1.
Le pigne scoppiettavano al sole quando, terminata la mia confessione, mio padre concluse che mi sarei laureata in una fumata di sigaretta ché anche per lui era andata così a suo tempo mosso dalla determinazione di portare a termine quanto avviato o forse solo dal desiderio di vedersi consegnare le chiavi dell’Alfa decappottabile messa in palio da suo padre che in questo modo si era lasciato sfilare dalla Pubblica Istruzione un membro dell’attività sartoriale di famiglia. Io invece potevo ambire al massimo all’emancipazione economica essendo figlia di un professore il quale avendomi cresciuta a analisi logica e coniugazioni verbali si limitava a dire Hai fatto il tuo dovere quando portavo a casa un buon voto e però allo stesso tempo avevo accolto come una vocazione la possibilità di dedicarmi allo studio delle Lettere in funzione dell’insegnamento ricalcando così le impronte di mio padre che, ormai pensionato, l’estate imminente, stava pulendo la piscina che tutto sommato non era una vera piscina con il manto celeste e i filtri per la depurazione e la scaletta di metallo no, lui aveva fatto costruire una vasca romana facendo scavare a qualche suo amico con la ruspa una porzione di terreno in giardino: ne era risultato un luogo più ambizioso di Gerusalemme in fatto di giustapposizione di elementi religiosi tra sculture pagane e mezzibusti di imperatori convertiti e peristili plastificati di ordine ionico e la statua in gesso di Gesù Cristo però in posizione preminente a difesa di tutti. Ora mio padre si stava prendendo cura di questa piscina che durante l’inverno veniva trascurata essendo priva di copertura mentre io sul cornicione in cemento seguivo i suoi spostamenti lungo il perimetro per farmi ascoltare da lui che si aggirava un metro e mezzo sotto di me con i pantaloni di lino arrotolati sotto il ginocchio continuando a strofinare con la scopa le mattonelle mosaicate bianche e turchesi e spostando l’acqua corrente in direzione dello scarico senza lamentarsi dello spreco perché in quell’occasione l’acqua veniva direttamente assorbita dal terreno sottostante andando a nutrire le radici delle piante tropicali variamente dislocate intorno a Gesù Cristo. Sotto l’ombra silenziosa dei pini si fermò a bere un sorso di birra dalla bottiglia non dimenticata sul bordo della piscina godendosi la vista del lavoro compiuto, i peli sudati sul petto nudo, ansimando per la fatica ma prestando comunque attenzione al mio discorso. La sua approvazione mi sollevava giacché poche soddisfazioni gli avevo dato da figlia, tutte legate all’ambito scolastico tutte concentrate nei primi anni di vita: la lettura precoce, il primato alle elementari, la disinvoltura nello scrivere, motivo per cui per renderlo nuovamente fiero di me avrei dovuto recuperare anni di negligenze e insuccessi – prima tra tutte la bocciatura in seconda liceo per assenteismo – che avrebbero richiesto una sforzata dose di impegno a cui non ero più abituata dacché i miei genitori si erano separati e io e mia madre eravamo andate a vivere in appoggio a casa della nonna materna.
«Sai che diceva il nonno, Marta? Quando studiavo e arrivavano a casa i pacchi dei libri che ordinavo: Poveri soldi miei! diceva. Io andavo nel cassetto del comodino (teneva i soldi arrotolati in un malloppo, così grosso ti dico) e sfilavo, sfilavo. Non c’era bisogno di chiederglieli, lui lo sapeva che non ne approfittavo.»
«Andrò a studiare a Messina.»
«A Messina?»
«Ha una buona facoltà di Lettere.»
«Ma non puoi andare a Bari come papà?»
«Non cambia niente, gli affitti sono uguali.»
«Ma quali affitti? Io andavo ogni giorno con il treno. Ti fai l’abbonamento e non devi pagare più niente. E dove li prendiamo i soldi?»
«Ci pensa la mamma.»
«Ah, sì? Ci pensa la mamma? Con i soldi di papà!»
