La vista dello stretto di Kalmar, sull’acqua grigio-azzurra, oggi è coperta, e non vedo l’isola di fronte, Öland, anche se dev’essere molto vicina. Lì Lotte ha una piccola casa di villeggiatura, dove passa l’estate quando io ed Ernst non ci siamo. Racconta entusiasta del Trollskogen, il bosco incantato con gli alberi nodosi e dalle forme strane che al crepuscolo sembrano troll. Delle sconfinate distese di muschio e del muggito del mare. Il tempo che trascorre lì lo chiama vacanze. A me però sembra una fuga, e mi rifiuto di andarci.
Questa mattina sono stata sull’argine senza gli altri e sono scesa fino all’acqua, ho detto a Ernst e Lotte che sarei tornata per pranzo, perché a volte il silenzio mi parla più delle loro voci, a volte voglio stare sola, liberarmi la testa. E la bellezza della costa a Kalmar, questo miscuglio di grazia e asprezza, mi permette di non pensare a niente e mi obbliga semplicemente a respirare l’aria salmastra, che è così diversa da quella di Berlino.
Sono passati quarant’anni dai tempi di Berlino, quasi mezzo secolo. Eppure posso riandare a quel periodo come se sbirciassi in un’epoca remota dal buco di una serratura: io e Lotte al cavalletto, allora, nelle prime settimane dopo il nostro incontro casuale, quando divenni la sua modella. Nell’inverno del 1924. Ho quell’immagine davanti a me, noi che lavoriamo ai nostri primi ritratti, lassù, nell’atelier della scuola d’arte di Steinplatz. Sento le voci come se venissero da un vecchio nastro registrato, un po’ meccaniche, metalliche, ma piene di calore. Senza il sospetto che aleggia ora nei nostri discorsi.
“Ferma, stai lì seduta e non muoverti, stupidona che non sei altro!” ride Lotte.
“Stupidona un corno, mi si è addormentato il piede. Prova tu a star nuda qui al gelo per ore.”
“D’accordo, ti prendo la boule dell’acqua calda. Poi però riprendiamo.”
“Schiavista.”
“Senti un po’, si tratta di arte qui, mica storie. Dai, Traute, cucciola adorata, solo un’oretta e poi basta, te lo giuro. Verrà bene, vedrai. Davvero bene!”
Aveva ragione, venne bene. E io sarei rimasta ancora un bel po’ sullo sgabello per lei. Un’eternità.
Lotte dice che quando penso al passato divento sentimentale. «Sei così suscettibile, è tremendo» mi ha detto stamattina, perché mi sono schermita e ho tirato fuori gli artigli quando ha usato il vecchio nomignolo che una volta mi sembrava affettuoso e oggi mi infastidisce. Cucciola, ma vi pare, chi è che vorrebbe essere chiamato così? Dopo tutti questi anni? Eppure ha fatto finta di non capire, con quella fronte corrucciata e lo sguardo apparentemente ingenuo.
«C’è da aver paura a parlare con te» ha replicato alla mia reazione di rifiuto, «se vai in crisi per ogni sciocchezza.»
Uno stupido litigio, solo un istante di disaccordo, eppure mi ha indotto a vagare per la casa di Lotte a testa china. E continuo a sentirmelo dentro, nel profondo. Cucciola. Quel nomignolo, sempre quello stupido nomignolo. La faccenda ci perseguita anche qui in Svezia, da quando Lotte lo ha disseppellito come un’ascia di guerra che sembrava ormai quasi dimenticata. Deve per forza ricominciare a chiamarmi così, dopo tutto questo tempo? E per di più con un tono che a un tratto mi sembra proprio quello di una padrona che richiama all’ordine il suo cane. Da giovane l’ho sopportato centinaia, migliaia di volte – indifferente, commosso, sprezzante –, ma stamattina, dopo il primo soprassalto, la parola mi è sembrata un’umiliazione, quasi volesse mostrarmi qual era il mio posto. Come se non lo sapessi! Come se non sapessi che il mio contributo era minimo, che l’artista era Lotte e io la modella. Ma perché deve ricordarmelo di continuo? Perché non posso essere Traute, come sempre, o se fosse per me anche Gertrud, sebbene nessuno mi chiami più così. Sono forse una cosa, non una persona?
