Poesia e musica della scienza
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Poesia e musica della scienza

  1. 416 pagine
  2. Italian
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Poesia e musica della scienza

Informazioni su questo libro

Quali capacità sono necessarie per fare scienza e quali per fare arte? Molti indicherebbero certo l'"immaginazione" e la "creatività" nel secondo caso ma difficilmente nel primo. Tom McLeish sfida invece l'assunto che occuparsi di scienza sia in qualche modo meno creativo del dedicarsi all'arte, alla musica, alla scrittura e alla poesia. I racconti di personalità famose in entrambi gli ambiti – da Robert Boyle a Daniel Defoe, da Alexander von Humboldt a Ralph Waldo Emerson, da Claude Monet ad Albert Einstein, da Robert Schumann a Jacques Hadamard – rivelano infatti molti punti in comune: il desiderio di raggiungere un obiettivo, la gestazione del problema, l'intuizione improvvisa, l'esperienza del bello e del sublime, ma anche quella della frustrazione e del fallimento. McLeish seleziona sapientemente temi che intrecciano i due territori: il pensiero visivo e la metafora, la trascendenza della musica e della matematica, l'ascesa contemporanea del romanzo inglese e della scienza sperimentale e il ruolo dell'estetica e del desiderio nel processo creativo.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2022
Print ISBN
9788812009299
eBook ISBN
9788812009428
Argomento
Filosofia

