I quaderni di don Rigoberto
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I quaderni di don Rigoberto

  1. 352 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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I quaderni di don Rigoberto

Informazioni su questo libro

Rigoberto, padre dall'immaginazione troppo fervida è uomo di successo eppure inquieto. La notte fruga insonne tra i numerosi quaderni dove per anni ha annotato sentimenti e riflessioni. Lo muove la nostalgia per la seconda moglie che ha condiviso con lui dieci anni di appassionate fantasie notturne. Fonchito, figlio diabolicamente angelico, fanatico della pittura di Schiele, convince la matrigna a mimare per lui, insieme alla fascinosa cameriera, le scene che il pittore viennese fermava sulla carta. Ovviamente quelle piú ambigue e scabrose. Lucrecia, la matrigna dalla sensualità irresistibile, vittima anch'ella del rimpianto per il marito, si lascia trascinare dalla travolgente mania del figliastro, nonostante egli sia stato la causa del teatrale, inevitabile allontanamento fra i coniugi. Eppure sarà proprio la disarmante innocenza di Fonchito, il suo magnetismo erotico, la sua equivoca bellezza di ragazzino esperto in perversioni, a mettere in movimento un meccanismo di sfrenate immaginazioni, equivoci e inganni, che - forse - condurranno a un imprevisto e incerto lieto fine.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2019
Print ISBN
9788806188436

Capitolo secondo

Le cosettine di Egon Schiele

– Perché ti interessa tanto Egon Schiele? – domandò doña Lucrecia.
– Mi fa pena perché è morto cosí giovane e perché lo hanno messo in galera, – rispose Fonchito. – I suoi quadri sono bellissimi. Passo ore a guardarli, nei libri di papà. A te non piacciono, matrigna?
– Non li ricordo molto bene. Ma le pose le ricordo. Dei corpi rattrappiti, contorti, no?
– E mi piace Schiele anche perché, perché… – la interruppe il ragazzo, come se stesse per svelarle un segreto. – Non ho il coraggio di dirtelo, matrigna.
– Tu sai dire molto bene le cose quando vuoi, non fare lo sciocchino.
– Perché sento che gli assomiglio. Che avrò una vita tragica, come la sua.
Doña Lucrecia scoppiò a ridere. Ma un’inquietudine la invase. Da dove tirava fuori una cosa del genere, quel ragazzo? Alfonsito continuava a guardarla, tutto serio. Dopo un po’, facendo uno sforzo, le sorrise. Se ne stava seduto sul pavimento della stanza da pranzo, a gambe incrociate; aveva ancora indosso la giacca blu e la cravatta grigia dell’uniforme, ma si era tolto il berretto con la visiera, che era accanto a lui, tra lo zaino, la cartella e la scatola di matite dell’accademia. Allora Justiniana entrò con il vassoio del tè. Fonchito l’accolse con gioia.
– Chancays tostati con burro e marmellata, – applaudí, improvvisamente libero da ogni preoccupazione. – Ciò che piú mi piace al mondo. Te ne sei ricordata, Justita!
– Non li ho fatti per te, ma per la signora, – mentí Justiniana, fingendo severità. – Per te, un bel niente fritto.
Serviva il tè e disponeva le tazze sul tavolino della stanza. Nell’Oliveto, alcuni ragazzi giocavano a pallone e si vedevano le loro vigorose sagome attraverso le tendine; giungevano fino a loro, in sordina, parolacce, calcioni e grida di vittoria. Presto sarebbe calato il buio.
– Non mi perdonerai mai, Justita? – si rattristò il ragazzo. – Impara dalla mia matrigna; ha scordato quello che è successo e adesso stiamo bene come prima.
«Come prima, no», pensò doña Lucrecia. Un’onda calda la lambiva dai piedi fino alla punta dei capelli. Fece finta di nulla, bevendo piccoli sorsi di tè.
– Sarà che la signora è buonissima e io, cattivissima, – scherzava Justiniana.
– Allora, ci somigliamo, Justita. Perché secondo te io sono cattivissimo, no?
– Tu mi batti dieci a zero, – si congedò la ragazza, perdendosi nel corridoio della cucina.
Doña Lucrecia e il ragazzo rimasero in silenzio, mentre mangiavano i biscotti e bevevano il tè.
– Justita mi odia a parole, – affermò Fonchito, quando ebbe finito di masticare. – In fondo, credo che mi abbia perdonato. Non ti sembra, matrigna?