È vero che sono suscettibile, che le sue parole mi rimangono impresse e non mi rimbalzano addosso come le onde che qui sotto si infrangono contro il molo e poi si ritirano come se niente fosse. Magari non vedo le tracce della schiuma che l’acqua lascia sulla pietra, ma so che erode la roccia da sotto, millimetro dopo millimetro, inesorabile. Gli anni senza Lotte hanno fatto la stessa cosa con me, gli anni della guerra, il periodo in cui mi sono rifugiata in Tirolo con Ernst. Ce ne stavamo al riparo come due conigli nella tana e aspettavamo la fine. Non avevamo ricevuto neanche una riga da Lotte, e ignoravamo perfino se fosse viva. E poi, ancor più duri, i mesi dopo la guerra. Il lungo silenzio finché, ad aprile del 1946, Lotte scrisse e noi venimmo a sapere tutto della sua nuova vita in Svezia.
Riprendemmo la nostra amicizia. Dopo qualche scossone, però, perché quando nella sua prima lettera a Ernst mi chiamò Gertrud fu uno shock, un vero colpo. Poi ci riscaldammo di nuovo, riallacciammo un legame, come se fosse scontato.
Ma quest’estate qui a Kalmar è stregata, ogni parola detta è senza sapore. Mi sento come se avessi perso il senso del gusto o mi fossi morsa la lingua al punto da renderla insensibile. Ho una vaga idea del perché di questo cambiamento, ma non riesco ad afferrarla del tutto, a mettere bene a fuoco il problema.
Lotte sembra la stessa di sempre, fredda e pragmatica, ma io la conosco. La conosco come nessun altro al mondo, e lo posso dire nonostante tutto. Le rughe sottili intorno alla bocca, le peregrinazioni notturne per la casa, i banali quadri unidimensionali che dipinge adesso la tradiscono. Anche in Lotte l’acqua ha smussato gli spigoli più taglienti.
È strano pensare che oggi abbiamo tutti una patria diversa da Berlino. Bremerhaven è un buon posto per me ed Ernst. Non si può dire che sia bello, ma a Ernst l’aria di lì fa bene. E per me è buono come qualunque altro posto, con il tempo ho disimparato a legare il mio cuore agli oggetti, ai luoghi. È un’attitudine che si addice ai giovani, ancora convinti che qualcosa possa durare.
E Kalmar ora dovrebbe essere la nuova casa di Lotte? Un posticino incantevole, come fosse dipinto, ma non da Lotte. Da Liebermann, forse: nessuno sa dipingere i paesaggi come Max Liebermann. Quelli di Lotte, invece, sono sempre troppo accurati, per lo meno oggi. In passato faceva acquerelli dei campi della Marca di Brandeburgo: il sole che cadeva sui tronchi nodosi delle strade alberate, casupole chine sul limitare del bosco che ti facevano piangere di gioia. Oggi sembra che voglia imitare una fotografia, le torri di Stoccolma nitide e affilate. Oppure scivola nell’eccesso opposto, dipinge barche attraccate alla banchina, la spiaggia o una strada provinciale svedese smorte e sfocate, avvolte in un grigio fangoso, quasi tentasse di rendere invisibile ciò che ha visto. Come se non si fidasse più del suo sguardo.
