Modi dell’educare
La corporeità*
L’atto religioso dà tanto alto posto al bambino, ma lo inquadra anche. L’aspetto del bambino è bello e ci attrae. Forse perché siamo abituati e adusati ai volti tormentati e complessi degli adulti, rivelanti tante esperienze passate, tanti pensieri e sentimenti di cui sentiamo il peso in noi; forse perché portano somiglianze con volti di persone care; e per queste ragioni siamo trasportati a rallegrarci al volto di un bambino. Ci sembra che venga direttamente da Dio; anche perché in lui la compiacenza di vitalità ha qualche cosa di ingenuo, di impacciato, di delicato, che la purifica, ci fa sorridere. Con l’apertura religiosa noi cogliamo il riferimento, l’allusione che quella purezza fa alla realtà di là dai nostri limiti, la quale, nella nostra attesa, potrebbe parerci ideale, lontana; ed ecco il bambino ce ne fa vedere un lampo nella purezza del suo volto. Ci rallegriamo, come tutte le volte che vediamo l’ideale che si dà una sua realtà. La nostra gioia è pura perché è al culmine di un impegno al valore; prima questo, poi la realtà liberata; e prima questa poi il volto e la vita del bambino. Non è che noi saliamo da una sensazione a cercare un mondo ulteriore; noi scendiamo da un mondo superiore e universale al volto del singolo bambino, e questa non è più una sensazione del mondo, del tipo di quelle da cui ci siamo staccati nell’impegno al valore. Si riforma un mondo, ma sospeso ad una realtà liberata. Perciò non v’è più il pericolo che io consideri quella una sensazione, né che io abbia idolatria per il bambino, se io vedo la sua bellezza scendere dalla realtà liberata avvenire, a cui sono aperto. È festa pura, e non c’è rilievo sensuale.
Il fanciullo è il figlio della festa
Nella festa ci sono due elementi, un superamento del mondo aprendosi ad altro, segni o indizi di una presenza. Certe volte il viluppo è drammatico, e un’ombra grava sulla festa; poi l’ombra dilegua, e c’è una luce ch’era impensabile prima. Quello che è certo è che essa è uno dei più alti modi per porre il tema religioso: staccarsi dal mondo conservandone soltanto il meglio, e volgersi alla presenza di una realtà liberata, la quale si dà, nella festa, suoi oggetti, sue incarnazioni, che non son più quelli provenienti dal mondo, com’è prima della festa. Il fanciullo è il figlio della festa. La nostra purificazione con orizzonte universale è l’elemento preparatore; la sua purezza di lineamenti è l’elemento positivo; la bellezza del suo sguardo è il contrappeso della nostra doverosa serietà, fuori della quale non coglieremmo tutto il significato di esso, l’incoraggiamento e la conferma che ne vengono a noi a credere nel Dio che dalla realtà liberata ci manda elementi di presenza. Ma solo avendo ben dinanzi che cos’è la realtà liberata, si può cogliere nella bellezza questa presenza. Perché ci potrebbe essere il fanciullo deforme, straziato; e ci sono innumerevoli fanciulli consunti e morti, e realtà liberata significa una realtà in cui quegli esseri continuano a vivere e a svolgersi nell’Uno-Tutti, che sarà sempre più visibile nel mondo trasformantesi. Questa è la stella a cui oriento la mia bussola; e incontrando il fanciullo, mi rallegro alla sua bellezza e porgo a lui le cose necessarie alla vitalità, perché egli è un cittadino di questa realtà liberata, non perché è un essere la cui vitalità mi stia a cuore, mentre di quella degli altri fanciulli non m’importi nulla. In questo modo la bellezza che egli ha, la vitalità che si forma scendono da quella realtà liberata, e non son quelle strappate qui nel mondo individualistico l’uno all’altro.
Per una nuova vitalità del fanciullo
Vivendo questo, è certo che ciò che noi diamo al fanciullo perché viva, dal primo momento su su finché possiamo, è dato con la speranza che con lui ci sia una nuova realtà, anche fisica, che si dia modi di manifestarsi non meccanici e violenti, più alti, da realtà liberata. C’è religiosamente la fiducia che egli si costruirà una realtà libera dai nostri limiti; e se questo così non è, ciò non toglie che noi manteniamo la speranza per il lavoro ulteriore.
Educazione religiosa c’è, dunque, già nella generazione di un bambino se noi siamo aperti alla speranza che la vita che egli si darà, si costituirà una realtà di là dai nostri limiti. Nell’atto stesso in cui la madre dà il latte, essa ha religiosamente la speranza che si formerà un organismo che potrebbe essere sciolto dai limiti che la realtà qui ci presenta. Noi abbiamo mangiato nella nostra vita non ponendoci questa speranza; fornendo il cibo al bambino, noi la poniamo: quell’atto che sembra banale, si riempie di un significato che scende dall’apertura religiosa. È perciò errata la compiacenza della vitalità del bambino per se stessa: mille cose faremo per assicurarla, ma con la persuasione che quella vitalità ha possibilità di realtà liberata, cioè di manifestarsi nuova in un orizzonte spirituale, e non di essere quella vitalità che sa della lotta per l’esistenza, mors tua vita mea. L’inizio che essa sia diversa è che noi la sentiamo diversamente. Il metodo con cui l’educazione religiosa applica i vari modi educativi è che, pur assomigliando essi a quelli applicati a noi nella nostra formazione, sono inquadrati nell’apertura che essi siano resi diversi, nel riferimento e nelle conseguenze, dal fatto che sono applicati ad un essere che appartiene ad una realtà liberata. Così nel modo teso a favorire la vitalità, in tutte le cure che si propongono di costituire il corpo del fanciullo, c’è la persuasione che esso potrà essere costituito diversamente, e che prima o poi gli sia possibile quell’adeguazione corporea ad una realtà ideale che noi non abbiamo sperimentata. Evidentemente la conseguenza di questo è che noi accresceremo le cure per la vitalità del fanciullo, lo genereremo con più alta gioia, perché vi vediamo in gioco una realtà nuova, quella che possa servirsi degli elementi fisici trasfigurati, come celebrazione e non come potenza.
Il bambino che vediamo sorgere vitale è per noi in rapporto con tutti i bambini, anche i non vitali, anche i morti; e più numerosi sono i vitali, più ci troviamo visibile una realtà che comprende quasi tutti, e la realtà liberata è la compresenza di tutti.
Non esaltare al fanciullo la vitalità
Ma questa gioia resta per noi che sappiamo la possibilità a cui appartiene il fanciullo, e che la sua vitalità può essere trasfigurata rispetto alla nostra. Resta per noi nel senso che non dobbiamo render consapevole il bambino di una compiacenza per la sua vitalità, come fosse per se stessa un valore. È uno degli errori più grandi nell’educazione, e richiede grandi sforzi per essere superato. Il fanciullo vive là dove la vitalità non è un valore per se stessa: prova ne è la sua bellezza pur di un essere fragilissimo. Se noi gli esaltiamo la corporeità e la fotografiamo mille volte, e gliela rappresentiamo negli altri esseri viventi come un valore, lo diseduchiamo; gli rendiamo difficile di realizzare la nuova realtà, lo spingiamo al culto della forza, all’ammirazione per la potenza, alla visione di Dio come un ultrapotente: gli presentiamo la vita come un gioco di forza e non di creatività, non un dare e un aprirsi da un valore. Il fanciullo che non sia vissuto in queste sollecitazioni devianti, imparerà abbastanza presto ad ammirare, più che il potente o il fanciullo sempre-vincente, quello che sta nel letto malato, ed è buono, sereno, aperto; e potrà così imparare che anche chi sta a letto è intimamente vicino a tutti, e dà buoni sentimenti e vive idee a tutti.
La pulizia
Qualche cosa vorrei dire della pulizia e delle vesti. Lavarsi la faccia è un atto sociale, di quella intima società che è con tutto, anche con gli alberi, anche con la luce, e con Dio. Se Robinson si lava la faccia riconoscendo questa società, è molto meglio che se la lavi per igiene o per sentirsi meglio. Del resto, questo sentirsi meglio ed anche questa “igiene” non sono alieni dal fatto che uno ci si senta purificato, e ne abbia così uno spunto benefico per la spiritualizzazione del corpo. Lavare il bambino, come dargli il latte sono più che funzioni vitali; e così bisogna che il bambino si abitui ad aver cura della sua pulizia non per compiacenza o civetteria, ma per essere all’altezza di una di quelle “armonie” di cui parlavo: la sentirà certamente. Se non la sente subito, continuiamo a farlo noi, e a chiederglielo senza pedanteria e serenamente; soprattutto serenamente, non come un’imposizione ferrea e con strilli imperiosi che invogliano all’opposizione e alla lotta e che, come tutti gli imperi, impediscono di ascoltare l’intimo e di creargli all’esterno un’armonia conseguente. Serenamente vuol dire: facendolo noi persistentemente, e creandone la possibilità al bambino; che, del resto, ama l’acqua, questa bellissima compagna della vita, e in principio può anche accettare un gioco che porti con sé il lavarsi; e presto può apprendere a lavare altri bambini più piccoli o animali o mobili, e può anche rimanere mortificato se altri rifiutano la sua vicinanza, perché sporco e di cattivo odore (l’odore si presta a scherzi, ammonimenti, ecc.: il fanciullo presta molta attenzione agli odori, che poi attenua non coltivata).
Le vesti
Quello delle vesti dei bambini è un argomento alto, più di quanto sembri. Lo ha intuito il Manzoni: “Non c’è madre che sia schiava / della spoglia più festiva / i suoi bamboli vestir” (La Resurrezione). Qualcuno ha trovato meschina la cosa, e non capisco che si possa pensar questo. Una madre siciliana molto povera, ad un visitatore che le domandava sulla festa, rispose: “Quando ci sono i figli malo vestuti festa si fa?”. Il vestito al bambino è il riconoscimento della novità della sua bellezza. E ritengo che quanto più ci si adegui al senso religioso che ho indicato per questa bellezza, tanto più si darà sviluppo ad uno stile di abiti di bambini con un carattere di estrema sobrietà e pur di festa. Le madri sono capaci di sentirlo; però possono andare o verso l’idolatria e allora si perde la sobrietà, e gli idoli si vestono goffamente; o si resta in un tipo di abito semplicemente pratico; e anche qui vuol dire l’animo: se la madre lo fa per non starci a pensar su, è un atto sbrigativo, semplicemente amministrativo, e non religioso; se la madre è nella miseria, e mette insieme a fatica un vestito per suo figlio, con tutta la cura che può e l’amorevolezza austera della madre che pensa anche a tutti i piccoli, e vede il suo come uno di quelli, affidatogli: osservate quel vestito, vi troverete un segno, un taglio, una linea, che esprimono questo senso religioso, che sono il tramite da un animo che ha speranza ad una certezza presente.
Note
* Il capitolo è tratto da A. Capitini, Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Nistri-Lischi, Pisa 1953, pp. 215-220.
La gioia*
Che la gioia sia sentimento prossimo alla religione è cosa nota; la gioia è il segno che si è raggiunta la totalità, e rimanendo ancora la possibilità di un’attività, di esprimere qualche cosa, sorge la gioia: raggiunto un tutto, si espande la gioia. La gioia è anche il segno della certezza che dopo verrà qualche cosa di migliore, che la realtà è fatta come un gradino, e questa certezza di una migliore realizzazione si esprime in gioia. Queste due ragioni sono presenti nel fanciullo, che raggiunge agevolmente il senso di un tutto, e che ormai ha imparato che la realtà intorno a lui è crescente. Ma c’è una ragione fondamentale nella sua gioia, che è essenzialmente di una realtà liberata dai limiti; ed è la riconoscenza per avere problemi da risolvere, che la realtà presenti non il nulla, ma cose che sono occasioni di attività, di amore, di sapere. È il sentimento espresso da san Francesco nel Cantico delle creature, e presentato dal fanciullo nella sua forma più elementare, senza l’esplicito indirizzo teistico. Per questo il fanciullo è così facile alla gaiezza, alla festosità, perché coglie questo rapporto puro e originario. Ebbene questo è proprio della realtà liberata dai limiti; dove i problemi sorgono non per ragioni utilitarie, ma insieme con la gratitudine che sorgono tali occasioni, celebrando la presenza di un sapere che si costituisce insieme con la realtà. Questa gioia come dominante e persistente è la sollecitudine alla liberazione dal vedere il conoscere come utilitario: conoscere è cantare la gratitudine, la presenza di una realtà positiva infinitamente al posto del nulla; è rispondere con letizia alla scelta che fa la realtà di essere piuttosto che non essere. Il fanciullo mostra, a momenti, finché non è sopraffatto da un’educazione sbagliata, questa possibilità: che conoscere sia essere lieti e cantare, e rallegrarsi all’apparire di ogni cosa, dell’elefante, della cascata, della stella cadente, e al porsi il problema del loro essere.
Il comico
E un’altra ragione della gaiezza, che è molto istruttiva e si accompagna a questa, è la scoperta del comico, del buffo, del distruttivo, delle misure consuete. Cioè l’ambito della realtà è sentito più largo, perché ancora l’educazione e l’abitudine non hanno imposto un ordine e spento l’esigenza di altro; resta la proposta che l’abitudine fa di un ordine, ma è anche ammessa la possibilità che questo ordine sia infranto; ed uno si vesta in modo singolare, o si muova, gesticoli; e questo suscita gaiezza, appunto perché è un nuovo modo di essere anch’esso, un realizzarsi fresco e inedito, e l’animo non è sopraffatto del tutto dall’abitudinario.
Armonie con la gaiezza del fanciullo
Il senso profondo della gaiezza del fanciullo è colto, dunque, dall’atto religioso perché, al sommo della serietà dell’impegno, la mette in rapporto con ciò che attendeva, e perciò la coltiva e la incanala verso il suo significato migliore e puro. E siccome la gaiezza è un canto, non va interrotta arbitrariamente, ma solo con ciò che lo stesso fanciullo può accettare, e che precisamente è il lavoro per risolvere quel problema portato dalla realtà che suscitava la gaiezza. Il modo dell’educazione a questo riguardo è di intuire il problema che c’è nella letizia del fanciullo e di trarne un’attività. Per esempio il fanciullo è allegro perché lo porto in una campagna e gli schiudo la possibilità di camminare e correre liberamente in prati e campi; ma ecco che qui sorgono tanti problemi, e un’attività che il fanciullo intraprende volentieri. Per esempio un gruppo di fanciulli è lieto di ritrovarsi insieme alla mensa e festeggia quando si è assiso: lì non ci sarà soltanto da svolgere la complessa attività del mangiare, rispettando il turno, servendosi della forchetta, ecc., ma io posso inserire il canto di un coro, che è un ben complesso lavoro, prima che la compagnia sia sciolta.
Cogliere il rapporto tra la facilità del fanciullo alla gioia e il sorgere dell’attività è costruire dei piani di lavoro e di scoperta del sapere che mette al posto dei centri di interesse trovati nelle funzioni vitali motivi più profondi e religiosi. Non capisco perché si voglia rendere il fanciullo falsamente concreto e inutilmente materializzato di quanto egli voglia essere; per esempio nel fatto del mangiare, tirandolo ad apprendere come si è svolta l’alimentazione nei secoli, o come si svolge nel vario mondo degli esseri viventi. L’argomento si appesantisce immediatamente, e quell’amorfa oggettività o storia resta estranea o è accettata ineducativamente: il fanciullo farà sforzi, finché non sarà sopraffatto, per ricondurre all’essere vivente ciò che dovrebbe essere il fatto oggettivo-storico; e vi dirà: e allora che cosa fa? Che cosa fanno? Perché pensa che cosa farebbe lui a quel posto, abbozza un progetto, si propone un programma di azione; e qui ci sta non l’alimentazione per l’alimentazione, ma il problema di evitare e impedire certa alimentazione (per esempio l’antropofagia), il problema di apprestare alimentazione a dei bambini, tutte cose presenti e dinamiche in cui il tema non è quello astratto, privo di riferimenti al valore, positivistico, del nutrirsi soltanto.
Così è il tema dell’abitazione e del riparo dalle vicissitudini atmosferiche, da non presentare per se stesso, come un evento scientifico-costruttivo, mettendone a nudo l’esclusivo fatto di sottrarsi alle intemperie: il fanciullo si interessa molto più se gli parliamo del lavoro dell’uccellino per foggiarsi il nido dove starà con i piccoli (amore), si interessa molto di più dei racconti che danno alla casa il significato misterioso e umano che ha, per esempio nella foresta o nella notte tempestosa; o si appassiona alla casa per motivi più profondi che quelli semplicemente di come hanno fatto variamente gli uomini, e deve sentire la notizia legata a come farebbe lui, per esempio il tetto spiovente per la neve; e allora sta attento alle varie fogge.
Un esempio di quello che sto dicendo è la vasca, la fontana, che dà sempre gioia ai bambini (i comici e i costruttori di fontane sono benefattori dell’umanità). Essi vi cercano ciò che è vivo, e s’interessano moltissimo se vi sono pesciolini che anch’essi godano come loro, e anzi il godimento è lì accresciuto da quel senso di mistero e di ammirazione per il coraggio perché i pesciolini vi stanno addirittura dentro. Li vorrebbero toccare, stabilire un rapporto di amicizia con loro. Ma la stessa festa dell’acqua, che essa si muova e zampilli e scrosci, li rallegra; sembra loro come un’espressione della vivace gaiezza che li anima.
La gioia del fanciullo è all’origine di due direzioni educa...