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Informazioni su questo libro
«Non ho mai tempo per pregare. Quando ho tempo, non ho voglia. E le poche volte che ho voglia e tempo, ho mal di testa».
Per molti che si riconoscono in questa situazione, il libro può essere un aiuto per cercare Dio nella vita quotidiana, attraverso gli andirivieni, gli impegni e i contrattempi. Non soltanto «nonostante» tutte le cose da fare, ma proprio nel bel mezzo della confusione che caratterizza le nostre giornate. Don Carlo De Marchi presenta queste meditazioni rivedute e adattate a partire dalla serie podcast «Meditazioni in tangenziale – per chi vuole pregare un po' a partire dal Vangelo quando rimane imbottigliato sulla tangenziale». Per cominciare o ricominciare a pregare basta rivolgersi a Gesù in qualsiasi luogo, dicendo: «Credo fermamente che sei qui, che mi vedi e che mi ascolti...».
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Informazioni
eBook ISBN
9788892982178Argomento
Teologia e religioneCapitolo XIV
«Fammi innamorare della mia vita»
«Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono» (Lc 6, 43).
Chi legge passi del Vangelo come questo tenta di fare un bilancio della sua vita, una sorta di auto-valutazione dell’efficienza in termini di risultati positivi tangibili. Le parole di Gesù sull’albero e sui frutti sono abbastanza note, perché al Signore piace usare metafore e similitudini che hanno a che fare con la natura: «ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo» (Lc 6, 44). Ma queste parole non intendono incoraggiarci a valutare la nostra prestazione: il Signore non ci sta dicendo che un fallimento, quando viene, è segno che ci siamo comportati male, ed è quindi una sua punizione; né che il successo vuol dire necessariamente che siamo stati buoni e ci meritiamo un premio. Gesù non ha mai guardato così le cose, e quando usa l’immagine del frutto ci sta ricordando che ci vuole tempo, che ci vuole pazienza nella nostra vita e che il frutto cresce a poco a poco. Non si può farlo crescere con la forza, e la natura e l’agricoltura insegnano proprio questa lezione.
Ricordo un’estate di tanti anni fa, nella casa di campagna dove siamo sempre andati da piccoli, sulle colline dell’Oltrepò pavese. Avevamo una gallina, alla quale noi bambini di città offrivamo alloggio dietro una siepe del giardino (doveva avercela prestata un vicino di casa). E ricordo la mattina in cui la gallina fece un uovo, l’entusiasmo con cui mio fratello e io lo portammo in cucina, senza romperlo, scappando immediatamente a vedere se la gallina ne avesse nel frattempo fatto un altro. Per noi venuti dalla città , la gallina avrebbe dovuto produrre uova a ripetizione. Invece l’agricoltura e la natura ci dicono – e il Signore ci ricorda – che i frutti non sono prevedibili in modo esatto e non sono il risultato misurabile e meccanico di un’operazione. C’è sempre un imponderabile, c’è sempre la pazienza e ci sono i tempi e le attese della vita. E la pazienza, la capacità di attendere e di dominare l’ansia di prestazione aiuta a custodire nel cuore ciò che di buono mi succede.
«L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Lc 6, 45). È un’immagine che mostra lo spirito delle parole del Signore, perché insegna che il mio cuore è un tesoro e che ci sono frutti che dipendono naturalmente da quello che ho dentro, da ciò che di buono sono riuscito a coltivare nella mia vita. Il cuore, come sempre nella Bibbia, è inteso come il centro della persona, il luogo dove ha radice la libertà , intorno a cui girano il mondo interiore e i sentimenti di ognuno.
Prima di tutto, quindi, si tratta di imparare a custodire il tesoro nel mio cuore e scoprire i tanti doni che ho ricevuto, le esperienze buone che ho fatto. A partire da queste, che sono un tesoro, verranno fuori i frutti per una determinata stagione della mia vita, per quest’anno o per la giornata di oggi, negli ambiti per cui voglio mettermi in gioco. Non basta proporsi di produrre meccanicamente in modo efficiente e misurabile cose e fatti buoni. Si tratta di coltivare nel mio cuore, a partire dalla memoria e dall’esperienza del bene ricevuto e fatto, buoni propositi e buoni sentimenti.
I buoni propositi sono senz’altro un eccellente punto di partenza, come quando diciamo: «Sarà un periodo molto importante di lavoro, adesso mi ci metto, affronto questo problema serio: ad esso dedicherò ogni lunedì tutta la mattina».
E poi proprio quel primo lunedì mattina, non per contrattempi ma per una cosa così semplice e umiliante come la pigrizia, perdo tempo dietro a emergenze inconsistenti. Ho fatto tutto un programma rivoluzionario che dipendeva da quel lunedì mattina, invece mi sono arenato e non porto frutto. Forse si tratta di ripartire dal cuore, non dai nostri preventivi e cronoprogrammi.
Qual è il dono fondamentale, il nostro tesoro dal quale dipendono tutti i nostri atteggiamenti, comportamenti e tutti i nostri propositi? Mi pare che esso sia ben descritto dalle parole veramente luminose che papa Francesco ha proposto al culmine della Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia, nell’estate del 2016. Nella messa finale di questo incontro oceanico, davanti a un milione di giovani, il Papa propose di recitare ogni mattina una preghiera semplice: «Signore, ti ringrazio perché mi ami, sono sicuro che Tu mi ami. Fammi innamorare della mia vita. Non dei miei difetti, che vanno corretti, ma della vita che è un grande dono, è il tempo per amare ed essere amati»1.
Questo è il tesoro fecondo, questo è il dono che il Signore vuole farmi scoprire. Se io ho il cuore colmo di questo tesoro, con un po’ di pazienza i frutti germoglieranno. E i frutti saranno anche le mete professionali, le sfide, i problemi pratici da risolvere e gli obiettivi che mi propongo e tardo tanto a realizzare. Il tesoro è accorgermi che il dono e i frutti nella mia vita ci sono già , tanto che posso rivolgere a Dio queste sorprendenti parole: «Fammi innamorare della mia vita».
Non è un invito al narcisismo, a contemplarsi e innamorarsi del proprio ego. Innamorarsi della propria vita vuol dire chiedere al Signore di farci scoprire che la nostra vita – cioè il lavoro, le relazioni, e anche i problemi – è vivibile, è bella. Fammi innamorare, cioè fammi vedere la vita ordinaria, quella in cui mi sto muovendo, con una luce nuova, col sorriso di chi scopre una cosa bella; non perché esagero con l’ottimismo e trasfiguro la realtà in modo ingenuo, ma perché è bella davvero. Perché è il tempo per amare ed essere amati, perché noi in questo tempo siamo amati dal Signore. Quindi c’è davvero qualcosa di amabile in me e nella mia vita, che è il punto di partenza necessario per guardare gli altri con amore.
Ciascuno può pensare alla propria famiglia, alle amicizie, al lavoro e dire al Signore: «Aiutami a guardare tutte queste persone, tutte queste realtà con una luce nuova, con occhi da innamorato». Guardare con occhi nuovi richiede un certo esercizio spirituale da parte nostra: esercitarsi a pensare che la nostra vita è un dono e impegnarsi a fare tesoro di tante cose buone che ci sono e che a volte non vediamo, che facilmente dimentichiamo oppure diamo per scontate. Esercitarsi a coltivare ricordi belli nel cuore, cose piacevoli che sono successe di recente o in passato, doni o sorprese ricevute. E anche coltivare la fedeltà alle amicizie, la gratitudine per gli affetti famigliari. È vero che questi ultimi non sono sempre tutti belli e positivi, e senz’altro non sono mai perfetti; però a volte, di fronte a un conflitto, rischiamo di dimenticare la bellezza di un rapporto in famiglia. Non nella famiglia ideale, che dovrei o vorrei avere, ma nella mia famiglia così com’è. Si tratta di esercitarsi a dire: Signore, fammi innamorare della mia famiglia, della mia vita, delle mie amicizie; fammi vedere che la mia vita è bella e vale la pena, che non è una vita piatta. «La bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda» (Lc 6, 45): se coltivo cose belle nel mio cuore, poi si nota in quello che dico, nel tono della mia voce, nell’atteggiamento con cui mi guardo intorno.
