VI
Il suo nuovo reparto era al primo piano, per raggiungerlo si saliva per delle strette, ripide, antiche scale.
La porta d’ingresso, chiusa come tutte le altre, dava direttamente su una lunghissima unica corsia, illuminata dall’alto da grandi finestroni.
Sui suoi due lati erano schierati gli 80 letti, divisi soltanto da piccoli comodini metallici.
Il reparto semiagitate appariva, nonostante il suo nome e gli spazi angusti, abbastanza tranquillo, ordinato e pulito, sotto il recente ferreo governo di suor Onofria. Veniva anche lei, come gran parte delle pazienti, dal reparto furia.
Il professor Canna era stato promosso Direttore della sede di Collegno e chi doveva prendere il suo posto, il dottor Stetina (un elegante biondino, dal viso elfico da celta subalpino), aveva posto una condizione: suor Onofria doveva andarsene.
L’astuto Direttore dell’albergo dei due pini mise l’indesiderata nel pacchetto – prendere o lasciare – offerto a Guido, nella convinzione che non sarebbe stato rifiutato. Aveva ragione, perché il giovane psichiatra giudicava quella suora un osso duro, ma non un’ipocrita. La lotta per stabilire chi doveva detenere nel reparto il potere reale sarebbe stata aperta e leale.
La donna, massiccia e forte anche nell’aspetto esteriore, era una grande accentratrice, gestiva personalmente il funzionamento del reparto in ogni minimo particolare. Guido perciò decise di adottare con lei la strategia della cipolla, spogliarla, foglia per foglia, delle troppe mansioni che la suora si era attribuita. Dopo averla lodata, in modo convincente perché sincero, per il metodo ordinato ed efficiente con cui aveva organizzato tutto, aveva aggiunto:
“Lei ha troppe cose da fare, si affatica troppo, da domani questo compito lo affidiamo alle infermiere”.
Aveva iniziato con una cosa di scarsa importanza, il rifornimento delle lenzuola. Lei, presa di sorpresa, aveva subito la decisione protestando debolmente. Alla terza foglia, però, quando Guido arrivò al vero obbiettivo che si era prefissato, il controllo dell’armadio dei medicinali del reparto, la donna esplose:
“È un compito troppo delicato per affidarlo alle infermiere, non sono in grado di tenere il registro di carico e scarico, chissà quali pasticci combinerebbero!”
“Faremo un periodo di prova, lei controllerà come loro redigono il registro.”
“Mi rifiuto, non accetto questa sua decisione, del tutto sbagliata!”
“Sorella, le ricordo che fra i suoi voti c’è anche quello dell’obbedienza…”
La suora, sorpresa, accusò il colpo basso, rimanendo senza fiato.
Quando si riprese, replicò a denti stretti:
“È vero, ma io devo obbedire soltanto alla Madre Superiora”.
“Come suora senza dubbio, ma come Caposala deve obbedienza anche a me, che sono il responsabile del reparto.”
Pallida di rabbia e fremente di sdegno la donna mise nelle mani del medico la chiave dell’armadio delle medicine, girò sui tacchi e, tutta impettita, se ne andò.
Guido dette le nuove consegne alle infermiere: d’ora in poi non era più necessario ricorrere alla suora per avere un farmaco – prima doveva farlo persino il medico di guardia durante un’emergenza – ma tutto andava scrupolosamente registrato e firmato.
Appena si sparse la voce, una piccola delegazione di infermiere, capitanata dalla delegata sindacale della CGIL, si presentò davanti allo studio – una nuda stanzetta – del medico.
La sindacalista, donna anziana, magrolina, energica, dallo sguardo diretto e intelligente dietro gli occhiali antiquati, esordì dicendo:
“Siamo qui per ringraziarla. Mai nessuno ci aveva dimostrato tanta fiducia. Stia tranquillo, non dovrà pentirsene, dimostreremo a tutti che siamo in grado di svolgere i compiti che ci ha affidato”.
Il reparto semiagitate era l’ultima tappa prima della pensione, nella rotazione che le infermiere facevano fra le varie sezioni dell’Ospedale. In quel reparto, perciò, erano tutte anziane, nella maggioranza zitelle, perché quando avevano iniziato a lavorare vigeva ancora l’incredibile obbligo di alloggiare in ospedale, in un dormitorio loro riservato, come le suore, e chi si sposava doveva dare le dimissioni. Non tutte erano intelligenti come la delegata, ma avevano buon senso contadino – quello era l’ambiente di provenienza prevalente – esperienza e, nonostante i troppi anni di manicomio, conservavano una rude umanità verso le pazienti. Alcune erano anche un po’ bizzarre, ma lo riconoscevano per prime con una battuta scherzosa in piemontese, che tradotta suonava:
“Ogni lustro un mestolo”.
“Un mestolo? Cosa vuol dire?”, chiese incuriosito Guido.