In un modo o nell’altro, il risultato purtroppo non è granché, anche se Lotte sostiene che le piace realizzare pastelli. Ma è ridicolo. Sono io quella a cui capita di realizzare pastelli, cosa che naturalmente a Lotte non dico. E perché dovrei? È quasi imbarazzante, penso, la modella attempata che non riesce a staccarsi dall’arte e ora vuole mettersi a dipingere. In Germania mi fa bene giocherellare con i colori, sperimentare: anche solo quell’odore familiare, la sensazione di stare di nuovo davanti a un cavalletto… Ma qui in Svezia, in presenza di Lotte, rimarrei impietrita se cercassi di dipingere sotto il suo sguardo severo. Non è mai stato così, tra noi. Era Lotte a dipingere, non io. Alcuni dei miei pastelli, oggi, sono forse carini da vedere, è una tecnica gradevole, di quelle con cui non si può sbagliare molto. Va giusto bene per una casalinga che desidera riempirsi le giornate. Ma non certo per una Lotte Laserstein!
Alcuni dei suoi quadri attuali sono comunque graziosi, specialmente quelli di Sund quando vi si posa la luce del mattino e i colori si fondono dolcemente l’uno nell’altro. Un tempo, di fronte alla parola grazioso Lotte sarebbe inorridita, avrebbe accartocciato il foglio e ricominciato da capo.
Ho delle fotografie dei quadri dipinti allora a Berlino, e nelle ossa sento ancora le tante ore in cui ho posato per Lotte come modella. Seduta, in piedi, sdraiata: tutto. Lei era la pittrice più lenta del mondo e io la modella più perseverante di sempre. Era il mio pregio. Insieme alla mia bellezza, o per lo meno così era solita dire Lotte. Creava arte dal nulla, vedeva il quadro prima di realizzarlo. Una meravigliosa osservatrice, testarda fino all’inverosimile, che dipingendo non mi staccava gli occhi di dosso. Io invece non sono affatto un’artista, dei miei pastelli e delle mie fotografie non vale la pena parlare, anche se Ernst sostiene siano belli. Devo ammettere che in alcune foto che ho scattato a Lotte la vedo anch’io quella scintilla capace di rendere un’immagine un’opera d’arte. Di quelle sono orgogliosa. In realtà, però, sono sempre stata solo una modella, un materiale, e mi pare di ricordare che questo mi piacesse. Che all’epoca fosse più che sufficiente. Ma chi può dire davvero che cosa provassi tanti anni prima?
Oggi mi sento oppressa dal nostro passato, non riesco più a sopportare lo sguardo di Lotte calato su di me dall’alto. Ma che cos’ho io da contrapporle? Gli scatti e quei pochi quadretti che di recente mi sono messa a dipingere non valgono niente. Oggi, al massimo, posso definirmi una collezionista. Colleziono pensieri, ricordi, brandelli, come ali di farfalla in un contenitore segreto della mente, di quelli che si usavano per la raccolta degli insetti.
Che cosa ci fa Lotte ancora qui in Svezia? Com’è possibile che si sia ridotta a produrre soltanto quest’arte da quattro soldi, per guadagnarsi il pane, invece della sua arte, quella vera? La nostra arte. La sua bravura era l’elisir che ci manteneva vigili, che ci stregava. Ma se accenno a parlarne, colgo il suo sguardo che sembra intimare: sta’ zitta!
Eppure mi è vicina, in certi momenti quasi come prima, ma il silenzio che negli ultimi tempi si crea così spesso tra noi mi fa paura. In passato c’erano cose di cui non parlavamo, sentimenti che bandivamo come se ce ne vergognassimo. Anche Lotte lo sa, sa che ho ragione. Ma oggi sono incrostati da tutti gli anni e tutta la polvere che gli si è posata sopra.
A volte prendo fiato, sto per cominciare, penso di riuscire a forzare la sua corazza. Guardo Lotte, cerco di prendere la parola. Ma oggi i suoi sguardi sono ancora più penetranti di allora. Così il coraggio mi abbandona, e preferisco continuare a camminare lungo la spiaggia quasi deserta, affondando i piedi, seguo con gli occhi l’alano sconosciuto che vola sulla sabbia e si fionda nell’acqua spumeggiante, ascolto le voci dei gabbiani, quel che raccontano di altre coste, molto molto lontane.
