le città selvatiche
Le acque, i parchi, le periferie
In centro scorre il fiume
Poi non sono più riuscito a dormire, se non per un paio d’ore poco prima dell’alba. Il buio della mia camera sembrava più profondo della notte cittadina, così lasciavo la finestra aperta, in modo che insieme alla brezza del mattino potesse entrare anche un po’ di luce. Una di quelle notti, all’inizio dell’estate, quando ormai il sole stava per sorgere, ho sentito la vibrazione del cellulare sul comodino. Era un messaggio dell’amico del mio collega, il birdwatcher; diceva: «Se ti può interessare, c’è un tarabusino in canto: ti mando la posizione». Erano le cinque del mattino e non avevo nulla di meglio da fare: tre ore erano sufficienti per raggiungerlo, trovare il tarabusino e arrivare in ufficio in perfetto orario. Ho preso gli unici due strumenti davvero utili a un birdwatcher urbano: il mio vecchio binocolo e lo Svensson, che l’amico aveva definito «la Bibbia per chiunque si interessi di uccelli». Prima di partire ho sfogliato le sue pagine, dense di informazioni su tutti gli uccelli che nidificano o transitano in Europa, fino ad arrivare al tarabusino (Ixobrychus minutus), un uccello dall’aspetto allungato, con le parti inferiori chiare, striate di scuro dal ventre al collo, e le parti superiori nere, ma con una macchia color crema su entrambe le ali. È un uccello molto elusivo, che si nasconde nel fitto dei canneti ed è praticamente assente nelle città , così povere di grandi stagni, paludi o altre zone umide naturali in cui possa trovare cibo e rifugio.
La mia generazione, a differenza delle precedenti, ha da sempre una certa familiarità con il concetto di estinzione: nel mio primo atlante sugli animali, che sfogliavo quando ancora ero molto piccolo, già si differenziavano le estinzioni tra naturali, come quella dei dinosauri, e artificiali, cioè causate dall’uomo, come quella del dodo. D’altronde, la nascita della disciplina che si occupa della lotta all’estinzione è abbastanza recente. Se di conservazione si parla da centinaia di anni, dalla capanna germinale sul lago Walden di Henry D. Thoreau, a iconici antesignani come John Muir e Aldo Leopold, fino all’ambientalismo più classico di Arne Næss e Rachel Carson, la biologia della conservazione è nata formalmente solo nel 1985, con un articolo di Michael E. Soulé, biologo americano poco noto al di fuori dell’ambiente accademico. A differenza dell’ambientalismo, prima pensiero teorico e poi movimento socioculturale, la biologia della conservazione è la disciplina scientifica che si pone come principali obiettivi la documentazione della biodiversità , lo studio delle minacce e degli impatti umani e lo sviluppo di principi e soluzioni per conservarla. Nel suo articolo Soulé comparava la biologia della conservazione alla biologia del cancro: si tratta infatti di una disciplina di crisi, che non pensa solo al presente ma anche al futuro a lungo termine di specie e ambienti, che sono tantissimi, mentre le risorse e pure il tempo per agire sono molto limitati; quasi sempre si è costretti a prendere decisioni senza avere tutte le conoscenze necessarie e addirittura a scegliere su quali ambienti, quali specie e quali popolazioni dirigere gli sforzi.
Tra le priorità di conservazione a livello globale ci sono le zone umide, ambienti unici in cui terra, acqua e aria si mescolano, fino quasi a confondersi. Di solito non ce ne accorgiamo, ma il paesaggio cittadino è punteggiato di fiumi, torrenti, canali, fossati, laghi, stagni, paludi, piccole raccolte d’acqua, fondamentali riserve d’acqua dolce che hanno segnato la fondazione di tante città europee. Spesso tuttavia le zone umide cittadine sono i primi ambienti a risentire dell’urbanizzazione: alterazioni fisiche, come la distruzione, il prosciugamento o la bonifica delle zone umide, ma anche la costruzione di dighe e la cementificazione, alterazioni chimiche, come l’inquinamento chimico o organico, detto eutrofizzazione, e alterazioni biologiche, come l’introduzione di specie aliene invasive, minacciano le zone umide da migliaia di anni e in particolar modo negli ultimi decenni. Si stima addirittura che nel corso degli ultimi due secoli le zone umide europee si siano ridotte di circa il 60-70%, e non è quindi un caso se i gruppi animali che maggiormente dipendono dalla loro presenza siano quelli più minacciati a livello europeo. Ma cosa si intende per minacciati?