1

L’ispirazione creativa
nella scienza

Infatti, fra tutte le cose che si scoprono, le une, prese da altri prima come esiti faticosi un po’ alla volta sono poi progredite a opera degli eredi, mentre altre, da principio scoperte, di solito in primo luogo hanno avuto un piccolo progresso, tuttavia molto più utile rispetto allo sviluppo dato poi da questi: infatti, è il principio certamente ciò che è più importante di tutto, come si dice. E perciò anche ciò che è più difficile: infatti, essendo tanto più rilevante per importanza quanto più piccolo in estensione, è difficilissimo da vedere. Scoperto questo, però, risulta più facile aggiungere e incrementare il resto.
ARISTOTELE1
Da dove vengono le nuove idee scientifiche? Aristotele rifletteva su un canovaccio molto più vasto rispetto alle imprese che oggi chiamiamo “scienza”, e proseguiva illustrando la sua tesi attraverso esempi di tecnica retorica. In contrasto con le Muse di Platone, Aristotele definisce la forza generativa delle idee, la poiesis, un atto innato della mente immaginativa, ma non risolve il problema del “principio”. Da allora la nostra curiosità nei confronti del processo creativo non si è allentata. Tuttavia, come abbiamo visto nell’introduzione, la nostra comprensione non è migliorata. Nella scienza, testare una buona idea è più facile che concepirla inizialmente. Non solo, è addirittura possibile codificare la pratica dell’osservazione, della modifica o della confutazione, una volta compresa una nuova idea. Esaminiamo una qualsiasi definizione popolare di “metodo scientifico”: si riferisce esclusivamente a questa seconda fase. Questi ricettari scientifici descrivono grossomodo quanto segue: le idee vengono affinate in “ipotesi” sufficientemente solide da poter prevedere l’esito degli esperimenti. Le ipotesi sono poi sottoposte a verifica e, a seconda dei risultati, abbandonate o confermate per un altro giorno. In ambito scolastico, se non con toni più sfumati nel dibattito novecentesco sulla filosofia della scienza, questo modello di Congetture e confutazioni descritto in modo metodologicamente dettagliato da Karl Popper è definito procedimento scientifico. Eppure, persino in quanto fedele resoconto del processo della “scienza normale”, la definizione che Thomas Kuhn dava dei progressi incrementali, giorno per giorno, del lavoro scientifico presenta seri inconvenienti. I filosofi della scienza che gli sono succeduti hanno sottolineato che le teorie non sono così facili da confutare al primo ostacolo dell’accordo sperimentale. Di solito girano in tondo, apportano piccole modifiche e tentano di nuovo il salto.
La lacuna più grande di qualsiasi teoria del metodo scientifico, però, è il silenzio sull’origine delle idee. Il “principio” piccolo ma fondamentale di Aristotele è l’inizio creativo di una nuova strada che, una volta percepita la sua geografia potenziale, può essere costruita chilometro dopo chilometro. Ma in che modo viene concepita l’idea di un nuovo inizio? Da dove viene la nozione della possibilità di una nuova strada? Nessuno ha scritto un metodo per la generazione di nuove idee. Il “metodo scientifico” ci racconta solo una parte della storia che abbiamo bisogno di conoscere per completare l’arco di una nuova interpretazione. Nella classica espressione di Popper2, la “logica della scoperta scientifica” spiega dettagliatamente il modo in cui valutiamo le teorie, costruiamo esperimenti critici per testare le ipotesi, identifichiamo gli aggiustamenti o le aggiunte consentiti senza rovesciare completamente la teoria. Il “metodo scientifico” tuttavia non ha mai formulato raccomandazioni per la creazione di ipotesi iniziali. Al pari del primo motore a combustione interno, sa come continuare a girare ma non possiede gli strumenti per accendersi.