Non mi resta che parlare con lei nel silenzio, dire tutto al vento. Così parlo da sola, come una vecchia pazza di cui un tempo la mia amica Lotte e io avremmo sorriso. E aspetto.
Traute, la mia buona, vecchia cucciola! Si comporta come un bambino imbronciato, e io non capisco che cosa le ho fatto. Eppure è così facile leggere nei suoi pensieri. L’ho ritratta talmente tante volte che potrei dipingere a memoria le dita dei suoi piedi, le vene e i tendini del suo corpo li conosco come i fiumi su una cartina. Dipende davvero solo dallo stupido nomignolo che le ho dato allora, a Berlino, senza pensarci su, e che lei trova inopportuno, ora che mi è tornato in mente all’improvviso? Altrimenti non si spiega perché nel sentire il suo vecchio soprannome sia montata su tutte le furie come un folletto stizzito. E adesso ce l’ha con me, quella sciocchina, come se l’avessi tradita.
Da quando è venuta da me a Kalmar quest’estate, con Ernst e decisamente troppi bagagli al seguito, improvvisamente Traute non fa che parlare di Berlino, dei tempi in cui eravamo lì. Mi chiede con la fronte corrucciata dei nostri anni insieme, come se li avessi dimenticati, e pensa che io non mi accorga del suo rimprovero. Cerca di blindarmi accanto alla stufa come fossi un vecchio gatto, e forse crede che comincerei a chiacchierare se lei mi provocasse. Si è sempre considerata particolarmente sensibile e scaltra, ma purtroppo è rimasta la sciocca di allora.
I nostri anni! Certo che me li ricordo. Ma non mi fa bene ricordarli, ed è questo che lei non vuole capire. Non mi piace rovistare in quelle vecchie storie e magari strappare ricordi dolorosi alla loro quiete. La cosa migliore, per me, sarebbe archiviare tutta la questione e godermi l’estate fin quando lei ed Ernst ripartiranno e mi lasceranno in pace. D’altra parte vedo le immagini di allora ben chiare davanti a me, il che è strano perché ci sono interi anni venuti dopo che sembrano essere stati inghiottiti dal nulla. Di quelli non è rimasto niente. La memoria è come un essere vivente, ha le sue leggi, e noi dobbiamo fidarci ciecamente. Alcuni fatti li colora molto amorevolmente, dipinge a tinte luminose i giorni e le ore trascorsi, e in quel caso annusiamo e gustiamo le cose di allora come fossimo tornati indietro in una capsula del tempo. Altri li cancella più radicalmente di quanto non riuscirebbe a fare la miglior gomma in circolazione, e anche se proviamo a reggere la carta in controluce e passiamo le dita sulle incisioni come su una scritta in braille non li ritroviamo più.
Anche se a Traute piacerebbe che ci sedessimo accanto alla stufa in un’innocente armonia e ci scaldassimo con i ricordi comuni, io non ne ho la forza. Per tutti gli anni in cui ci siamo viste dopo la guerra non era necessario essere sentimentali. Perché dovremmo esserlo adesso? È bastata un po’ di rabbia, una piccola insofferenza per via di un soprannome che a lei – chissà perché – non piace, per farle pensare che dovremmo dissezionare i nostri sentimenti di allora? Dirci finalmente tutto?
Io non sono mai stata così, lo sa benissimo. Tirar fuori materiale esplosivo, sentimenti caduti ormai da anni in prescrizione e dei quali non val la pena parlare, è un’abitudine davvero malsana. Non potremmo seppellirli dentro di noi e basta?
Quando mai sarebbero cominciati, quei presunti gloriosi anni berlinesi di cui Traute parla continuamente? Forse già alla Scuola di arti applicate, molto prima che la conoscessi. E non credo gradirebbe sapere che tutto è iniziato quando ancora non avevamo idea l’una dell’altra. Allora tutto mi appariva privo di speranza, eppure in quell...