“Ogni cinque anni di lavoro in manicomio, un mestolo di follia per ciascuna di noi”, risposero ridendo, con uno sguardo beffardo che voleva significare: non credere che non succederà anche a te.
Il giorno dopo il Direttore lo convocò nel suo studio. La Madre Superiora si era lamentata per quanto era avvenuto fra Guido e suor Onofria. Visibilmente imbarazzato l’anziano medico disse, con voce querula:
“Lei deve capire, certi compiti sono sempre stati svolti dalle suore, se sono costrette a cederli si sentono sminuite nel loro ruolo.
“Poi è imprudente, forse, affidare alle infermiere mansioni delicate che non hanno mai esercitato…”
Guido lo ascoltò impassibile, rimanendo in piedi con un atteggiamento di ostentato rispetto gerarchico, poi replicò con freddezza:
“Quando io venni a protestare per l’intollerabile comportamento di suor Candida, un vero esercizio abusivo della professione medica, lei mi rispose, se ben ricordo, che ogni decisione sulla gestione del reparto spettava esclusivamente al medico responsabile. Per questo motivo, aggiunse, lei non poteva interferire e io non dovevo preoccuparmi. Adesso io sono o non sono il responsabile del reparto semiagitate? – il Direttore chinò la testa, in un rassegnato cenno affermativo – Allora le decisioni che ho preso sono di mia competenza e non intendo mutarle, salvo che abbia inconsapevolmente violato qualche norma di legge”.
“Beh no, questo no”, rispose sospirando il Direttore, abbassando gli occhi, senza aggiungere altro.
La Madre Superiora incassò la sconfitta dicendo alle suore:
“Lui crede di poter cambiare il mondo, ma è soltanto un bambino, alla fine se ne accorgerà e tutto tornerà come prima”.
Quando questa frase gli fu riferita Guido si guardò allo specchio e, infastidito da quel volto adolescenziale, decise di farsi crescere barba e baffi, come Freud. Il risultato non lasciò indifferenti le sue infermiere, ma le divise in due opposti schieramenti: c’era chi approvava il cambiamento e chi sosteneva che stava malissimo e gli consigliava di tornare a radersi. Lui, sacrificando il lato estetico alla speranza di apparire più autorevole, non si tolse mai più quella “maschera” che, come nel teatro greco, definiva il suo personaggio, quello dello “psichiatra”.
L’abito non fa il monaco, però aiuta… pensò sorridendo sotto i baffi che stavano crescendo.
Il nuovo obiettivo che si pose fu conoscere bene tutte le pazienti del reparto. Le cartelle cliniche esistenti erano di scarso aiuto: a parte l’anamnesi iniziale, la formulazione della diagnosi e le notizie cliniche raccolte durante il periodo trascorso nel reparto accettazione, le annotazioni erano rade e scarse. Riferivano soltanto situazioni d’emergenza, specialmente per quelle pazienti passate dal reparto furia, o si limitavano a poche righe, spesso addirittura a due parole: situazione invariata, ripetute con monotonia ogni sei mesi circa. La terapia, anch’essa con scarse variazioni, si riduceva molto spesso alla solita “dieta” con tioridazina.
Guido perciò si accinse a visitare tutte le sue nuove pazienti seguendo semplicemente l’ordine alfabetico. Calcolò sconsolato che, con l’orario ridotto che poteva allora dedicare al reparto, sarebbero occorsi almeno tre mesi per arrivare alla zeta.
Giunse però un aiuto insperato: l’Amministrazione finalmente iniziò ad applicare la Legge Mariotti e, con i nuovi orari e stipendi equiparati a quelli dei medici degli ospedali generali, ebbe la possibilità di rinunciare, con una piccola perdita economica, al lavoro al CIM.
Adesso poteva dedicarsi esclusivamente al reparto.
La maggioranza delle pazienti era anziana, ma Clotilde, nonostante il sale e pepe dei cortissimi capelli tagliati con la scodella, aveva un viso fresco, dai lineamenti delicati, che svelava la sua vera età, 32 anni. Se ne stava tutto il giorno sola in un angolo, muta e immobile con i grandi occhi scuri persi nel vuoto. Secondo la scarna cartella clinica era arrivata in Ospedale sette anni prima, proveniente da una clinica privata. Per cinque anni era rimasta nel reparto furia, poi, quando le sue crisi di agitazione si erano gradatamente spente, era stata trasferita in quello semiagitate.
Adesso, rannicchiata sulla scomoda sedia dello studio medico, lo sguardo perplesso e infinitamente lontano, rispondeva con incerti monosillabi alle domande dello psichiatra.
“Sa per quale motivo è stata ricoverata qua?”
“Ho rotto un vetro”, fu questa l’unica frase compiuta che disse.
Vedendo sull’avambraccio destro le lunghe e irregolari cicatrici bianche, tipiche di chi si ferisce sfondando un vetro con un pugno, Guido capì che la risposta si riferiva a un fatto realmente accaduto.
