
- 336 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La cronologia dell'acqua
Informazioni su questo libro
Il nuoto, il corpo che si perde e si ritrova nell'acqua, e la letteratura, il desiderio di scrivere senza compromessi, sono le uniche due certezze di Lidia. La cronologia dell'acqua è così la storia di una vita che "non segue alcun ordine. Gli avvenimenti non rispondono al rapporto di causa ed effetto come vorremmo. È tutta una serie di frammenti e ripetizioni e trame," perché "questo condividono il linguaggio e l'acqua". Tutto scorre, nelle parole come nelle corsie di una piscina, in questo romanzo che rinnova radicalmente la tradizione del memoir, raccontando senza ipocrisie il genere, la sessualità, l'abuso, l'elaborazione del lutto, il superamento della sofferenza. Lidia cresce con un padre violento e una madre incapace di proteggerla, in una famiglia che la condizionerà anche quando, proprio grazie a una borsa di studio per il nuoto, riuscirà ad allontanarsi. Colpita da una perdita straziante, si trova a fare i conti con un dolore estremo: Lidia reagisce, sbaglia, cerca nell'alcol e nel sesso una via di fuga, tocca il fondo, reagisce ancora, riprende a nuotare. Dentro la muove un desiderio di vita e di creazione – e attraverso incontri decisivi con autori come Ken Kesey e Kathy Acker prende forma il suo cammino di scrittrice. Il viaggio che Lidia affronta, e nel quale trascina con passione e levità struggente il lettore, è un viaggio di dipendenza e autodistruzione, e poi di sopravvivenza. Un viaggio che trova una conciliazione finale in un amore sincero, in un figlio che nuota felice anche se malissimo, e in un libro, questo, che testimonia una nuova profonda consapevolezza di sé nel proprio mondo.
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Informazioni
Editore
nottetempoAnno
2022Print ISBN
9788874529582eBook ISBN
9788874529841Va’ avanti
È il compleanno del tuo secondo ex marito, sai, quello da cui hai divorziato perché dormiva non con una ma circa cinque fantastiliardi di altre donne e ti chiama alle due di notte ubriaco fradicio da Parigi dove un tempo affittavate un appartamento e facevate arte perché è il suo compleanno e ti dice che si è innamorato di una donna che gli ricorda te a ventitré anni – comunque, sono passata alla seconda persona singolare perché dicendo “io” vi figurereste una Heather Locklear o qualcosa del genere perciò – TU. Tu hai trentasette anni e ti avvicini ai grandi quattro-zero. Hai divorziato per la triste triste seconda volta. Sei in California del Sud. Vivi da sola. Ti assicuri che il tuo biondo sia biondo. D’essere depilata.
Dunque il tuo secondo ex marito ti chiama il giorno del suo compleanno dicendoti che si è innamorato di una donna che gli ricorda te a ventitré anni e che si sono tatuati delle fedi e lei ti assomiglia così tanto e ha lo stesso odore di te a ventitré anni perciò tu riattacchi tranquillamente e intravedi la pelle trentasettenne della tua mano e vai alla scrivania e apri il cassetto della sbronza e prendi la bottiglia e bevi l’intera bottiglia di scotch nel cuore della notte e sali in macchina e guidi sull’autostrada a sei corsie diretta a nord nella California del Sud dove ora vivi grazie al tuo fantastico nuovo lavoro come Visiting Writer perché sei stata forte e l’hai lasciato perché non volevi essere complice e via dicendo e volevi essere superiore e andare avanti con la tua vita perciò sei su questa autostrada nella California del Sud in una macchina rossa con i tuoi capelli biondi e il vestito nero e i tacchi a spillo per dimostrare a te stessa che sei ancora attraente come una cazzo di pubblicità del Black Velvet e aspetta un attimo, cos’è quel luccichio alla tua destra che belle lucette twinkle twinkle little star e WOOOSH stai tagliando la strada attraversi le fitte piante succulente che dividono le corsie dell’autostrada dirette a nord da quelle dirette a sud ad angolo retto letteralmente trapassandole lasciando cicatrici che dureranno per settimane e finirai sul notiziario della notte e testacoda gigante e ti fermi tra i fumi della macchina – miracolosamente – rivolta nella direzione giusta sulle corsie dirette a sud.
