La vendetta di Giobbe
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La vendetta di Giobbe

Roberta De Falco

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  1. 288 pagine
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La vendetta di Giobbe

Roberta De Falco

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UNA VITTIMA CON MOLTI NEMICI E UN PASSATO POCO LIMPIDO.
UN COLPEVOLE ANCHE TROPPO PERFETTO.
UN THRILLER CHE CI PORTA A SCARDINARE LUOGHI COMUNI E A RIAPPROPRIARCI DI UN VALORE DIMENTICATO: LA VERITÀ All'alba di una Trieste invernale, un pensionato si imbatte nel cadavere di un agente immobiliare. Dell'omicidio viene accusato un operaio del Bangladesh che dalla vittima aveva comprato, quindici anni prima, una casa. Inizia così il calvario di un uomo che cerca in tutti i modi di dimostrare la propria innocenza, trovando invece davanti a sé incomprensione e malcelato livore. C'è qualcuno, però, che non crede alle facili sentenze e alle condanne già scritte.Si tratta di Elettra Morin, il nuovo commissario della Squadra Mobile di Trieste, appena rientrata da Monfalcone nell'ufficio in cui ha lavorato come giovane poliziotta. Per lei Chopra è una vittima e provarne l'innocenza è lo scopo che si prefigge nel suo primo caso dopo la promozione.
La capacità di raccontare con il giallo spaccature sociali profonde, di trattare il materiale umano con grandissima sensibilità e la sapienza con cui dona vita nelle sue pagine a Trieste fanno di Roberta De Falco una maestra del genere.

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Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788858528808

1

Trieste, 19 novembre 2020
Non importa quante volte hai svoltato a quella curva, quante volte ti si è spalancato davanti quel golfo d’argento e luce, quante volte sei stato investito dal baluginare delle onde che si infrangono in lontananza contro le lunghe scie di boe dell’allevamento di cozze.
Ogni volta è un colpo al cuore.
Trieste è una città di mare e roccia, di vento e ombre, una città che ti abbaglia come un’algida regina di marmo per poi imprigionarti nella sua anima ferita. Una città di camminatori folli, di nuotatori intrepidi, di brusca scortesia e di eleganza atavica. Una città in continua lotta con sé stessa, con le sue aristocratiche ambizioni e la sua fatale inerzia. Una città dove il tempo scorre in modo più lento, dove l’aria tersa di certe mattine d’inverno ti dà l’illusione di vivere in un’altra dimensione.
Questo pensava Elettra Morin, avvicinandosi al luogo che l’aveva accolta quindici anni prima, quando era appena diventata poliziotta, e che ora la vedeva tornare da commissario dopo quattro anni passati a guidare la Mobile di Monfalcone.
Quattro anni difficili, che avevano messo a dura prova il suo carattere e la sua volontà.
L’ostilità di certi colleghi, il paternalismo venato di diffidenza dei superiori, uniti a un’innata sfiducia nei confronti del suo essere donna, giovane e tenace, erano riusciti a incrinare la corazza che si era costruita con tanto impegno.
Incrinare, ma non distruggere.
Quando era arrivata la notizia del suo improvviso trasferimento, l’aveva accolta con orgoglio e terrore. Orgoglio, perché tornava nel commissariato dove era cresciuta e si era fatta le ossa sotto il comando del burbero e problematico Ettore Benussi, e terrore, perché da allora il mondo era cambiato. In una manciata di mesi un minuscolo virus aveva scatenato una guerra subdola e inafferrabile all’intera umanità, scalzandola dal suo piedestallo di onnipotenza tecnologica per ributtarla nella selva oscura delle specie in via d’estinzione.
Erano saltati i riferimenti, la fiducia nel futuro si era disintegrata, il tessuto economico era stato sconvolto, la speranza in tutte le sue forme minata in maniera irrimediabile.
La stessa Questura di Trieste era stata colpita in modo grave. Il commissario Renato Fonda, che aveva preso il posto di Benussi alla Mobile, purtroppo aveva contratto il virus e non ce l’aveva fatta.
E ora toccava a lei prendere il suo posto.
«Un falco!»
Il grido la fece sobbalzare. Si girò verso il bambino. «Ti sei svegliato!»
«Guarda, c’è un falco!» Il piccolo indicava un gabbiano con un dito.
«Ma no, quello è un gabbiano, non un falco!»
«Un gabbiano?»
«Sì, proprio un gabbiano. Il falco è nero, questo è bianco, non vedi?»
«Ciao gabbiano!» gridò.
«Siamo quasi arrivati. Hai fame?»
Il bambino scosse la testa, continuando a ciucciare. Elettra sorrise, sentendosi ancora una volta inondare d’amore per quello scricciolo di tre anni che le aveva sconvolto la vita, complicandogliela in modo assurdo.
Da quando aveva iniziato a parlare, Leo aveva dimostrato una vera passione per gli animali. Non solo cani e gatti, ma anche uccelli, lucertole, pesci, criceti, mosche, persino ragni: qualunque essere vivente per lui era fonte di meraviglia e di piccoli applausi radiosi. Le tornò in mente com’era lei alla sua età, chiusa in un mondo di silenzio e di diffidenza in quell’istituto tetro e freddo in cui era cresciuta.
Sospirò pensando alla temuta convivenza con sua madre, che si era offerta di venire ad aiutarla con il bambino. Offerta che non aveva potuto rifiutare, date le circostanze, ma che la riempiva di angoscia. Il carattere di Laura la esasperava, le sue insicurezze, le sue ansie avrebbero trasformato la loro vita in un continuo allarme, lo sapeva.
Ma non c’erano vie d’uscita.
Elettra avrebbe preso servizio di lì a pochi giorni. Il tempo necessario per sistemare tutto, per risolvere il problema della caldaia che si era rotta e fare l’inserimento alla materna con Leo. Voleva esserci lei i primi giorni, anche se sapeva che non avrebbe fatto capricci. Dopo le prime normali ritrosie si sarebbe facilmente ambientato. Aveva un carattere curioso e aperto.
Come quello di suo padre.

