
- 368 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Avventure della ragazza cattiva
Informazioni su questo libro
Nel 1950 il giovane Ricardo scopre di essere innamorato di una ragazza cattiva, una niña mala che lo fa impazzire con il suo charme ma gli dice sempre di no. Quando le loro strade si separano, Ricardo si trasferisce a Parigi. Ma anche qui la niña mala riappare, in una nuova versione: una militante del Mir in partenza per Cuba, dove verrà addestrata alla guerriglia. Da allora, nella vita di Ricardo, si alternano il lavoro di interprete e i tormenti che la ragazza cattiva gli infligge, in un crescendo che porterà il protagonista ad affrontare il suo vero sogno: scrivere. Un ritratto palpitante del mondo europeo e latinoamericano, dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, un'ispirata rievocazione condotta senza nostalgie ma con lucida intensità, sostenuta da una scrittura che si fa sempre piú limpida e rarefatta. Con protagonisti ed eventi reali e altri di fantasia, che insieme congiurano a creare l'affresco illuminante di un'intera stagione.
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Informazioni
Capitolo quinto
Il bambino senza voce
Fino a che Simon ed Elena Gravoski non vennero a stare nell’edificio art déco di rue Joseph Granier, nonostante il numero di anni che abitavo lí non ebbi amici fra i vicini. Avevo creduto che fosse arrivato a esserlo monsieur Dourtois, che lavorava alla Sncf, le ferrovie francesi, sposato con una donna dai capelli giallastri e dall’atteggiamento severo, una maestra di scuola in pensione. Viveva di fronte a me e, sul pianerottolo, per le scale o nel vestibolo d’ingresso ci salutavamo a cenni o con il buongiorno e nel giro di due anni cominciammo a darci la mano e a scambiare commenti sul tempo, preoccupazione perenne dei francesi. Grazie a quelle fugaci conversazioni ero arrivato a pensare che fossimo amici, ma scoprii che non era cosí una sera in cui, nel rientrare dopo un concerto di Victoria de los Ángeles al Théâtre des Champs-Élysées, mi accorsi di aver dimenticato la chiave di casa. A quell’ora, non c’era un fabbro che potesse aiutarmi. Mi sistemai meglio che potevo sul pianerottolo e aspettai le cinque della mattina, ora in cui il mio puntualissimo vicino usciva per andare al lavoro. Immaginavo che scoprendomi lí mi avrebbe ospitato in casa sua fino a che fosse stato giorno. Ma quando, alle cinque, monsieur Dourtois apparve e io gli ebbi spiegato perché stessi lí con le ossa a pezzi per la nottata di veglia, si limitò a compatirmi, guardando l’orologio e avvisandomi:
– Deve aspettare ancora tre o quattro ore circa, prima che apra un ferramenta, mon pauvre ami.
Tranquillizzata cosí la sua coscienza, se ne andò. Gli altri vicini di casa li incrociavo a volte sulle scale, e dimenticavo le loro facce subito e i loro nomi si eclissavano appena li conoscevo. Ma, quando la coppia Gravoski, e Yilal, il loro figlio adottivo di nove anni, vennero nella casa perché i Dourtois erano partiti per andare a vivere in Dordogna, fu un’altra cosa. Simon, un fisico belga, lavorava come ricercatore all’Istituto Pasteur, ed Elena, venezuelana, era medico pediatra all’ospedale Cochin. Erano gioviali, simpatici, alla buona, curiosi, colti, e, fin dal giorno in cui li conobbi, in pieno trasloco, e mi ero offerto di dar loro una mano e informazioni sul quartiere, diventammo amici. Prendevamo il caffè dopo cena, ci prestavamo libri e riviste, e alcune volte andavamo al cinema La Pagode, che stava nei pressi, oppure portavamo Yilal al circo, al Louvre e in altri musei di Parigi.
Simon era sulla quarantina, anche se la fitta barba rossiccia e la pancetta prominente lo facevano sembrare un po’ piú vecchio. Andava vestito come gli capitava e con un giaccone pieno di tasche gonfie di taccuini e di carte, e una grossa cartella piena di libri. Portava degli occhiali da miope che puliva spesso con la sua cravatta stropicciata. Era l’incarnazione del sapiente trascurato e distratto. Elena, invece, un po’ piú giovane, era civettuola ed elegante e non ricordo di averla vista mai di malumore. Tutto la entusiasmava nella vita: il suo lavoro all’ospedale Cochin e i suoi piccoli pazienti, di cui raccontava aneddoti divertenti, ma anche l’articolo che aveva appena letto su «Le Monde» o «L’Express», e si preparava per andare al cinema o a cena in un ristorante vietnamita il sabato seguente come se dovesse assistere all’assegnazione degli Oscar. Era piccolina, minuta, espressiva e trasudava simpatia da tutti i pori del corpo. Fra loro parlavano in francese, ma con me in spagnolo, che Simon dominava alla perfezione.