Sai cosa fare. Schiacci l’acceleratore a tavoletta. Ridendo la risata delirante di una donna di trentasette anni divorziata che dovrebbe essere morta ma non lo è.
Una vocina fradicia nella tua testa dice prendi la prossima rampa d’uscita e porta il tuo culo sbronzo a casa e vedendola come se fossi sott’acqua ecco l’uscita proprio lì davanti a te la imbocchi lasci andare il volante come se le mani fluttuassero finché sbam frontale contro una macchina e l’airbag esplode come due enormi grasse tette cadenti e la polizia arriva e tu sei ubriaca oltre ogni immaginazione e tutto sa un po’ di polvere da sparo e scotch e signora prego scenda dalla macchina signora alzi una gamba e conti alla rovescia da cento con gli occhi chiusi e con questo bastone infilato su per il culo e tenendo in equilibrio un uovo sulla tetta sinistra e poi?
Ti ammanettano e ti fanno l’alcol test. Soffi un numero stratosferico. Non ci provi nemmeno. Sei talmente fuori dal limite legale che potresti alimentare una macchina. Datemi una Guida – In stato – D’ebrezza! Ah, e nel caso sentissi un ultimo rimasuglio di fascino in corpo, quando guardi supplichevolmente nello specchietto retrovisore del giovane poliziotto durante il tragitto verso la centrale e dici: non potrebbe invece accompagnarmi a casa? con quello che credi sia un broncio sexy e capelli biondi un po’ scompigliati, lui ti risponde con uno sguardo pietoso – sì, indovinato – tipo donna, sei vecchia come la merda.
In carcere comincia il bis. La prima cosa che succede che è già successa è che sei dentro. Sei già stata in carcere. Hai dei trascorsi. Non sono in molti a saperlo dato che hai precisamente l’aspetto di una Visiting Writer e in ogni caso hai sempre avuto ottimo gusto nel vestire.
La seconda cosa che succede che è già successa è che c’è un’altra donna nella cella in crisi d’astinenza da eroina. Sta salivando ed è una palla raggomitolata di braccia avvinghiate attorno alle ginocchia e sbatte la testa contro il muro e sputa ogni otto secondi. Il braccio sinistro ti fa male. I piedi sono intorpiditi. Vai a sederti accanto a lei. Da fuori sembri proprio una cazzo di Visiting Writer martire troppo bianca ma ciò che l’occhio non vede è che non sono passati poi molti anni da quando sei pulita e all’improvviso sei rimpicciolita alla taglia di una testa umana. Te la credevi un po’ troppo, il tuo splendido recupero, la tua presa di distanza da te stessa dalla tuastoriapersonale.
Il che ti porta alla terza cosa che sta succedendo di nuovo cioè quanto velocemente ti trasformi nella Buona Samaritana quando TU sei la povera sfigata che ha bisogno di AIUTO, invece dai le tue calze alla donna nera che vive di sussidi statali e tieni la mano alla disgraziata cinquantenne che forse dopotutto è una ventottenne. Ti ritrovi a comporre il numero del ragazzo della regina del crac con il mascara sbavato sulla faccia alla Alice Cooper. No davvero, sei al telefono a gettoni per lei anche se ha dei lividi da strangolamento attorno al collo, ti implora di chiamarlo e quindi lo fai, intervieni, diventi effettivamente una risorsa esterna, gli intimi di ritirare le denunce e farla uscire dal momento che è così ovvio che ha abusato di lei e in seguito lei avrà un caso coi fiocchi, in cui tu ovviamente farai da testimone, attento bello, tu insegni Studi di genere, allora lui procede a descriverti cos’ha fatto lei al suo salotto e al suo gatto e alla sua moto con una mazza da baseball e la casa in fiamme per poi definirti una cazzo di troia puttana stronza ignorante e riagganciare.