Come abbiamo già visto, lo strano silenzio della scienza sulle sue stesse germinazioni intellettuali, la sua suscettibilità nel parlare del loro concepimento, ha delle conseguenze dannose. Una volta che i risultati della scienza sono descritti in termini disumanizzanti, o come nemici dell’impulso poetico, la riluttanza a parlare di creatività ci mette del suo rappresentandola come un’attività basata su facili ricette per amanti della logica e scettici dell’immaginazione sfrenata. Benché i singoli individui siano consapevoli del fatto che il primo passo creativo è essenziale tanto nella filosofia naturale quanto nell’arte, riconosciuto diffusamente da Aristotele a Einstein, circola ancora la menzogna secondo cui l’immaginazione non sarebbe un requisito fondamentale in uno scienziato. Questa narrazione distorta e arida è predominante sia nei mezzi di comunicazione sia nell’ambito formativo. È impossibile valutarne i danni in tutte le sue ramificazioni, ma nel migliore dei casi di sicuro distoglie i giovani dal perseguire un percorso scientifico potenzialmente fruttuoso e gratificante. Contribuisce al dualismo del paradigma delle “due culture” che aleggia con il suo peso schiacciante sul nostro panorama culturale.
La delusione dei giovani brillanti che incontro e che hanno deciso di non studiare scienza perché non vi intravedevano «alcun canale per l’immaginazione» né stimoli a usare la loro «creatività» condanna la generazione che li precede in due modi. Innanzitutto siamo sotto accusa per non aver spiegato che la scienza attinge in profondità alle sorgenti essenziali dell’energia umana. Siamo altrettanto colpevoli per quello che abbiamo raccontato ai nostri allievi, per aver delineato un programma che induce la maggior parte di chi lo segue a credere che scienza significhi accumulare e rigurgitare fatti, quando invece davanti a noi si estende un universo di strutture intricate e di mistero. Non siamo stati in grado di comunicare l’avventura della reinvenzione e dell’apprendimento, dell’invito che la natura ci rivolge a scrutare nei livelli multipli della struttura del mondo, ad allargare la nostra visione in un’infinità di modi, a pensare alla materia e alla forma in maniera completamente nuova.
Persuadere uno scienziato a ricordare e descrivere i momenti in cui si è reso conto che la sua immaginazione si era accesa grazie a una bellissima nuova idea è come aprire uno scrigno che contiene un tesoro. Mi piacciono immensamente queste conversazioni: spesso all’inizio la descrizione della scoperta è riluttante, ma vale la pena aspettare il racconto dei momenti di rivelazione, anche se alcuni di questi ricordi sono maturati con l’età. Una gamma scintillante di verità prima nascoste viene messa a disposizione di uno sguardo condiviso, e subito si ha l’impressione che man mano che si colgono queste delizie, a una a una, sotto se ne troveranno altre, insieme alla netta sensazione di una scoperta personale. Non solo, ci sono una gratificazione emotiva oltre che intellettuale, una ricompensa estetica, la sensazione di aver ricevuto un dono e un privilegio. Queste esperienze sono completamente diverse dalla “logica della scoperta scientifica”, sebbene sia possibile viverle anche mentre si è immersi nel procedimento del lavoro metodologico. Il concepimento di un’idea radicalmente nuova può avvenire durante la routine di un esperimento, di un calcolo, dell’attenta elaborazione di dati, della soluzione della miriade di problemi quotidiani che si presentano nell’avanzamento di un progetto di ricerca: spesso sembra che giunga involontariamente, come se provenisse dagli strati inconsci della mente. Sembra tanto un dono quanto una scoperta e, pur essendo senza dubbio scaturita dalla lunga fatica del lavoro di routine, possiede una dinamica speciale. Questo capitolo esplorerà in modo più dettagliato le esperienze creative degli scienziati: alcuni sono noti pubblicamente, altri soltanto nel loro ambito specifico, ma tutti tentano di spiegare in modo articolato l’immaginazione scientifica. L’interrogativo è sempre l’origine delle nuove idee, soprattutto quelle che trasformano radicalmente la nostra interpretazione di qualche aspetto della natura.