Yilal era nato in Vietnam e questo era l’unico elemento che conoscevano di lui. L’avevano adottato quando il bambino aveva quattro o cinque anni – neppure sulla sua età avevano certezza assoluta – tramite la Caritas, dopo una trafila kafkiana sulla quale Simon, in divertenti soliloqui, fondava la sua teoria dell’inevitabile disintegrazione dell’umanità causata dalla cancrena burocratica. Gli avevano messo nome Yilal da un antenato polacco di Simon, un personaggio mitico che, secondo il mio vicino, era stato decapitato nella Russia prerivoluzionaria per essere stato sorpreso in flagrante adulterio niente meno che con la zarina. Oltre che fornicatore reale, quell’avo era stato teologo cabalista, mistico, contrabbandiere, falsificatore di monete e scacchista. Il bambino adottato era muto. Il suo mutismo non era dovuto a deficienza organica – aveva le corde vocali intatte – ma a qualche trauma infantile, forse un bombardamento o qualche altra scena terribile di quella guerra del Vietnam che lo aveva reso orfano. L’avevano visitato vari specialisti e tutti concordavano nel dire che, con il tempo, avrebbe recuperato l’uso della parola, ma che non valeva la pena, per il momento, di imporgli ulteriori trattamenti. Le sessioni terapeutiche lo tormentavano e sembravano rafforzare, nel suo spirito ferito, la volontà di aggrapparsi al silenzio. Era stato alcuni mesi in un collegio per sordomuti, ma lo avevano tirato via da lí, perché gli stessi professori avevano consigliato ai suoi genitori di mandarlo in un collegio normale. Yilal non era sordo. Aveva un orecchio fine e la musica lo divertiva; seguiva il tempo con il piede e movimenti delle mani e della testa. Elena e Simon si rivolgevano a lui a viva voce e lui rispondeva loro a segni e gesti espressivi e, a volte, per iscritto, su una lavagna che portava attaccata al collo.
Era magrino e un po’ malaticcio, ma non perché mangiasse controvoglia. Aveva un eccellente appetito e quando io apparivo in casa loro con una scatoletta di cioccolatini o una pasta, gli brillavano gli occhi e divorava quelle golosità dimostrando grande gioia. Ma, salvo scarse occasioni, era un bambino solitario e dava l’impressione di perdersi in una sonnolenza che lo allontanava dalla realtà circostante. Poteva restare molto tempo con lo sguardo perso, chiuso nel suo mondo privato, come se tutto ciò che lo circondava fosse sfumato.
Non era molto affettuoso, piuttosto dava l’impressione che le moine lo infastidissero e che vi si sottoponesse piú rassegnato che contento. Dalla sua figura emanava un qualcosa di tenero e fragile. I Gravoski non avevano il televisore – ancora a quell’epoca molti parigini fra gli intellettuali ritenevano che la televisione non dovesse entrare nelle loro case in quanto anticulturale, – ma Yilal non condivideva quei pregiudizi e chiedeva ai genitori che comprassero un televisore come nelle famiglie dei suoi compagni di classe. Io proposi loro che se insistevano nel non fare entrare nella loro casa quell’oggetto che sminuiva la sensibilità, Yilal venisse di tanto in tanto da me a vedere qualche partita di calcio o un programma per ragazzi. Accettarono e da allora, tre o quattro volte alla settimana, dopo i compiti Yilal attraversava il pianerottolo e veniva a casa mia per vedere il programma che i suoi genitori, o io, gli suggerivamo. In quell’ora che passava nella mia saletta da pranzo, con gli occhi fissi sul piccolo schermo, guardando i cartoni animati, un programma di giochi o di sport, sembrava pietrificato. I suoi atteggiamenti e le espressioni del volto rivelavano la sua totale dedizione alle immagini. A volte, al termine del programma, si fermava ancora un po’ con me e chiacchieravamo. Vale a dire, lui mi faceva domande su tutte le cose immaginabili e io gli rispondevo, oppure gli leggevo una poesia o un racconto dal suo libro di lettura o dalla mia biblioteca. Ero arrivato a provare affetto per lui, ma cercavo di non dimostrarglielo troppo, perché Elena mi aveva prevenuto: «Devi trattarlo come un bambino normale. Mai come una vittima o un invalido, perché gli faresti un gran danno». Quando io non ero all’Unesco e avevo contratti di lavoro fuori Parigi lasciavo la chiave del mio appartamento ai Gravoski perché Yilal non perdesse i suoi programmi.