– Forse, no. Lei non si lascia abbindolare dai tuoi modini di bravo ragazzo. Lei non vuole che succeda di nuovo quello che è già successo. Perché, anche se non mi piace ricordare queste cose, io ho sofferto molto per colpa tua, Fonchito.
– Vuoi che non lo sappia, matrigna? – il ragazzo impallidí. – Per questo, farò tutto, tutto, per rimediare al male che ti ho fatto.
Parlava seriamente? Stava interpretando una farsa, con quel vocabolario da vecchietto? Impossibile verificare, in quella faccina dove occhi, bocca, naso, zigomi, orecchie e perfino il disordine dei capelli sembravano opera di un esteta perfezionista. Era bello come un arcangelo, un piccolo dio pagano. Il peggio, il peggio, pensava doña Lucrecia, era che sembrava l’incarnazione della purezza, un modello di innocenza e di virtú. «La stessa aureola di pulizia che aveva Modesto», si disse, ricordando l’ingegnere appassionato di canzoni strappalacrime che le aveva fatto la corte prima che sposasse Rigoberto e che lei aveva rifiutato, forse perché non ne aveva saputo apprezzare abbastanza la correttezza e la bontà. O, forse, aveva respinto il povero Pluto appunto perché era buono? Perché quello che attirava il suo cuore erano quei fondi torbidi in cui rimestava Rigoberto? Con lui, non aveva esitato un attimo. In quel bonaccione di Pluto, l’espressione pulita rifletteva la sua anima; in questo demonietto di Alfonso, era una strategia di seduzione, un canto di sirene che chiamano dall’abisso.
– Vuoi molto bene a Justita, matrigna?
– Sí, molto. Lei per me è piú che una cameriera. Non so che cosa avrei fatto senza Justiniana in tutti questi mesi, mentre mi abituavo di nuovo a vivere da sola. È stata un’amica, un’alleata. E cosí la considero. Io non ho i pregiudizi stupidi che la gente di Lima ha verso le domestiche.
Fu sul punto di raccontare a Fonchito il caso della rispettabilissima doña Felicia de Gallagher, che si vantava durante i suoi tè-canasta di aver proibito al proprio autista, un robusto nero in uniforme blu marin, di bere acqua sul lavoro in modo che non gli venisse voglia di orinare e non dovesse fermare l’auto per cercare un gabinetto, lasciando la padrona sola in quelle strade piene di ladri. Ma non lo fece, prevedendo che un’allusione anche indiretta a una funzione organica di fronte al ragazzo sarebbe stato come smuovere le mefitiche acque di un pantano.
– Ti verso altro tè? I chancays sono buonissimi, – la blandí Fonchito. – Quando posso scappare dall’accademia e vengo qui, mi sento felice, matrigna.
– Non devi perdere tanti pomeriggi. Se davvero vuoi diventare pittore, quelle lezioni ti serviranno molto.
Perché, quando gli parlava come a un ragazzino – come lui era – si sentiva dominata dalla sensazione di suonare falsa, di mentire? Ma se lo avesse trattato come un ometto, avrebbe provato identico disagio, lo stesso senso di falsità.
– Justiniana ti sembra carina, matrigna?
– Be’, sí. È molto peruviana, con la sua pelle color cannella e la sua arietta vivace. Deve aver lasciato dietro di sé diversi cuori infranti, da queste parti.
– Papà ti ha mai detto se a lui gli sembra carina?
– No, non credo che me l’abbia mai detto. Come mai tutte queste domande?
– Cosí, niente. Ma tu sei piú bella di Justita e di tutte le altre, matrigna, – esclamò il ragazzino. Anche se, subito, spaventato, si scusò. – Ho fatto male a dirtelo? Non ti arrabbi per questo, no?
La signora Lucrecia cercava di evitare che il figlio di Rigoberto si accorgesse del suo rossore. Lucifero tornava alle vecchie abitudini? Doveva prenderlo per un orecchio e mandarlo via, ordinandogli di non tornare? Ma ormai Fonchito sembrava aver dimenticato quel che aveva appena detto e frugava nella cartella alla ricerca di qualcosa. Alla fine, la trovò.
– Guarda, matrigna, – le porse il piccolo ritaglio. – Schiele, da piccolo. Non gli somiglio?
Doña Lucrecia esaminò l’adolescente allampanato dai capelli corti e dai tratti delicati, rigido in un abito scuro dell’inizio del secolo, con una rosa all’occhiello, e che la camicia dal collo duro e la cravatta a farfalla sembravano soffocare.
– Affatto, – disse. – Non gli assomigli per niente.
– Quelle che gli stanno accanto sono le sorelle. Gertrude e Melanie. La piú piccola, quella bionda, è la famosa Gerti.