In seguito a quella discussione gli scrissi una lunga lettera (come era mia abitudine per le comunicazioni consistenti, vantandomi di conservarne una copia come faceva Cicerone) il cui contenuto era grossomodo: Caro papà mi dispiace ma io a Taranto non ci resto tu e la mamma state sempre a litigare pur essendo separati e a casa della nonna non ci voglio stare perché mi sento un ospite per cui chiedo a entrambi voi lo sforzo di riappacificarvi e magari provare a tornare assieme perché no? in questo caso sarei anzi felice di rimanere in vostra compagnia altrimenti procederò per questa strada e partirò firmato la tua amata figlia Marta. Però la lettera non sortì alcun effetto e quindi io perché mai avrei dovuto rispettare una prescrizione paterna senza ricevere in cambio la benché minima considerazione anche per il solo fatto di essermi messa a scrivergli una lettera in duplice copia? invece quello manco Grazie per la lettera si degnò di dire cosicché, comportandomi allo stesso modo, di lì a breve feci i bagagli per Messina nonostante la disapprovazione paterna.
2.
Il primo giorno che mi recai a lezione scoprii che la facoltà di Lettere e Filosofia che fino a quel momento avevo visto solo in foto sul sito internet dell’Università si trovava fuori dal centro abitato, in cima al viale Annunziata, scelta che da parte dell’amministrazione comunale mi parve alquanto assurda nel decidere di piantare la propria facoltà di Lettere su un pizzo di montagna o forse invece, come poi ebbi modo di pensare naturalizzandomi, astuta nel tentativo di preservarla dal fantasma del 1908 e a ogni modo per raggiungerla da casa mia bisognava prendere prima il tram – il cui percorso costeggiava lo Stretto e quindi non era poi tanto male avere come panorama quotidiano quello che la Madonna della Lettera tutta dorata proteggeva con i caratteri cubitali VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS – e poi, giunti al capolinea, un autobus a capienza ridotta rispetto al numero di studenti accalcati in attesa che in ultimo si sarebbe arrampicato su per il viale Annunziata fino in cima alla collina su cui come una torta nuziale si ergeva il palazzotto ottagonale in acciaio e vetro di Lettere e Filosofia. Ignara di quel tragitto – che a questo punto corrispondeva più all’idea di mio padre di farmi fare da pendolare che al mio sconclusionato piano di trasferirmi nella città stessa in cui avrei studiato – il primo giorno di lezione arrivai con un’imbarazzante ritardo saltando tutta la parte delle presentazioni. Buon inizio! pensai davanti alla porta dell’aula che conteneva meno alunni della mia classe del liceo indecisa se entrare presentandomi fin da subito come la ritardataria del corso ovvero fare marcia indietro e esplorare la Facoltà che non avevo ancora visitato, scelta che predilessi al fine di evitarmi quell’imbarazzo pensando che non mi sarei persa granché saltando le presentazioni – in fondo può capitare a tutti un imprevisto anche il primo giorno di lezioni altrimenti che imprevisto sarebbe se non creasse un impedimento e anche se partivo svantaggiata da questa prima assenza mi sarei certo rifatta dimostrando la mia passione per la classicità – cosicché pure un po’ desolata ma forte del mio anonimato me ne andai a perlustrare i corridoi dell’edificio e infine sedendo sulla scalinata esterna sovrastata dall’insegna Lettere e Filosofia laccata in oro sulla facciata dall’intonaco scrostato mi emozionai all’idea che in ogni caso andavo all’Università. Finalmente