Al mio ritorno da uno di questi viaggi di lavoro, a Bruxelles, Yilal mi mostrò sulla sua lavagnetta questo messaggio: «Quando eri in viaggio, ti ha chiamato la niña mala». La frase era scritta in francese, ma niña mala in spagnolo.
Era la quarta volta che mi chiamava, nel paio d’anni trascorsi da quell’episodio in Giappone. La prima volta fu dopo tre o quattro mesi dalla mia accelerata dipartita da Tokyo, quando ancora stavo lottando per riprendermi da quell’esperienza che aveva lasciato nella mia memoria una ferita che ancora sanguinava a volte. Stavo facendo una ricerca nella biblioteca dell’Unesco e la bibliotecaria mi passò una chiamata dalla sala interpreti. Prima di dire «pronto?» riconobbi la sua voce:
– Ancora arrabbiato con me, niño bueno?
Riagganciai, sentendo che mi tremava la mano.
– Brutte notizie? – mi domandò la bibliotecaria, una georgiana con cui di solito parlavamo in russo. – Sei diventato molto pallido.
Dovetti chiudermi in un bagnetto dell’Unesco a vomitare. Il resto del giorno rimasi stordito a causa di quella chiamata. Però avevo preso la decisione di non rivedere la niña mala, di non parlare con lei, e di portarla avanti. Soltanto cosí mi sarei liberato da quella zavorra che aveva condizionato la mia vita fin dal giorno in cui, per dare una mano al mio amico Paúl, andai a prendere quelle tre aspiranti guerrigliere all’aeroporto di Orly. Riuscivo a dimenticarla soltanto a metà. Preso dal mio lavoro, dagli obblighi che mi imponeva – fra i primi quello di perfezionare il russo, – passavo a volte settimane senza ricordarmi di lei. Ma all’improvviso, qualcosa me la riportava alla memoria ed era come se un verme solitario s’impossessasse delle mie viscere e cominciasse a divorarmi l’entusiasmo, le energie. Cadevo in prostrazione e non c’era modo di togliermi dalla testa quell’immagine di Kuriko, che mi riempiva di carezze con un ardore che mai mi aveva dimostrato prima, per compiacere il suo amante giapponese, che ci stava osservando masturbandosi nell’ombra.
La sua seconda chiamata mi aveva colto all’Hotel Sacher di Vienna, nel corso dell’unica avventura che avevo avuto in quei due anni, con una collega di lavoro, in una conferenza della Commissione per l’energia atomica. La mia inappetenza sessuale era stata assoluta dopo l’episodio di Tokyo, tanto che ero giunto a chiedermi se non mi avesse lasciato impotente. Mi ero quasi abituato a vivere senza il sesso quando, nello stesso giorno in cui ci eravamo conosciuti, Astrid, un’interprete danese, mi propose con disarmante naturalezza: «Se vuoi, stasera potremmo vederci». Era alta, rossa, atletica, senza complicazioni, con certi occhi cosí chiari che sembravano liquidi. Andammo a mangiare alcuni tafelspitz con birra al Café Central, nel Palais Ferstel, Herrengasse, con colonne da moschea turca, tetto a volta e tavoli di marmo rosso, e dopo, senza bisogno di accordi, a letto nel lussuoso Hotel Sacher, dove eravamo alloggiati entrambi perché l’albergo faceva grossi sconti ai partecipanti alla conferenza. Era una donna ancora attraente, anche se l’età cominciava a lasciare alcune tracce sul suo bianchissimo corpo. Faceva l’amore senza che il sorriso scomparisse dal suo volto, anche nel momento dell’orgasmo. Io godei e lei anche godette, ma mi sembrò che quella maniera di fare l’amore, tanto sana, aveva a che vedere piú con la ginnastica che con quello che il defunto Salomón Toledano chiamava in una delle sue lettere «il perturbante e lascivo piacere delle gonadi». La seconda e ultima volta in cui andammo a letto, suonò il telefono sul mio comodino, nel momento in cui avevamo appena terminato le acrobazie e Astrid cominciava a raccontarmi l’azione di coraggio di una sua figlia che a Copenhagen, da ballerina classica era passata ad acrobata del circo. Alzai la cornetta, dissi «pronto?», e sentii la voce di gattina affettuosa:
– Mi riattaccherai un’altra volta, pichiruchi?
