Mi conoscete. Su, un piccolo sforzo. Il vecchio che suona i pianoforti pubblici, in tutti i luoghi di passaggio. Il giovedí faccio Orly, il venerdí Roissy. Il resto della settimana le stazioni ferroviarie, altri aeroporti, ovunque ci sia un pianoforte. Mi si trova spesso alla gare de Lyon, abito nelle vicinanze. Mi avete sentito piú di una volta.
Un giorno finalmente vi avvicinate. Se siete un uomo, non dite nulla. Fate finta di allacciarvi una scarpa per ascoltarmi un po’ senza darlo a vedere. Se siete una donna, sobbalzo. Il fatto è che ne aspetto una.
Non siete voi, non vi offendete. Sono cinquant’anni che la aspetto.
Avete mille visi. Me li ricordo tutti, non dimentico niente. Siete la ragazza che rimbalza tra la città e la periferia nelle mattine livide. Siete quel tipo in completo scuro a proposito del quale ricordo di aver pensato: «Quello deve fare l’amore con uno zelo da impiegato statale», anche se la cosa non mi riguarda: sono il primo a riconoscere che le donne sono un fascicolo complicato. Siete bianco, blu, rosso, verde, arcobaleno. Indugiate intorno ai miei pianoforti, sconcertati, perché non chiedo soldi. Allora mi avvicinate. Fate tutti la stessa domanda:
– Che ci fa qui un uomo come lei?
Come sarebbe, «un uomo come lei»? E suppergiú rispondete sempre:
– Un uomo come lei, che si presenta bene, anche se ha dimenticato di radersi la guancia sinistra. Un uomo ben vestito, anche se la foggia della sua cravatta è un po’ fuori moda. Insomma, un uomo che suona il piano come lei. Suona da dio, forse suona per Lui? Un talento come il suo non si spreca nelle stazioni o negli aeroporti. Lei suona come i pianisti che incantano il mondo in grandi sale rosso porpora. Lei invece incanta al massimo l’asfalto bagnato e cappelli di feltro zuppi d’acqua.
Ha ragione, signora. Giusta osservazione, signore. I miei palchi sanno di binari e cherosene. La mia Carnegie Hall e la mia Scala si chiamano Montparnasse, Roissy-Charles-de-Gaulle, Union Station, JFK. C’è una buona ragione. È una lunga storia, non vorrei tediarla.
La stragrande maggioranza di voi tira dritto per la sua strada. A volte insistete. Mi offrite una grossa somma di denaro perché suoni al vostro compleanno. A una cena mondana, un bar mitzvah. Mi vedete tentennare. Mi proponete di presentarmi vostro marito, che occupa un posto importante alla Philarmonie. Oppure vostro zio, impresario artistico. Io declino ogni volta, grazie, davvero, è molto gentile da parte sua. Sarei un pessimo ospite. Io prediligo gli spazi aperti, dove circola l’aria e sbattono le porte.
Ieri mi avete chiesto:
– Ci sarà anche domani?
Domani non è né giovedí né venerdí, per cui, sí, certo che ci sarò.
Smorzo un do diesis tra la partenza del treno delle 19.03 per Annecy e l’arrivo del treno delle 19.04 da Béziers, allontanarsi dal bordo del marciapiede. To’, siete tornati? Allora mi presento. Io sono Joe. Joe sta per Joseph, ma nessuno mi chiama piú Joseph da molto tempo. Joseph è un nome da grande musicista o da padre del messia.
Volete che suoni, certo, per mettermi alla prova. Per capire se c’è sotto un trucco. Oggi pretendete Berg, o Brahms.
Spiacente, io suono solo Beethoven.
Vi irrito un po’, lo vedo. Chiedo scusa. Mica posso disfarmi di cinquant’anni d’abitudine.
– Allora suoni il primo movimento della sonata Al chiaro di luna, – ribattete, – a rischio di cadere nel… classico!
Stavate per dire banale e non siete i primi. Gettate un’occhiata all’orologio, non volete rischiare di perdervi la cena fuori, gli amici o i colleghi vi aspettano, gli stuzzichini sono pronti. Le mani in sospeso, aspetto il ritmo. La motrice di un Tgv si arena sul binario L, ansimando da tutti gli opercoli. Una balena elettrica che parte a nuoto da Nizza a trecento chilometri all’ora, la minutaglia indigesta che risputa sul binario, un pastone turbinante di vetro fuso. Corpi che si distendono e filano verso il sonno, l’alcol, l’infarto, la noia o che so io. È tutto là, speranze e desolazioni. Voi non lo sentite.