potevo avere una mia camera oltre che una mia vita da gestire come mi pareva nel nuovo appartamento che per ventura si trovava in Viale della Libertà, in cui una camera singola mi sarebbe costata duecento euro al mese spese incluse senza contratto di locazione al primo piano con vista sulla Calabria, da condividere con una studentessa che lo abitava già da due anni e quell’anno si sarebbe impeccabilmente laureata in Scienze della formazione mentre io mi ero iscritta a Lettere classiche per cui mi sentivo superiore a prescindere da come sarebbero andati i miei studi. Si coglieva facilmente la differenza tra me e lei, almeno a me era palese, poiché lei era una ragazza calabrese di quelle che il fine settimana tornano a casa dai genitori e dopo la laurea idem mentre io da quel momento in avanti non avevo nessuna intenzione di tornare a casa se non per le Sante festività, cosa che mi avrebbe fatto sentire adulta e non più solo una figlia bensì una persona con i suoi impegni a cui pensare e questo certo era vero solo in parte considerato che l’affitto l’avrebbe pagato mia madre e con i soldi di mio padre aggiungo visto che lui ci aveva tenuto a precisarlo quando me l’ero inimicato con questa faccenda e in ogni caso questi duecento euro al mese sarebbero andati a finire nelle casse della proprietaria dell’appartamento che abitava al nord e non si sapeva neanche che aspetto avesse ma per telefono era stata chiara che quei soldi li avrebbe voluti versati sul suo conto tramite bonifico bancario. Impegnandomi piuttosto a costruire una rete di rapporti sociali che mi avrebbe accompagnata per tutta la durata degli studi e magari anche oltre visto che amici storici non è che ne avessi, a parte un paio o tre al massimo, in breve tempo mi affiancai a una compagnia di coetanei dei quali nessuno andava all’Università: erano per lo più ragazzi che tentavano la carriera musicale pur senza degnamente studiare in un conservatorio o un’accademia, i quali di certo non conducevano la vita degli studenti che si limitano a fare festini il fine settimana nelle case pagate dai genitori e però durante il giorno un minimo studiano e frequentano le lezioni, più che altro terminate le prove o le registrazioni passavano le nottate nei locali del centro a ascoltare la musica dei loro colleghi più anziani. La sera in cui li avevo conosciuti stazionavo in solitaria al bancone del Catalani jazz café pochi metri sopra il livello dell’originaria città e poiché mi trovavo lì presentemente per quel motivo mi ero fatta abbordare con una stretta di mano da uno che di questa compagnia faceva parte, il quale era arruolato a fare la ronda per locali in cerca di ragazze da inserire nella comitiva per il ripopolamento periodico della componente femminile che sempre andava esaurendosi per via di fidanzamenti o fughe, per cui questo ragazzo che essendo mezzo greco per ramo materno aveva subito rapito la mia attenzione mi aveva invitata a nozze proponendomi di seguirlo in uno storico locale sotterraneo ormai in declino in cui avevano luogo jam session di basso livello superato un certo tasso alcolemico, dove in un improvvisato karaoke rock mi lanciai dopo aver bevuto qualche Negroni pensando Finalmente si vive! rallegrandomi per l’obiettivo raggiunto in quella serata invece di preoccuparmi per la situazione universitaria che nonostante fosse iniziata solo da qualche mese già si prospettava come un ritardo che avrebbe continuato a accumularsi in ogni istante allo stesso modo dei ritardi dei treni.
3.