Rimasi qualche secondo all’apparecchio, mentre maledicevo mentalmente l’Unesco per averle dato il mio numero di Vienna, ma riattaccai quando lei, dopo una pausa, aveva cominciato a dire: «Dài, perlomeno questa volta…»
– Storie di un vecchio amore? – indovinò Astrid. – Me ne vado in bagno per lasciarti piú tranquillo?
No, no, era una storia arcifinita. Da quella notte, non avevo piú avuto nessun rapporto sessuale, e in verità la questione non mi preoccupava affatto. Con i miei quarantasette anni ero arrivato a verificare che un uomo poteva condurre una vita perfettamente normale senza fare l’amore. Perché la mia vita era abbastanza normale, per quanto vuota. Lavoravo molto e facevo il mio dovere con il lavoro, per riempire il tempo e percepire uno stipendio, non perché mi interessasse – questo mi succedeva ormai molto raramente. I miei studi di russo, e la quasi infinita traduzione dei racconti di Bunin che facevo e disfacevo, risultarono un passatempo meccanico, che soltanto molto di rado diventava interessante. Perfino il cinema, i concerti, la lettura, i dischi erano piú modi di occupare il tempo che attività che mi entusiasmassero, come prima. Anche per questo portavo rancore a Kuriko. Per colpa sua, le illusioni che fanno dell’esistenza qualcosa di piú d’una somma di cose routinarie, si erano spente. A tratti, mi sentivo un vecchio.
Forse per quello stato d’animo, l’arrivo di Elena, Simon e Yilal Gravoski nell’edificio di rue Joseph Granier fu provvidenziale. L’amicizia dei miei vicini iniettò un po’ di umanità e d’emozione alla mia insulsa esistenza. La terza chiamata della niña mala arrivò a casa mia a Parigi, almeno un anno dopo quella di Vienna. Era l’alba, le quattro o le cinque della mattina, e gli squilli del telefono mi strapparono dal sonno, spaventato. Suonò tante volte che, alla fine, aprii gli occhi e a tentoni presi la cornetta:
– Non mettere giú, – nella sua voce si mescolavano la supplica e la collera. – Ho bisogno di parlare con te, Ricardo.
Riattaccai e, naturalmente, non riuscii a chiudere occhio per il resto della notte. Ero angosciato, mi sentivo male, fino a che vidi spuntare un’alba color topo nel cielo di Parigi attraverso il lucernario senza tende della mia camera da letto. Perché insisteva a chiamarmi, di tanto in tanto? Perché, nella sua vita intensa io dovevo essere una delle poche cose stabili, l’idiota fedele e innamorato, sempre lí, in attesa della chiamata per far sentire alla padrona che era ancora quello che senza dubbio già stava cessando di essere, quello che presto non sarebbe stata piú: giovane, bella, amata, desiderabile. O forse, aveva bisogno di qualche cosa da me? Non era impossibile. All’improvviso era comparso nella sua vita qualche buchetto che il pichiruchi avrebbe potuto riempire. E con quel suo carattere gelido, non esitava a cercarmi, convinta che non ci fosse dolore, umiliazione, che lei, con il suo infinito potere sui miei sentimenti, non fosse capace di cancellare in due minuti di conversazione. Conoscendola, ero sicuro che non avrebbe desistito ; avrebbe continuato a provare, ogni certo numero di mesi, di anni. No, stavolta ti stavi sbagliando. Non ti avrei risposto al telefono, peruanita.
Adesso aveva chiamato per la quarta volta. Da dove? Lo domandai a Elena Gravoski ma, per mia sorpresa, mi rispose che lei non aveva risposto a quella telefonata né a nessun’altra durante il mio viaggio a Bruxelles.
– Allora, è stato Simon. Non ti ha detto niente?
– Lui non mette neppure piede nel tuo appartamento, torna dall’Istituto quando Yilal sta già cenando.
Ma, allora, era Yilal che aveva parlato con la niña mala?
Elen...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Nota di lettura
- Avventure della ragazza cattiva
- I. Le ragazzine cilene
- II. Il guerrigliero
- III. Ritrattista di cavalli nella Swinging London
- IV. Il Trujimàn di Château Meguru
- V. Il bambino senza voce
- VI. Arquímedes, costruttore di frangiflutti
- VII. Marcella a Lavapiès
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright