Cultura di destra e società di massa
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Cultura di destra e società di massa

Europa 1870-1939

  1. 512 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Cultura di destra e società di massa

Europa 1870-1939

Informazioni su questo libro

In questo volume Mimmo Cangiano disegna una mappa dettagliata della cultura della destra europea così come si evolve e consolida tra gli ultimi decenni dell'Ottocento e la vigilia della Seconda Guerra Mondiale: con le sue linee di intreccio e i tracciati divergenti che solcano un territorio di idee e prassi delineato, dopo la "morte di Dio", da topoi-snodi ricorrenti (Kultur, comunità, tradizione, tecnica, anti-materialismo, lavoro, guerra, nazionalismo, razzismo, atomizzazione delle masse) e fiancheggiamenti o controversie rispetto ai partiti e ai vari governi fascisti che prendono forma in Europa in quel periodo. Nell'ampio spazio compreso tra storia, letteratura e filosofia, Cangiano esplora la produzione culturale fitta di scambi dell'intellighenzia di destra – una nutrita pattuglia intergenerazionale che va da Hofmannsthal a Malaparte, da Guénon a Jünger, da Benn a Evola – scavando e ricostruendo, alle origini del Secolo Breve, un'"archeologia" del fenomeno che potrà essere utile anche a chi riflette sugli sviluppi della cultura di destra nelle nuove forme della "società di massa" della nostra epoca.

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Informazioni

I. Kultur, Forma, Comunità

1. Preludio in Austria: Hofmannsthal e l’identità di artistico e politico

Il passaggio da un intenso interesse per l’arte a qualche altro ufficio elevato e sacerdotale non dovrebbe mai meravigliare.
Hugo von Hofmannsthal
Nel febbraio 1921, Hofmannsthal, che ormai da un trentennio si interrogava su tali questioni, ancora chiedeva, in una lettera ad Anton Wildgans, se davvero il linguaggio avesse il potere di federare fra loro, in una comunità, un insieme di individui atomizzati1. La Sprachkritik, l’orizzonte culturale secondo cui il linguaggio smette a un certo punto di essere uno strumento neutro per la significazione, diventando invece un’insormontabile barriera che separa l’essere umano dal reale (questione significativamente apparsa nel dibattito intellettuale europeo in contemporanea all’annuncio nietzschiano della “morte di Dio”2), viene dall’austriaco posta non solo in connessione col palcoscenico culturale che Martin Heidegger definirà poi “crisi dei Fondamenti” – quello appunto segnalato da Nietzsche, nella seconda Considerazione inattuale, mediante una “malattia delle parole”3 tesa a rifiutare ogni simbolico ordinamento linguistico –, ma allargata all’impossibilità di una conformazione sociale di tipo comunitario e universalistico. Per Hofmannsthal, quella frammentazione che la filosofia nietzschiana esprime come sintomo non si arena alla problematica epistemologico-conoscitiva, per quanto importante, ma si estende subito per farsi indizio di un’atomizzazione sociale in atto, specchio di quella società diventata essa stessa, secondo le parole del neo-kantiano Wilhelm Windelband, una “figura della lacerazione”, cioè un agglomerato non dominato da alcun connettivo spirituale4. Nello stesso 1921, del resto, nel saggio Il vero Stato, il sociologo cattolico e corporativista Othmar Spann definisce la coeva conformazione sociale come di tipo individualistico, cioè dominata da fattori quali assenza di legami, predominio dell’utilitarismo (rapporto strumentale dell’uomo col reale e coi suoi simili), abbandono della metafisica e trionfo del disincanto. La progressiva razionalizzazione che svuota il mondo dagli dei5 è associata da Spann non solo al progressivo avanzare del sistema capitalistico, ma anche a una linea filosofica (Bacone, Locke, Hume ecc.) che, dalla fine del Medioevo in poi, si è immessa sulla strada dello scetticismo, demolendo, all’unisono, certezze onto-teologiche e coesione sociale.
La morte di Dio, vale a dire il progressivo tramonto della struttura stabile dell’Essere, la distruzione del sopramondo simbolico in grado di dare fondamento all’immanenza dei nostri atti (e delle nostre parole), significa l’impossibilità da parte del soggetto di ordinare la pluralità dei fenomeni senza che la sua azione ordinativa gli appaia immediatamente come una finzione, come una forma costrittiva il cui scopo è forzare la molteplicità della vita in una sintesi che in realtà non esiste. Nelle brecce che si aprono nell’idea di un fundamentum veritatis il collasso linguistico è inevitabile: come gli atti concettuali del soggetto vengono avvertiti quali tentativi di ridurre ad astratta unità “l’anarchia degli atomi” (altra espressione nietzschiana) che ora la vita manifesta, così le presupposte totalità espresse da frasi e parole diventano camicie di forza che impediscono al reale di emergere, per cui il crollo delle possibilità ordinative del soggetto diventa anche crollo dell’ordine della frase. Il soggetto avverte il valore convenzionale del segno linguistico come non più in grado di universalizzare il particolare che esprime: “L’intero, rispecchiato dalla totalità conclusa del periodo, impedisce che la pluralità del reale emerga nella sua inesauribile frammentarietà”6.
È un tema che ha il suo epicentro (tanto teorico che artistico) appunto in quell’Austria che, per Robert Musil, sarebbe andata in rovina per la sua inesprimibilità7: palcoscenico europeo della perdita del centro, tracollo delle antiche certezze, della struttura della razionalità classica, i cui modelli si pietrificano dinnanzi all’uomo che li ha creati e gli appaiono come atti di violenza contro l’inesorabile fluidità della vita. Nella presupposta totalità della frase il divenire della realtà non può emergere, perché la parola è solo una camicia di forza sul fascio instabile delle sensazioni momentanee che il soggetto esperisce. L’Austria (l’Austria edificata sul vuoto, come scrive Broch, del vecchio Kaiser) è l’epicentro di tale crisi8: l’epicentro, vale a dire, di quella cancellazione di un possibile senso univoco del reale a favore, per dirla con Max Weber, di un politeismo dei valori che conduce all’annullamento delle gerarchie di significato mediante la progressiva secolarizzazione del mondo9, frantumando, insieme al rapporto con un oltre-mondo, gli ordinamenti interni al reale, il loro organizzatore e il suo linguaggio. Incrinata la relazione gerarchica fra universale e particolare, questi ultimi si collocano infatti sul piano di un’equivalenza valoriale che, moltiplicando gli assoluti, ne determina l’insignificanza. È l’Austria di Fritz Mauthner (del linguaggio come convenzione e incrostazione storica), di Hermann Bahr (che scoprì il giovane Hofmannsthal), l’Austria, soprattutto, di Ernst Mach. La capacità egemonica del discorso machiano, attaccando i mostri concettuali concretizzati nelle nozioni di universale e di oggettivo, e riformulandoli pragmatisticamente nei termini di sostanza, di funzione-finzione necessaria alla conoscenza e all’azione nel mondo, condanna come astrazione i concetti – elementi nei quali il flusso sensorio della vita si reifica – aprendo la strada a una “filosofia dell’impressionismo”, come la lesse proprio Bahr, in cui si tratta di fingere, nell’instabilità epistemologica, la stabilità di un contenuto (Mach li chiama “elementi”); vale a dire, in cui ogni contenuto oggettivo deve in partenza riconoscersi in quanto artefatto e soggetto al divenire (nel 1907 William James, in Pragmatism, affermerà che le teorie diventano strumenti, non risposte). Come sintetizza Hans Vaihinger: “L’intero mondo della rappresentazione […] non è affatto destinato a essere un’immagine della realtà […] ma è piuttosto uno strumento per meglio orientarsi nella realtà stessa10.