Tocco la tastiera. L’arpeggio frenetico, gli accordi, presto agitato. Il terzo movimento, non quello che avete chiesto, non mi piacciono le cose prevedibili. Arricciate le labbra. Le pupille si dilatano, un drogato che respira di nuovo dopo un’iniezione di adrenalina. Alla fine restate in silenzio. Per un bel po’.
Vi è arrivato un tornado in piena faccia, come ad altri mille prima di voi. Vi ha sollevato, centrifugato e depositato di nuovo nello stesso posto. Non vi capacitate di essere ancora vivi. Non direte mai piú «banale». So che cosa provate. Non si sente un genio diventare sordo senza una certa emozione.
Dite:
– A un musicista della sua tempra si dà la Legion d’onore, si balbetta al suo cospetto. Lei, invece, passa inosservato per tutto il giorno. Non ha mai pensato di esibirsi?
Esibirmi? Non faccio altro.
Ho notato quella piccola smorfia di impazienza, quella che vi fa arricciare le labbra.
– No, intendo esibirsi su un palcoscenico. Non sarebbe certo il primo a lanciarsi in una carriera tardiva. In fondo è ancora giovane.
Grazie, signora, signore. Devo restare qui. Non vorrei perdere l’ultimo treno. L’ultimo aereo. Tenetevi pure le vostre Legion d’onore, le vostre medaglie, decorazioni che infilzano il cuore e lo appesantiscono.
– Potrebbe guadagnare un sacco di soldi, Joseph. E comprarsi un piano suo.
Mi chiamo Joe, non Joseph. E non ho bisogno di soldi. Ho tutti i pianoforti che voglio. E a sessantanove anni non sono piú giovane. Vi leggo negli occhi che state per obiettare. Vi fermo, non è per civetteria. Dico sul serio. Ho finito di essere giovane da un pezzo. Mi ricordo addirittura l’ora in cui è successo.
Andiamo a sederci a quei tavolini laggiú, di fronte ai binari. Il caffè non è buono, ma le sedie sono comode. Stavolta penso di dovervi una spiegazione.
Tutto è cominciato quando mi sono ammalato. Un male incurabile. Non sobbalzate, non sono contagioso. Mi folgorò il 2 maggio 1969. Io non avevo nessuna colpa, quelli che se lo prendono vi diranno la stessa cosa.
La mia infermità non è repertoriata nelle enciclopedie mediche.
Ma dovrebbe.
Mio padre diceva che un uomo non può vivere senza due cose fondamentali: un buon materasso e un buon paio di scarpe. Lui le vendeva entrambe. Non insieme, ovviamente. Aveva ereditato la fabbrica di materassi da sua madre, un’inglese rispettabile sotto ogni riguardo, o quasi, dato che era rimasta incinta durante le vacanze passate in Francia poco prima della guerra e vi si era stabilita. Le scarpe erano arrivate in un secondo tempo. Essendo venuto a sapere che il suo calzaturiere preferito era sul punto di fallire, mio padre, un uomo elegante, aveva rilevato l’azienda.
Primeggiava in tutto. Musica. Giardinaggio. Sport. Sarebbe potuto diventare medico o architetto. Sarebbe potuto diventare un prete o un rabbino, ma non credeva in Dio e non era ebreo. Non del tutto, in ogni caso: sua madre non era ebrea, dunque lui neppure e io ancor meno. A sentirlo, era meglio cosí. I suoi fornitori, da buoni cattolici, si lamentavano già abbastanza che era troppo rigido sui prezzi. Non voleva rischiare di essere accusato per giunta di aver maltrattato il loro Salvatore, soprattutto in un contesto di accresciuta concorrenza da parte degli americani. Quando mia madre suggerí che era forse il caso di iniziarmi a quella parte della mia storia, il mio quarto di ebraicità, lui si arrabbiò. Non ne abbiamo mai piú riparlato.
I miei mi tiravano su come fossi un progetto, con un fervore da dittatori. Mi amavano come si ama un piano quinquennale. Ma mi amavano. Io ero il loro piano quinquennale. Solo la mia insopportabile sorella sfuggiva a quella tirannia, perché aveva quattro anni. Dall’alto dei suoi mille e passa giorni, Inès era convinta che tutto le fosse permesso. Frugava in camera mia, toccava i miei dischi. Se alzavo la voce si metteva a piangere e la colpa ricadeva su di me. Insopportabile.