Mia madre mi telefonava allo scopo di trascorrere del tempo con la voce della figlia che non aveva più in casa e non ogni Santo giorno come le madri di alcune colleghe dell’Università che avevano l’appuntamento fisso dopo i pasti per scambiarsi notizie culinarie o intestinali ma forse proprio in virtù di questa differenza quando poi mi telefonava pretendeva di stare almeno un paio d’ore all’apparecchio senza curarsi di cosa stessi facendo prima di rispondere tanto che io, esaurite le novità e scambiati gli affetti, non percependo da parte sua l’intenzione di congedarsi provavo a farle capire che la telefonata era giunta al termine esprimendomi a monosillabi e facendomi tirare le parole di bocca. D’altro canto speravo ogni volta che non mi domandasse nulla riguardo l’Università e tuttavia ne parlavamo quando si avvicinava il periodo del pagamento delle tasse o meglio in quel caso dovevo essere io a introdurre il discorso ché altrimenti lei non era a conoscenza delle scadenze e degli importi e così quando tirai fuori l’argomento che c’erano da pagare le nuove tasse di iscrizione – rendendomi conto solo in quel momento che in una sfogliata di calendario era già trascorso un anno – non affrontammo la questione degli esami quanto più quella delle tasse a proposito delle quali mia madre mi notificò di aver appreso da una serie di conoscenti che i figli andavano avanti a borse di studio, cioè in poche parole era come se facessero l’Università gratis per via dei risultati ottenuti, E tu no? Informati, fai domanda e a quel punto non potevo più permettermi di evitare il discorso giacché proprio di quello stavamo parlando e l’unico modo per tirarmene fuori sarebbe stato assecondare la richiesta di mia madre e darmi da fare per ottenere questa benedetta borsa di studio che già sapevo non mi riguardasse conoscendo il mio libretto universitario vuoto se non per un ventotto ottenuto in Storia greca dopo cinque mesi di preparazione, cosicché promisi a mia madre che mi sarei informata al riguardo presso gli uffici dell’ERSU ma poi all’ERSU non ci andavo mai perché mi sembrava una perdita di tempo che avrei potuto invece meglio impegnare nello studio, per cui infine preferii rivolgermi al coordinatore del mio corso di Laurea affinché mi desse qualche informazione e quando individuai questo professor D. che mi avevano indicato sulla soglia della sua stanza mentre stava per andare via, le chiavi penzolanti dalla serratura, colsi l’occasione per strappargli qualche notizia sperando in quel modo di non disturbarlo visto che aveva appena terminato l’orario di lavoro.
Per raggiungere quell’uomo basso, elegante e sonoro dovetti farmi strada in mezzo a un gruppetto di studenti con ogni elemento del quale quello era in grado di parlare simultaneamente in una sorta di teatro dei pupi da lui manovrato e interpretato, terminato il quale arrivò il mio turno che tuttavia non riuscii a ottimizzare esordendo in uno sconclusionato Volevo chiederle informazioni sulla borsa di studio cui lui reagì con evidente volontà di imbarazzarmi pur conservando quell’ilarità che avevo capito appartenergli per status. Provai a esprimermi meglio ma ancora una volta alimentai la sua insofferenza Figlia Santa, chi sei? Come ti chiami? Soggetto verbo e complemento! e quando finalmente imboccata da lui fui in grado di soddisfarlo con un periodo contenente la mia presentazione seguita dalla richiesta per cui mi trovavo lì quello divenne serio e efficiente: mi indicò il numero di crediti da dover raggiungere per ottenere la borsa di studio rassicurandomi che entro la fine del secondo anno l’avrei in quel modo ottenuta; mi spronò al limite dell’obbligazione a presentarmi al successivo appello di Letteratura italiana di cui era docente; mi fece rassegnare che comunque all’ERSU avrei dovuto consegnare la documentazione; infine ricapitolò assicurandosi più volte che avessi compreso alla pari di un individuo apprensivo che presti soccorso per strada a un passante disorientato, ebbene mi congedò. Tornai a casa scossa da quell’incontro che in ogni caso si era rivelato illuminante tanto dal punto di vista delle informazioni quanto più da quello umano dove ero retrocessa almeno di un decennio e non ringiovanita ma proprio tornata allo stadio infantile di scolaretta redarguita, avevo avvertito una frustrazione che avrei preferito evitare di fronte a questo professor D. che nel suo essere di aspetto minuto trasmetteva l’idea della solidità tanto che appena mi ero allontanata da lui avevo provato un desiderio di riscatto nei suoi confronti tale che avrei voluto la volta successiva presentarmi esordendo con tutte le vocali giuste e una stretta di mano decisa. Per entrare in confidenza con lui iniziai a frequentare le sue lezioni di Letteratura italiana nell’aula 8 che avevo abilmente aggirato l’anno precedente ma le prime volte quando provavo a fine lezione a avvicinarm...