La risposta più affidabile è quella dell’International Union for Conservation of Nature (iucn), un’organizzazione non governativa nata in Francia nel 1948 e basata sul lavoro volontario dei suoi oltre mille membri e diecimila specialisti. La principale attività dell’iucn è la produzione di Liste rosse, preziose pubblicazioni scientifiche con la finalità di indicare le specie a rischio di estinzione, in modo che gli stati possano adoperarsi per accordar loro una protezione legale. Le Liste rosse si basano infatti sull’applicazione di un sistema di classificazione standard per quantificare il rischio di estinzione di una specie in un certo territorio – uno stato, una regione o l’intero pianeta –, un sistema basato su criteri e categorie, valido per ogni specie vivente, dal fungo che incrosta il legno morto alla farnia che ombreggia un campo in estate, fino ad arrivare all’orso bruno che risale i pendii. I criteri sono misure quantitative, estremamente dettagliate e difficili da ottenere, soprattutto per alcuni gruppi di specie, ma il loro calcolo permette di attribuire alla specie in esame una delle otto categorie di minaccia: estinta (Extinct, ex), una specie che non esiste più (una specie estinta in una regione è detta Regionally Extinct, o re); estinta in natura (Extinct in the Wild, ew), una specie che esiste ormai solo in cattività ; gravemente minacciata (Critically Endangered, cr), una specie ad altissimo rischio di estinzione; minacciata (Endangered, en), una specie ad alto rischio di estinzione; vulnerabile (Vulnerable, vu), una specie a rischio di estinzione; quasi minacciata (Near Threatened, nt), una specie prossima al rischio di estinzione; a rischio minimo (Least Concern, lc), una specie che non desta preoccupazioni; carente di dati (Data Deficient, dd), una specie di cui mancano le informazioni per valutare il grado di rischio. Una specie è minacciata se riÂcade in una delle tre categorie di minaccia, vale a dire cr, en e vu, le categorie cui bisognerebbe dare precedenza; anche la categoria dd è molto importante: l’assenza di dati potrebbe riflettere tanto la difficoltà nel reperirli quanto la scarsa abbondanza della specie, che pertanto potrebbe essere minacciata.
Gli invertebrati d’acqua dolce
Non è un caso se tra le comunità più ricche all’interno delle zone umide, ovvero quelle di invertebrati, numerosi gruppi presentino preoccupanti tassi di minaccia o carenza di informazioni. I molluschi d’acqua dolce per esempio, strettamente legati alla presenza di acqua, hanno il più elevato tasso di minaccia tra i gruppi animali europei, toccando il 43,7% delle specie, e se si conta che l’8,8% è quasi minacciato (nt) si può concludere che quasi la metà delle specie sia a rischio di estinzione; pure l’altra metà non se la passa molto meglio, se si considera che poco meno della metà delle specie rimanenti, quasi un quarto delle specie totali, è carente di dati (dd), e quindi potrebbe ricadere in una categoria di minaccia. Sono numeri terrificanti, resi ancora più intollerabili dal tasso di endemismo, ovvero la loro presenza in un solo paese (o continente): oltre il 90% delle specie è infatti endemico in Europa, per cui l’estinzione a livello regionale equivarrebbe a una scomparsa definitiva dalla faccia della Terra.
La situazione è drammatica anche per altri gruppi di invertebrati, come i crostacei d’acqua dolce. I naturali ospiti delle zone umide sono specie come il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes e Austropotamobius italicus), un piccolo gambero dell’Europa sudoccidentale, lungo tra i sei e i dodici centimetri, ad alto rischio di estinzione (en), il gambero di torrente (Austropotamobius torrentium), diffuso soprattutto nell’Europa centrorientale e nei Balcani, carente di dati (dd) ma in declino, e il granchio di fiume (Potamon fluviatile), un grosso granchio d’acqua dolce che può raggiungere i cinque centimetri di larghezza, quasi minacciato (nt). Ma ormai queste specie vivono soltanto in corsi d’acqua non alterati dall’uomo, spesso all’ombra di boschi di montagna o di collina, ed è quindi impossibile vederli in città . Un’eccezione straordinaria è la popolazione di granchio di fiume che sopravvive nel Foro di Traiano, in pieno centro a Roma, completamente isolata dalle popolazioni circostanti: segnalato dagli anni novanta e confermato solo nel 2004, il granchio romano sembra essere sensibilmente più grande dei conspecifici, trascorre le ore del giorno in profonde buche scavate nel fango o in piccole nicchie artificiali, ed esce di notte per nutrirsi di materiale organico, anche in decomposizione, o di larve di altri invertebrati, pesci e anfibi.
Gambero rosso
della Louisiana
Il crostaceo di gran lunga più comune nelle città è comunque il gambero rosso della Louisiana (Procambarus clarkii), un grande gambero che può raggiungere anche i venti centimetri di lunghezza. Molte volte l’ho incontrato durante le mattine e i pomeriggi che ho passato a fare birdwatching, e mi sono convinto che se si incontra un gambero in ambiente cittadino si tratta quasi sicuramente di questa specie. In ogni caso, se si vuole essere certi dell’identificazione, basta cercare la spina carpale, una piccola spina nel segmento sotto la chela, assente nei gamberi autoctoni. Il gambero rosso della Louisiana è una specie invasiva, originaria del Sud degli Stati Uniti, introdotta volontariamente in Europa a fini alimentari (la prima introduzione in Italia riguarda un’azienda sul lago di Massaciuccoli, in Toscana), poi scappata dagli allevamenti e rapidamente adattata al nuovo territorio. I suoi impatti sulla biodiversità sono incalcolabili. Anzitutto può occupare praticamente ogni ambiente acquatico, anche molto alterato, dal fossato lungo una strada fino alle rive di un grande fiume di pianura. È in grado poi di sopravvivere a temperature elevate e addirittura al di fuori dell’acqua per diverse ore. Scava profonde gallerie negli a...