Qualche giorno prima che la mia malattia si manifestasse, senza sapere che tutti la stavamo covando, mio padre mi convocò nel suo ufficio.
– Ho appena parlato al telefono con Rothenberg. Dice che l’ultima lezione non è andata bene. Che ti stai impigrendo. Se continua cosí, al conservatorio non sarai promosso. Secondo lui stai sprecando il tuo talento. Hai una spiegazione?
Una ce l’avevo. Invece di esercitarmi a fare le scale al pianoforte avevo fumato di nascosto erba di campo con il mio migliore amico, Henri, nel bosco dietro la grande casa dei suoi genitori.
– No, non capisco. Eppure lavoro sodo.
– Non abbastanza, a quanto pare. Questo fine settimana io, tua madre e tua sorella andremo a Roma senza di te. Ne approfitterai per riflettere su cosa vuoi fare della tua vita.
Supplicai mio padre. Supplicai mia madre, che fece orecchie da mercante. Come se non bastasse, mi appioppò dei compiti di storia, che insegnava in un liceo. Oggi parlo con indulgenza dei miei genitori per via di quello che sarebbe successo in seguito. Anni di pioggia nera che mi avrebbe gelato fino al midollo. Ma quel giorno, altro che indulgenza: li odiai.
Abitavamo nella regione parigina. Andavo per i sedici e non mi mancava niente. La mia vita sapeva di cuoio e orchidee, dei profumi di Dior, la mia vita inquadrata dal muro di mattoni della nostra proprietà. Di notte immaginavo di fuggire, di rivoluzionare il mondo. Urlare ordini in spagnolo ai miei fedeli guerrilleros, con il berretto calato sugli occhi e la sigaretta tra le labbra. Prima però bisognava imparare lo spagnolo. Allora un giorno. Piú tardi. Nel frattempo i miei sogni di rivoluzionario morivano a ogni colazione che mi portavano a letto. Un modo come un altro per dire che ero un ragazzo normale. Un ragazzino della mia età, beneducato, un amabile cretino.
Con tutto ciò non penso di essermi meritato la mia malattia.
– Il ritmo! – sbraitava Rothenberg. – Il ritmo!
Il vecchio Rothenberg mi dava lezioni di piano. Era stropicciato come un foglio di carta: faccia, collo, mani, un braille di rughe da avere le vertigini. Ogni volta che lo vedevo mi veniva voglia di dargli una stirata.
Ma quando suonava…
Quando suonava, i re Magi si mettevano in cammino. Principesse esotiche e lontane si sdilinquivano nei loro palazzi di sabbia. Persino la signora Rothenberg, un’ombra appassita che profumava di petali e naftalina, ridiventava la regina di Saba che, sessant’anni prima, lui aveva sedotto sotto un nocciolo in fiore.
Rothenberg insegnava a suonare esclusivamente Beethoven. In un lontano passato di cui parlava di rado, il grand’uomo – che chiamava col nome di battesimo – gli aveva salvato la vita. Per giorni e giorni Rothenberg aveva suonato le sue trentadue sonate senza strumenti. Le dita in aria, i piedi nella polvere della Polonia. Aveva suonato per non impazzire.
Quando gli avevo chiesto se potevamo studiare qualcos’altro lui era andato su tutte le furie.
– Tu studi già qualcos’altro, imbecille. In Ludwig c’è tutto. Il prima e il dopo. C’è Bach e c’è Schubert. C’è Gabrieli, Mozart, Bruckner e quasi quasi anche Varèse. Cosa vuoi di piú?
Quella settimana, la settimana che mi ammalai, la settimana che Rothenberg chiamò mio padre, lo avevo esasperato. Oltraggiavo il ritmo e lui si strappava i capelli per la disperazione. O almeno, quei pochi che gli restavano nella chierica tinta di rosso che gli coronava la pelle chiazzata del cranio. La sua testa faceva pensare a un leopardo in fiamme.
– Nell’andante della Sonata n. 15 il ritmo è fondamentale. Vedi come si chiama?
Mi chinai per leggere la partitura.
– Uhm… Pastorale…
– Di che cosa parla?
– Boschi, ruscelli?
– Schmegegge! Boschi, ruscelli, che stupidaggini! La senti la pulsazione nella mano sinistra? È un signore che li scavalca, i tuoi boschi. Sale sulle spalle di Bach per scrutare oltre la cima degli alberi. E tu la suoni come uno schmock abbioccato sul prato dopo aver mangiato troppo! Come un ubriaco che cerca una donna nel Bois de Boulogne! Scansati, per l...