Imperterrita, ti ritrovi a chiamare la guardia per procurare del Tylenol alla donna grassa mentre ascolti la sventola cristiana con una sciarpa di seta e qualche rotella fuori posto raccontare la sua versione dei fatti con il tizio incontrato nel bar dell’albergo che credeva fosse lì per la convention Gesù sul ghiaccio. Tutta questa attività all’improvviso presenta il suo conto psicosomatico sotto forma dell’odioso vomito verde di bile della mattina dopo e ti accorgi con una specie di mattonata sul fondoschiena che ti scappa un’enorme cagata da scotch. E la fai, ovviamente, davanti a tutti, come tocca a qualsiasi detenuta, a prescindere dai vestiti costosi, a prescindere dalla splendida martire che incarni, a prescindere da quanto stiano bene le lettere Ph.D. accanto al tuo cazzo di nome sulla targhetta Visiting Writer, devi comunque cagare davanti a una folla.
Strano, eh.
Chiudi gli occhi.
Respiri.
Ancora non ti senti dispiaciuta per quello che hai fatto.
Sei semplicemente una detenuta.
Il rimorso, quello arrivò dopo. Lasciatemi raccontare da capo.
Lasciatemi dire chi colpii.
Collisione come metafora
La persona che colpii nel frontale era una donna dalla pelle marrone alta uno e cinquanta.
Sul momento, il fatto non mi turbò. Sul momento ero ubriaca come una scimmia, perciò l’intera scena quella notte appariva leggermente al rallentatore e spalmata di vaselina. A una distanza siderale dal mio cuore e da qualunque voce avesse in capitolo. I tossici fanno fatica a comprendere la gravità delle proprie azioni. Tutto appare soltanto sfocato.
Gli airbag esplosero. Pum. Se non avete mai vissuto l’esperienza, è notevole. È rumorosa. Rumorosa come uno sparo. E tutto sa di dinamite. Se hai entrambe le mani sul volante, il calore e la frizione lasciano delle bruciature all’interno delle braccia. La testa, avendo evitato il parabrezza, si schianta di faccia sulla superficie da omino Michelin dell’airbag; poi è catapultata indietro e la zucca sbatte contro il poggiatesta. Dopodiché, te ne stai lì seduto aspettando che la polvere si posi e il cervello si raccapezzi. Chiudere gli occhi e aspettare che tutto smetta di girare aiuta.
La persona che colpii nel frontale era una donna dalla pelle marrone alta uno e cinquanta che non parlava inglese.
So che non parlava inglese perché, dopo essere stata lì seduta provando a capire se mi fossi rotta qualcosa o avessi qualche dolore lancinante – e non ce l’avevo, soprattutto perché mi ero anestetizzata con una bottiglia di scotch – aprii la portiera della macchina e mi guardai intorno. La mia macchina, una Toyota Corolla rossa, era a un angolo strano e aveva il muso sfondato. La sua macchina, una… non sono sicura – assomigliava a una di quelle vecchie Gremlin – la sua macchina bianca aveva tutto il lato sinistro sfondato fino al parabrezza. Qualcosa di caldo e metallico mi riempiva la bocca. Mi ero morsa la lingua. Vidi la donna seduta sul guardrail, in lacrime, che diceva cose che non capivo. Aveva i capelli più neri della notte circostante. Aveva un bernoccolo grosso quanto una pallina da golf sulla fronte. Niente airbag. Aveva una gonna bianca che ogni tanto svolazzava.
La persona che colpii nel frontale era una donna incinta dalla pelle marrone alta uno e cinquanta che non parlava inglese.
Sapevo che la donna portava la vita in grembo perché la pancia aveva il monticello inconfondibile di un neonato. Un monticello di sei, forse sette mesi. Sul momento, non mi allarmai; come ho detto, avevo la sensibilità di un’ubriaca. Ma sentii un formicolio molto molto in profondità nel mio addome. Mi sedetti accanto a lei. Cominciò a gemere tenendosi la pancia. Dissi: “Ti fa male?” Non mi guardò né rispose. Stupidamente, le misi un braccio attorno alle spalle. Non ho idea del perché me l’abbia permesso. Si dondolava. Inconsolabilmente.
Non sentivo nulla. Letteralmente. Non mi sentivo le mani, i piedi, il culo. Non mi sentivo la faccia.
La donna frugò nella tasca della gonna e tirò fuori un cellulare. Pensai che forse avrebbe composto il 911, invece no. Vedevo che stava cercando di comporre un numero. Qualcuno che conosceva. Qualcuno che l’aiutasse. Non riuscivo a maneggiare il mio cellulare. Lo guardavo nella mano. Non vedevo i numeri né capivo come attivare l’aggeggio. Immobile come un roditore morto. Mi accorsi che puzzavo vagamente di piscio.