2

Contovello, 21 novembre 2020
A dare l’allarme era stato un pensionato che passeggiava con il cane. Avvicinandosi al muretto di contenimento della strada, l’animale aveva dato uno strattone e l’aveva tirato con forza in quella direzione. Per rincorrerlo, l’uomo era inciampato su un mucchio di foglie che gli aveva fatto perdere l’equilibrio. Dapprima aveva pensato a un sasso nascosto tra gli arbusti ma poi, vedendo Rocky leccare forsennatamente qualcosa, era quasi svenuto.
Da sotto le foglie spuntava la mano di un uomo.
Era passata un’ora dal ritrovamento. Un’alba livida stava restituendo lentamente i contorni dell’antico e suggestivo borgo di Contovello, arroccato su un costone dell’altipiano carsico a picco sul mare. La bora che aveva infuriato per tre giorni si era infine placata, lasciando dietro di sé il solito scompiglio di rami spezzati, motorini ribaltati e cassonetti della spazzatura scaraventati in mezzo alla strada.
L’agente scelto Mirko Pitacco, arrivato per primo sul posto, si pentì di non aver preso il berretto di lana e i guanti. Il freddo che si insinuava nelle maniche troppo larghe del giaccone era insopportabile.
L’ambulanza era partita già da mezz’ora con il cadavere, senza aspettare l’arrivo dell’ispettore Davolio che, in attesa dell’entrata in servizio del nuovo commissario, era stato provvisoriamente messo a capo della Mobile di Trieste, carica che in tutta evidenza prendeva sottogamba, dato che si era presentato sul posto con molto ritardo.
Appena Pitacco lo vide arrivare a bordo di una volante come sempre a sirene spiegate e fermarsi con gran stridore di freni a pochi metri da lui, trattenne a stento l’impulso di aggredirlo. Era un suo sottoposto, purtroppo, e doveva abbozzare.
Sandro Davolio scese dall’auto avvolto da una nuvola di malumore. Da quando poi c’era l’obbligo della mascherina – che portava comunque sempre e rigorosamente sotto il naso –, il suo carattere era diventato ancora più abrasivo.
«Dov’è?» bofonchiò senza salutare.
«L’hanno portato via poco fa» sibilò Pitacco.
«E parla più forte! Co’ ’sto straccio davanti alla bocca nun se capisce gnente!»
«Ho detto che l’ambulanza l’ha portato via.»
«E che cazz… Senza aspettarmi?»
«È stato il medico legale a dare l’autorizzazione. Tu non arrivavi mai…»
«Porca miseria, stai a sindaca’ i miei movimenti? Mi hai buttato giù dar letto all’alba, damme il tempo de vestimme e de prende’ un cazzo di caffè al bar!»
L’agente decise di non replicare, aprendo il suo taccuino e alzando la voce, per farsi sentire. «La vittima è un uomo sui cinquant’anni. È stato trovato da un tizio che passeggiava con il cane stamattina alle sei e mezza, dietro quei cespugli.»
Davolio si guardò intorno. C’erano delle villette sparse lungo la stretta via che si affacciava sui terrazzamenti digradanti di Contovello.
«Di telecamere neanche a parlarne, vero Pitocco?»
«E basta con questo Pitocco! Non sei spiritoso.»
Non era la prima volta che lo correggeva, ma quel giorno l’esasperazione era arrivata al colmo.
«Eh, quanto la fai lunga! Non si può neppure scherzare un po’ con voi crucchi!»
Il fatto di essere nato a Roma e di essere stato trasferito controvoglia in quella città di «morti viventi», come la definiva lui, sembrava dargli la licenza di dire tutto quello che gli passava per la mente.
«Comunque no. La morte risale con molta probabilità a ieri sera, tra le 21 e le 22, secondo il medico legale. Soffiava una forte bora, forse è per questo che nessuno ha sentito niente.»
Davolio si guardò intorno. «Dove sta?»
«Chi?»
«Come chi? Il tizio che l’ha trovato.»
«Stava gelando. Se ne è andato a casa.»
«A casa?!» gridò Davolio gonfiando di indignazione la sua mascherina. «E che cazz! Ma che te dice il cervello? Dovevi trattenerlo!»
«Tranquillo, verrà comunque più tardi in commissariato. Ho preso i suoi dati.»
«E se fossero falsi? Sveglia, Pitocco! Non lo sai che il colpevole torna sempre sul luogo del delitto?»
L’agente Pitacco preferì cambiare argomento, chiudendo il taccuino. «Hai avvisato la pm?»
«Pensavo l’avessi fatto tu.»
«Non toccava a me.»
«Uh, quanto te piace fa’ la faccia truce! Poi, co’ ’sta cazzo di mascherina fai ancora più paura… E vabbe’, mo’ la chiamo.»
«Torno alla Centrale… Non mi sento più i piedi.»
«Sì, va’, va’. Mo’ arrivo.»

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