Pensiamo alla nostra settimana normale e ordinaria, nella quale ognuno saprà inserire nomi di luoghi e di persone e tutte le altre specificità particolari di casa sua. Nella nostra settimana vera, qualunque sia, con la grazia del Signore, noi possiamo innamorarci delle cose che dobbiamo fare, delle persone con le quali dobbiamo convivere e dobbiamo collaborare, e che a volte dobbiamo sopportare.
Abbiamo ripetuto apposta il terribile verbo dovere: dobbiamo convivere..., dobbiamo sopportare..., perché le persone e le situazioni in genere non le scegliamo noi. In realtà noi nella vita scegliamo ben poco: non scegliamo i genitori né i fratelli, spesso non scegliamo davvero gli amici perché facciamo amicizia con le persone che per caso abbiamo incontrato sui banchi di scuola, sul lavoro, in una vacanza. In genere non scegliamo a chi voler bene: piuttosto siamo chiamati ad amare persone che ci troviamo accanto senza averle propriamente scelte (qualcuno dirà che almeno il coniuge lo si sceglie, se non altro nella maggior parte delle culture; anche questo è vero fino a un certo punto, perché dopo vent’anni il marito o la moglie non sono esattamente quelli che ho scelto... ma qui il discorso ci porterebbe troppo lontano).
All’inizio di un anno, di una settimana o di un qualunque periodo nuovo, se il cuore è pieno di gratitudine per i doni del Signore, allora i problemi e la realtà si vedranno con luce diversa. E ciascuno di noi potrà affrontare la sua fatica e intravedere la possibilità di amare Dio e gli altri, di scoprire la bellezza di ogni giornata che si trova a vivere.
A un certo punto, tuttavia, ci possiamo scontrare con un altro problema: proviamo a scendere nel nostro cuore, raccoglierci e riflettere pensando al passato recente o remoto, alla nostra esperienza, e non troviamo tanti doni e tesori, ma piuttosto molto egoismo e molte chiusure, qualcosa che, visto da vicino, risulta per giunta un po’ umiliante. È come dire: «Signore, non posso costruire sul mio cuore, o quantomeno ho paura a farti entrare veramente, perché ci sono zone delle quali mi vergogno, in cui il mio modo di essere, il mio modo di fare, la mia storia non mi piace per niente».
Continuiamo ad ascoltare le parole di Gesù, riportate dal Vangelo di Luca: «Perché mi invocate: Signore, Signore! e non fate quello che dico?» (Lc 6, 46). Più che ripetere un’invocazione generica al Signore, unita a una richiesta di fare questo o quest’altro, fate quello che dico, entrate nella mia logica e capite quello che vi sto dicendo sul dono che vi ho fatto, sul tesoro che avete già ricevuto e che è il mio amore per voi. «Chiunque viene a me, ascolta le mie parole e le mette in pratica, vi mostrerò a ...
Indice dei contenuti
- Prima parte
- Capitolo I
- Capitolo II
- Capitolo III
- Seconda parte
- Capitolo IV
- Capitolo V
- Capitolo VI
- Terza parte
- Capitolo VII
- Capitolo VIII
- Quarta parte
- Capitolo IX
- Capitolo X
- Capitolo XI
- Quinta parte
- Capitolo XII
- Capitolo XIII
- Capitolo XIV
- Indice