Quella di Mach (e di molti altri) si presenta come la risposta scettico-convenzionalista alla frantumazione dell’orizzonte universalista (“natura soggettiva della percezione […] natura arbitraria dell’immagine mentale”11), in cui la pluralità del reale e dei suoi significati si pone come luogo di una disgregazione che permette, però, un rapporto ancora conciliativo col reale, dal momento che recupera teoricamente i principi universalistici per via negativa (impossibilità atemporale di ogni verità al di là di ogni cambiamento della conformazione sociale), lasciando invece l’azione pragmatica nelle mani della pura razionalità strumentale (come del resto proprio Mach richiede). Mach fa cioè della ragione strumentale la creatrice di valori del tutto a-fondati ma assolutamente operanti sul piano pragmatico. Col suo concetto di elemento sta introducendo un principio, quello della tecnicizzazione pragmatica del Verum, che sarà fondante tanto nell’orizzonte dell’avanzamento scientifico capitalista quanto in quella destra che su tale tecnicizzazione (è in particolare, come vedremo, il mito di Georges Sorel e di Vilfredo Pareto) fonderà un’azione ideologica. Nelle parole di Pierre Drieu La Rochelle: “Ha trionfato proprio questo relativismo, distruggendo le filosofie troppo attaccate all’essere. […] tabula rasa di tutti i valori antichi – Dio, essere, sostanza. […] Il mondo non ha un senso generale. Ha solo quel significato che noi gli diamo”12. Naturalmente tale orizzonte di destra, a differenza di quello liberale a cui possiamo associare Mach, proporrà un’immagine di società organica e non-atomizzata a cui ri-connettere, principio anti-relativistico, quel Verum.
Se, tornando al linguaggio, ciò che una definizione esprime è solo il bisogno psicologico di una machiana unità che serve per vivere (per controllare il reale), allora la crisi linguistica è l’ultima conseguenza del decadimento di un soggetto ridotto a ipotesi euristica, di un individuo che, divenuto particolare fra i particolari – riconosciutosi elemento della frammentazione del mondo e non suo principio ordinatore –, si dichiara incapace a gerarchizzare la realtà che ha di fronte (è, mutatis mutandis, la “foresta di segni” di Rilke), limitandosi a servirsene (come per gli elementi di Mach) in via del tutto convenzionale, cioè al di là di ogni fondamento in grado di giustificarla13.
Hofmannsthal, però, pur accusando la cristallizzazione di pensiero e linguaggio, non esperisce tale fenomeno nel senso al fondo cinico proposto da Mach (di cui pure, è ben noto, seguì con interesse le lezioni fin dal 1895), bensì come decadimento tragico dell’ordine socio-estetico che era esistito in precedenza (e che sarà da ricostruire). Questo perché Hofmannsthal oltrepassa l’interpretazione epistemologica connettendo appunto – com’è assolutamente tipico nell’intellighenzia di destra – il decadimento gnoseologico (e quindi linguistico) al tracollo di una struttura sociale di carattere comunitario nel quadro dell’avanzamento della modernità (quella modernità che, nelle parole di Baudelaire, è appunto il transitorio, il fuggitivo, il contingente), avvertendo la ragione strumentale (compresa quella che vorrebbe usare il linguaggio come mera convenzione per intendersi) come uno dei sintomi centrali del problema stesso, cioè dell’infrangersi congiunto di Verum, comunità e, come vedremo, forma artistica: “Non è la disperazione dell’attuale epoca di aver smarrito la fede nella forma?” Su un fronte complementare ma culturalmente più ristretto (lontano cioè da quella pletora di riferimenti politico-filosofici a disposizione degli intellettuali della Mitteleuropa), un altro esponente della Sprachkritik europea, Giovanni Boine, arriverà, riflettendo sulla natura del purismo linguistico, esattamente alle stesse conclusioni. Dietro il purismo linguistico troviamo infatti, per Boine che segue un principio già di de Maistre14, una Kultur condivisa (il cattolicesimo), una società coesa, una verità nuovamente universalizzata. Se la dissociazione linguistica è specchio di una disgregazione filosofico-sociale (specchio di un reale in cui i segni perdono i propri referenti universali), la parola purista sarà invece il segnale della ricerca che questa compie per risalire al proprio etimo originario dove ritroverà il “suo carattere di sacra eternità”, vale a dire quel comune sentire (comunità) che riempie di universalità il particolare, riscattando la disintegrazione del reale:
Se tu scavi la superficie fonetica di un vocabolo verso l’etimo suo […] [ritrovi] le Madri. […] Come appunto se tu per altre vie già partecipi di questa religiosità primigenia, la parola che l’esprime risentirà del suo carattere di sacra eternità, ne sarà lo specchio. […] Anima antica, linguaggio antico. Così debbo parlare perché così si parlava quando tutti sentivano com’io sento. […] La crociata per la lingua diventa la crociata per il buon costume ed il sano pensare (o viceversa)15.
Se, insomma, nel versante di Mach e di Vaihinger, la frammentazione dell’universalismo comporta implicitamente la rottura in senso individualista dei legami comunitari (culturalmente letta come tracollo del Grund epistemologico ora ricomponibile solo su base convenzionalista), per Hofmannsthal (come per Boine) l’individuo e il suo linguaggio possono invece ri-universalizzarsi riconoscendosi parte di una comunità che presenta caratteri omogenei (Kultur), una comunità che il Poeta ha il compito di portare a coscienza in una forma (Gestalt) che ricomponga i particolari disgregati, riconnettendo il presente disconnesso a una tradizione, culturale e linguistica, immobile e condivisa, in grado di conferirgli significato.
Non è un dunque un caso che se nel 1890 Bahr, nel saggio Die Moderne, afferma giunta l’ora di dedicare un’orazione funebre al mito del passato, solo un anno dopo Hofmannsthal, riflettendo sul lavoro di Barrès16, non solo riconosce (undici anni prima del Chandos) che se “le par...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nota dell’editore
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Indice
  6. Introduzione
  7. I. Kultur, Forma, Comunità
  8. Intermezzo. Il problema Péguy, o il valore d’uso come Kultur
  9. II. L’intellighenzia fra le masse e la nazione
  10. Intermezzo. Guerra, masse e sindacalismo nazionale nel Malaparte fascista
  11. III. L’operaio, la città e la tecnica
  12. Epilogo. Ernst Jünger, o come la Zivilisation divenne la Kultur
  13. Ringraziamenti