Non so quanto a lungo restammo sedute lì. Il rumore delle macchine che sfrecciavano mi confortò. Dopo un po’ arrivarono tre volanti della polizia e un’ambulanza. Ricordo il suono delle sirene che provavano a sopraffarsi l’un l’altra. La polizia bloccò il tratto di strada in cui ci trovavamo – il cavalcavia tra le corsie dirette a nord e quelle dirette a sud. Mi tappai le orecchie con le mani. Ricordo le luci bianche rosse e blu che lampeggiavano attorno a noi. C’era qualcosa nel vortice di colori che mi fece sentire all’interno di una scena subacquea.
La polizia ci separò immediatamente. Lei, la accompagnarono all’ambulanza. A me, a me chiesero se stavo bene e risposi con un sì palesemente fradicio. Chiamarono un paramedico per “controllarmi” ma nessuno era particolarmente preoccupato per me dal momento che riuscivo a camminare e parlare. Non avevo un singolo livido o bernoccolo o taglio, all’infuori delle bruciature dell’airbag all’interno delle braccia. La mia caratteristica distintiva: ubriaca a merda. Le emozioni erano tutte rivolte alla donna incinta e al suo feto. Tranne le mie. Le mie fluttuavano nel nulla.
Mentre il poliziotto mi sottoponeva alle prove, che fallii quasi tutte in modo impercettibile ma inevitabile data la quantità di alcol che avevo bevuto, pensai a mia madre. Letteralmente – quando il poliziotto mi fece chiudere gli occhi e provare quella cosa di portare il dito al naso? Vidi la faccia di mia madre. Gonfia d’alcol e coperta di tristezza… non una tristezza materna, da Madonna. La tristezza che rimane quando la gioia è drenata dalla tua vita un anno dopo l’altro.
Ho una fotografia di mia madre da ragazzina. Scattata tra le varie operazioni alla gamba e all’anca. In questa fotografia non è completamente ingessata. Probabilmente risale a un paio d’anni prima che mia nonna divorziasse da mio nonno perché molestava le sorelle di mia madre. Sembra sui tredici anni. Ha il viso di ragazza più dolce che abbiate mai visto, ma c’è qualcosa nell’inclinazione della testa, nello sguardo basso, che rivela già la sua tristezza.
So che non è vero, ma in un certo senso riesco a vedere la donna che si attaccherà alla bottiglia di vodka senza mai più posarla. Riesco a vedere i sonniferi. Il matrimonio naufragato così orribilmente, senza che riuscisse ad andarsene. Riesco a vedere la madre le cui figlie si allontaneranno veloci come pesci liberati. Riesco a vedere il cancro che andrà in suo soccorso, perché come mi disse sua sorella poco prima che morisse: “Ha sofferto ogni singolo giorno della sua tenera vita, in un modo o nell’altro. Almeno ora avrà pace”.
Dove vanno la rabbia e il dolore repressi in un corpo? La ferita di una figlia si trasforma in altro se trascurata? Sboccia nel ventre come un antifiglio, come una massa organica di emozioni che non hanno dove andare? Come chiamiamo il dolore della rabbia in una donna? Madre?
Nel suo volto non scorgo traccia che le sue figlie le abbiano mai dato gioia, benché così mi avesse detto una settimana prima di morire e io avessi pensato, guardando il suo corpo bianco latte raggrinzito, quasi il corpo di una ragazzina: come?
Quando il poliziotto mi ammanettò e mi disse di sedermi sul sedile posteriore della volante gliene fui grata. La macchina era tranquilla. Sapeva di deodorante per auto e pelle. Chiusi gli occhi. Da qualche parte, molto in profondità, avvertii una minuscola fitta di dolore per la donna che avevo colpito e per quel che era nella sua pancia. Ma era troppo per me, perciò aprii gli occhi e guardai il poliziotto scrivere delle cose su un blocchetto.
Brevemente e senza...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Nota dell’editore
- Frontespizio
- Copyright
- I. Trattenere il respiro
- II. Nel blu
- III. Il bagnato
- IV. Resurrezioni
- V. L’altra faccia dell’annegare
- Ringraziamenti
- Indice