– Perché, famosa? – domandò doña Lucrecia, a disagio. Sapeva molto bene che si stava addentrando in un campo minato.
– Come, perché? – si sorprese la faccetta colorita; le sue mani fecero un gesto teatrale. – Non lo sai? Fu la modella dei suoi nudi piú noti.
– Ah, sí? – Il disagio di doña Lucrecia si accentuò. – Vedo che conosci molto bene la vita di Egon Schiele.
– Ho letto tutto quello che c’è su di lui nella biblioteca di papà. Tantissime hanno posato nude per lui. Ragazze della scuola, donne della strada, la sua amante Wally. E, anche, la moglie Edith e la cognata Adele.
– Bene, bene. – Doña Lucrecia consultò il proprio orologio. – Stai facendo tardi, Fonchito.
– Non sapevi nemmeno che Edith e Adele le ha fatte posare insieme? – continuò il ragazzino, entusiasta, come se non avesse sentito. – E, quando viveva con Wally, nel paesetto di Krumau, la stessa cosa. Nuda, insieme a bambine della scuola. Per quella storia scoppiò uno scandalo.
– Non mi meraviglio, se erano bambine della scuola, – commentò la signora Lucrecia. – Adesso, visto che è quasi buio, sarà meglio che tu vada. Se Rigoberto telefona in accademia scoprirà che perdi le lezioni.
– Ma quello scandalo fu un’ingiustizia, – continuò il ragazzino, in preda a una forte eccitazione. – Schiele era un artista, aveva bisogno di trovare ispirazione. Non ha forse dipinto dei capolavori? Che cosa c’era di male nel fatto che le faceva spogliare?
– Porto queste tazze in cucina –. La signora Lucrecia si alzò in piedi. – Aiutami con i piatti e con il vassoietto, Fonchito.
Il ragazzino si affrettò a raccogliere con le mani le briciole di biscotto sparse sul tavolino. Seguí la matrigna, docilmente. Ma la signora Lucrecia non era riuscita a distrarlo dall’argomento.
– Be’, è vero che con alcune di quelle che posarono nude fece anche delle cosettine, – stava dicendo mentre percorreva il corridoio. – Per esempio, con la cognata Adele le fece. Anche se con la sorella Gerti non deve averle fatte, no, matrigna?
Tra le mani della signora Lucrecia le tazze avevano preso a ballonzolare. Quel mocciosetto aveva la diabolica abitudine, quasi che non dipendesse da lui, di portare sempre la conversazione su argomenti scabrosi.
– Certo che non le ha fatte, – replicò, sentendo che la lingua le si aggrovigliava. – Naturalmente no, che stramberia.
Erano entrati nella piccola cucina, con le piastrelle lucide come specchi. Anche i muri splendevano. Justiniana li osservava, incuriosita. Una farfallina svolazzava nei suoi occhi, animando la faccia bruna.
– Con Gerti, forse, no, ma con la cognata sí, – insistette il ragazzino. – Lo ha confessato la stessa Adele, quando Egon Schiele ormai era morto. Lo dicono i libri, matrigna. Insomma, fece delle cosettine con le due sorelle. Magari, era per quello che gli veniva l’ispirazione.
– Chi era questo sfacciato? – domandò la domestica. La sua espressione era vivacissima. Prendeva tazze e piatti e li passava sotto il rubinetto aperto; poi, li immergeva nel lavandino, pieno d’acqua schiumosa e azzurrina. L’odore di liscivia impregnava la cucina.
– Egon Schiele, – sussurrò doña Lucrecia. – Un pittore austriaco.
– È morto a ventott’anni, Justita, – precisò il ragazzino.
– Sarà morto per aver fatto troppe cosettine –. Justiniana parlava, risciacquava piatti e tazze e li asciugava con un canovaccio a rombi colorati. – E perciò stacci attento, Foncho, bada che non ti capiti la stessa cosa.
– Non è morto per fare cosettine, ma a causa della febbre spagnola, – replicò il ragazzino, impermeabilizzato contro l’umorismo. – Anche la moglie, tre giorni prima di lui. Che cos’è la febbre spagnola, matrigna?
– Una febbre maligna, immagino. Dev’essere arrivata a Vienna dalla Spagna, di sicuro. Be’, adesso devi andare, si è fatto tardi.
– Io lo so perché vuoi diventare pittore, furbacchione, – intervenne Justiniana, irrefrenabile. – Perché i pittori si danno da fare con le modelle, a quanto sembra.
– Non scherzare su queste cose, – la riprese doña Lucrecia. – È un bambino.
