dentista sappia cosa fa.»
«Io mi fido.»
«Ah, per sopportare quelle tenaglie, lo credo. Fanno senso. Apri la porta, per favore? Ho le mani occupate.»
Jole fece scattare il chiavistello e si sforzò d’ignorare il refolo d’amarezza che l’aveva gelata, nonostante il pomeriggio torrido.
«E tornerai…? Quando?»
Melania esitò, lei si stupì: «Be’?».
«Due… settimane» bofonchiò la madre. «Massimo tre… non ho ancora deciso.»
«Ok. Perfetto.»
Il solito duello e Melania aveva vinto. Da mezzo secolo il tabellone a bordo ring le assegnava vittorie, che fossero per K.O., abbandono, squalifica o ai punti, come in questo caso.
«Quindi? Questo lo tengo io?» domandò Jole, indicando un vecchio borsone viola che Melania le aveva scaricato in ingresso appena arrivata.
«Sì, mi faresti un favore.»
«Quanti ricordi, eh?» sussurrò lei.
«Disastrosi, per lo più.»
«Ma come? In questa sacca c’è tutta la mia adolescenza!»
«Appunto.»
Il borsone viola e malconcio era stato il compagno di viaggio di Jole per molte estati. Sua madre, che non la voleva fra i piedi, la spediva in giro per il mondo per le cosiddette vacanze studio. Che poi lei studiasse o no, chi se ne frega, purché levasse le tende portandosi via turbe e tormenti.
Quella sacca con la scimmietta portafortuna attaccata alla tracolla diventava casa sua per due, tre mesi. Ci aveva persino dormito, quella volta che sulla spiaggia…
«Madonna mia, ma cosa c’è dentro? Mattoni?» esclamò Jole, sollevandola. «Sei come lo zio Augusto che andava in giro con le pietre in tasca» ridacchiò.
«Lo zio Augusto, sì» sibilò Melania, pensando al fratello deceduto, sedicente scultore, di cui si era sempre vergognata da morire.
«Ora non la posso portare a casa, non ho tempo. La vengo a prendere quando… quando torno.»
«Se non c’è dentro un cadavere…»
«C’è roba di lavoro, per lo più documenti da archiviare. Li ho presi in ufficio prima di venire qui; te li affido, abbine cura.»
«Certo» disse Jole richiudendo al volo il file “nostalgia”.
«E prendi queste…» aggiunse Melania, frugando nella Book Tote e porgendole un mazzo di chiavi. «Mi raccomando, poc...