Decise di provare a fare breccia in quel muro di inerte silenzio con l’aiuto di uno psicofarmaco, allora propagandato come molto incisivo, il trifluperidolo. Memore di suor Candida, lo somministrò lui stesso quotidianamente con iniezione intramuscolare. Per due giorni non accadde nulla, al terzo suor Onofria lo affrontò, mentre entrava al mattino in reparto, dicendogli a muso duro:
“La nuova medicina che ha dato a Clotilde non va bene, è stata sveglia tutta la notte delirando”.
Senza scomporsi il medico rispose sorridendo:
“Bene, significa che la cura sta funzionando, la paziente si sta sbloccando. La ringrazio per la sua segnalazione, aggiungeremo uno psicofarmaco sedativo alla sera”.
La suora rimase immobile, senza parole, poi se ne andò indispettita, pensando: Così le infermiere impareranno cosa succede a dar retta a un bambino presuntuoso e capriccioso.
In effetti, fra il personale in servizio qualche dubbio preoccupato emerse. Guido cercò di dare spiegazioni rassicuranti mentre, in cuor suo, si raccomandava alla sua buona stella e al sedativo che aveva aggiunto.
Il mattino dopo un’infermiera raggiante lo accolse, al suo ingresso nel reparto, dicendo:
“Clotilde è stata tranquilla tutta la notte e sta ancora dormendo”.
Quando il medico le tastò il polso, che batteva calmo e regolare, la paziente si svegliò.
“Buongiorno Clotilde, ha riposato bene?”
Lei lo scrutò serena, con occhio limpido, poi rispose con naturalezza e con tono pacato:
“Buongiorno dottore, ho dormito tanto, sto bene”.
Poi aggiunse spontaneamente:
“Adesso so dove sono”.
Guido la fissava sbalordito, non riusciva a credere che quella fosse la stessa persona che solo tre giorni prima era chiusa nel mutismo, prigioniera nella corazza del suo autismo. Riprendendo il fiato le chiese:
“Dove siamo?”
“In un ospedale.”
“Esatto, ma prima dove pensava di essere?”
“Pensavo di essere morta e di trovarmi all’inferno… no, proprio all’inferno no, forse nel limbo.”
“E noi chi eravamo?”
“Dei diavoli, delle altre persone morte come me, non so…”
“Sa perché è stata ricoverata in ospedale?”
“Avevo rotto un vetro… pensavo che mia cugina mi facesse del male, mi perseguitasse con qualche magia, ma forse erano solo delle mie idee…”
Non soltanto in così breve tempo era uscita dal suo autismo, ma ricordava perfettamente i suoi deliri e cominciava addirittura a criticarli.
Il giovane psichiatra, superato lo stupore e l’incredulità, arrendendosi all’evidenza dei fatti, ingenuamente attribuì il merito di questo miracolo soltanto allo psicofarmaco. L’esperienza professionale ben presto gli dimostrò che questa spiegazione era insufficiente, che nessun farmaco, in così breve tempo, poteva causare un cambiamento tanto profondo. Altri fattori dovevano essere entrati in gioco per determinare un risultato così eclatante, ma non era facile capire quali.
Non avendo trovato una convincente spiegazione razionale, per anni non osò parlare con nessuno di questo suo straordinario successo terapeutico, temeva di essere scambiato per un mitomane. Quando infine lo fece, con un giovane collega che stimava molto, questi gli suggerì che forse era la diagnosi di psicosi a essere sbagliata, che doveva trattarsi di una forma isterica. Replicò incredulo:
“Ma tu pensi veramente che un’isterica possa sopportare cinque anni di reparto furia pur di non abbandonare la parte che recita nel suo teatro nevrotico? Tu non hai mai visto quel reparto…”
Però, dopo quel colloquio, iniziò a pensare che probabilmente esistono pazienti che camminano, in un equilibrio instabile, sul filo del rasoio che divide le psicosi dalle nevrosi, sempre pronti a scivolare dall’una o dall’altra parte, spinti da un nuovo evento. Forse, concluse, il suo destino di medico e quello della paziente si erano incrociati nel momento giusto, quando lei era pronta a uscire dalla psicosi, grazie a imprevedibili risorse che conservava ancora nel profondo del suo inconscio. Era bastato che qualcuno, dopo anni, la vedesse come persona e non come malattia, che provasse a prendersi cura di lei, per fare emergere quelle misteriose energie guaritrici nascoste.
I colloqui successivi, due ogni settimana, confermarono che Clotilde aveva recuperato un buon equilibrio psichico, anche se si sentiva ancora fragile e insicura, timorosa di affrontare il mondo esterno. Quando Guido, dopo un mese, le propose di andare a casa in permesso, rispose:
“Ci ho pensato molto, ma ho paura, sono piena di dubbi: dove andrò, cosa farò, sarò capace di stare fuori, cosa sarà di me? Vede, dottore, quand...