– Cresciutello, signora, – replicò lei, spalancando la bocca e mostrando i denti bianchissimi.
– Prima di dipingerle, giocava con loro, – Fonchito riprese il filo del suo ragionamento, senza prestare attenzione al dialogo tra signora e cameriera, – le faceva posare in diversi modi, per provare. Vestite, senza vestiti, mezzo vestite. Quello che gli piaceva piú di tutto era che si cambiassero le calze. Colorate: verdi, nere, di tutti i colori. E che si sdraiassero a terra. Insieme, separate, intrecciate. Che facessero finta di azzuffarsi. Rimaneva a guardarle per ore. Giocava con le sorelle come se fossero le sue bambole. Fino a quando gli arrivava l’ispirazione. Allora, le dipingeva.
– Ma che bel giochino, – lo provocò Justiniana. – Come quello di sfilarsi i vestiti, ma per adulti.
– Smettetela! Basta! – Doña Lucrecia alzò tanto la voce che Fonchito e Justiniana rimasero a bocca aperta. Poi si calmò: – Non voglio che tuo padre cominci a farti domande. Devi andare via.
– Va bene, matrigna, – balbettò il ragazzino.
Era bianco per lo spavento e doña Lucrecia si pentí di aver gridato. Ma non poteva permettergli che continuasse a parlare con quell’ardore delle cose intime di Egon Schiele, il suo cuore le diceva che c’era un tranello, un rischio che era assolutamente da evitare. Che le aveva preso a Justiniana per mettersi ad aizzarlo in quel modo? Il ragazzino uscí dalla cucina. Lo sentí che raccoglieva lo zaino, la cartella e le matite nella stanza da pranzo. Quando tornò, aveva sistemato la cravatta, si era infilato il berretto e aveva abbottonato la giacca. Immobile sulla soglia, guardandola negli occhi, le chiese, con naturalezza:
– Posso darti un bacio di congedo, matrigna?
Il cuore di doña Lucrecia, che aveva cominciato a placarsi, si agitò di nuovo; ma quello che la turbò di piú fu il sorrisetto di Justiniana. Che cosa avrebbe dovuto fare? Era ridicolo rifiutare. Assentí, chinando il capo. Un istante dopo, sentí sulla guancia il pizzicotto di un uccellino.
– E posso darlo anche a te, Justita?
– Solamente se me lo dài sulla bocca, – la ragazza scoppiò in una risataccia.
Questa volta il ragazzino stette allo scherzo, si mise a ridere, mentre si alzava sulla punta dei piedi per baciare Justiniana sulla guancia. Era una sciocchezza, naturalmente, ma la signora Lucrecia non osava guardare negli occhi la domestica e nemmeno riusciva a rimproverarla perché aveva esagerato con quelle battute di pessimo gusto.
– Io ti ammazzo, – disse alla fine, un po’ scherzando e un po’ sul serio, quando ebbe sentito chiudersi la porta di casa. – Sei diventata matta, fare tutti quei giochetti con Fonchito?
– È che quel ragazzino ha un non so che, – si scusò Justiniana, stringendosi nelle spalle. – Ti fa riempire la testa di peccati.
– Comunque, – disse doña Lucrecia, – è meglio non gettare legna sul fuoco.
– Fuoco, come quello che lei ha sulla faccia, signora, – rispose Justiniana, con la sua abituale parlantina. – Ma non si deve preoccupare, quel colore le sta da dio.
Clorofilla e Sterco.
Mi dispiace doverla deludere. Le sue appassionate arringhe a favore della difesa della Natura e dell’ambiente non mi commuovono. Sono nato, ho vissuto e morirò in città (nella brutta città di Lima, se è necessario trovare aggravanti) e allontanarmi dalla metropoli, sia pure per un fine settimana, è una servitú alla quale mi sottopongo a volte per obbligo familiare o per motivi di lavoro, ma sempre con disagio. Non mi includa tra quei burocrati la cui aspirazione piú cara è comprarsi una casetta su una spiaggia del sud per passarci le estati e i fine settimana in oscena promisc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I quaderni di Don Rigoberto
  3. I. Il ritorno di Fonchito
  4. II. Le cosettine di Egon Schiele
  5. III. Il gioco dei quadri
  6. IV. Fonchito in lacrime
  7. V. Fonchito e le ragazzine
  8. VI. La lettera anonima
  9. VII. Il pollice di Egon Schiele
  10. VIII. Belva allo specchio
  11. IX. L’appuntamento allo Sheraton
  12. Epilogo Una famiglia felice
  13. Nota del traduttore
  14. Copyright