Un momento privato di scoperta

Come abbiamo osservato, le testimonianze di scoperta creativa nella scienza sono meno diffuse di quello che potremmo sperare, ma esistono alcune eccezioni candide e coraggiose. Una l’abbiamo già incontrata: nell’introduzione, l’emozionante scoperta di Chandrasekhar che i buchi neri devono proliferare nell’universo in modo matematicamente esatto ci ha stimolato a esplorare l’immaginazione e gli aspetti emotivi nella scienza. Richard Feynman, insignito del premio Nobel per la sua teoria quantistica della luce, ricorda un momento differente ma altrettanto prezioso di ideazione creativa, il culmine di un lungo periodo di riflessione sui dati enigmatici degli esperimenti condotti sulle particelle subatomiche nei primi anni Cinquanta del Novecento. I recenti sviluppi nei ciclotroni – acceleratori che fanno scontrare le particelle a velocità elevatissime – stavano fornendo enormi quantità di dati che indicavano indirettamente quali potessero essere le forze sconosciute che le governavano. Il problema era che nessuna legge matematica allora conosciuta per descrivere le forze riusciva a spiegare le misurazioni. Com’è consueto nella scienza, con il senno di poi alcuni esperimenti si sono rivelati più affidabili di altri, ma all’epoca non era chiaro a quale si dovesse dare maggior peso.
Molto tempo prima, Isaac Newton si era occupato di dati sulle orbite della luna, dei pianeti e delle comete rendendosi conto che potevano offrire uno schema generale delle forze gravitazionali che agiscono tra loro. Attraverso l’invenzione di nuovi metodi matematici (l’analisi) e la loro applicazione intuitiva alle orbite reciproche di due corpi che si attraggono con una forza che dipende dalla distanza, arrivò alla sua celebre legge di gravità “dell’inverso del quadrato”. Più due corpi erano distanti, più debole era la forza di attrazione tra loro, e non solo: la diminuzione della forza con la distanza determinava la forma geometrica delle orbite che i corpi avrebbero seguito. La definizione “inverso del quadrato” descrive semplicemente questa legge per cui l’attrazione è inversamente proporzionale alla distanza: allontanando due corpi della metà della loro distanza originaria si riduce la loro forza d’attrazione di un quarto (1/22); allontanandoli del triplo della distanza si riduce di un nono (1/32). Giove, distante dal Sole cinque volte più della Terra, è soggetto soltanto a un venticinquesimo della gravità solare rispetto alla Terra. Un aneddoto meraviglioso racconta che l’astronomo Edward Halley si rivolse a Newton per chiedergli se conoscesse una legge che spiegasse le orbite ellittiche: infatti nel 1684 le osservazioni indicavano che non solo i pianeti, ma anche le comete descrivevano proprio questa geometria di percorsi intorno al Sole. Newton aveva già calcolato che le orbite ellittiche sono direttamente proporzionali all’indebolimento della forza di gravità con la legge dell’inverso del quadrato della distanza di un pianeta dal Sole3. Da quel momento le traiettorie dei pianeti nel cielo che siamo in grado di vedere e misurare sono diventate segni di un campo di forza universale che vive nell’immaginazione e che non “vediamo” in alcun altro modo.
Quasi tre secoli dopo, Feynman era alla ricerca di leggi sull’interazione tra particelle scoperte da poco, chiamate “pioni”. I dati essenziali erano appena diventati disponibili, perché erano necessari urti ad alta velocità tra i già noti protoni perché si creassero queste particelle, che esistevano in modo stabile solo per pochissimo tempo prima del decadimento in particelle più stabili. La produzione e l’individuazione dei pioni richiedevano l’uso di tecnologie sviluppate negli anni Cinquanta. Uno dei percorsi di disintegrazione chiamato “decadimento beta” si rivelò particolarmente misterioso. Così come molto tempo prima Newton aveva affrontato il compito di reinventare la gravità, anche in questo caso all’idea visiva di un campo di forza che sussiste in uno spazio tra particelle doveva corrispondere una descrizione matematica (l’equivalente della legge gravitazionale dell’inverso del quadrato). Anche se in questo caso l’impalcatura fisica doveva essere la meccanica quantistica e non il paradigma classico in cui funzionava la gravità di Newton, l’idea di un campo di forza d’attrazione è sopravvissuta a questa trasformazione. Feynman racconta della notte in cui cominciò a lavorare sul serio a una teoria che avrebbe, con suo grande stupore, predetto una differenza tra la versione destra e quella sinistra del campo di forza:
Quella sera ricalcolai tutto. Prima il tasso di disintegrazione del muone e del neutrone – che, se la mia teoria era corretta, dovevano essere collegati da un certo rapporto – con un’approssimazione del 9%. Un margine del 9% non era insoddisfacente: avrebbe dovuto essere ridotto, ma per ora poteva bastare.
Controllai altri dati: quadravano. Altri: quadravano. Altri ancora: quadravano. Ero molto su di giri: per la prima e ultima volta nella mia carriera avevo scoperto una nuova legge, una legge della natura che nessuno conosceva.
Fino ad allora avevo migliorato teorie altrui, oppure avevo usato un’equazione particolare, come quella di Schrödinger, per spiegare fenomeni come il comportamento dell’elio liquido; avevo risposto alla domanda: “Conosciamo l’equazione e conosciamo il fenomeno, ma come funzionano davvero le cose?”.
Pensai a Dirac, anch’egli per un po’ era stato il solo ad aver trovato un’equazione che spiegava il comportamento dell’elettrone. Adesso avevo anch’io la mia equazione sul decadimento beta. Non fondamentale come quella di Dirac, ma neanche del tutto da buttar via4.
Ho letto e riletto più volte questo brano straordinario. La prosa spumeggiante e tuttavia densamente stratificata contiene moltissimi tesori. Comunica al tempo stesso l’eccitazione, l’accelerazione del battito cardiaco, la fatica febbrile e insonne di estrarre un gioiello dopo l’altro dallo scrigno appena aperto. Feynman ha immaginato e realizzato un’elegante legge di forza nel profondo dell’atomo, che a sua volta costituisce una lente attraverso la quale una massa di osservazioni confuse diventa improvvisamente chiara. Tuttavia al centro delle sue prime escursioni all’esplorazione di questo oggetto meraviglioso si cela, sotto l’eccitazione, un’idea di contemplazione: «avevo scoperto una legge della natura». Avevo scoperto una legge della natura: quest’ardita affermazione possiede la forza di uno sguardo focalizzato sull’abisso che divide la mente e il mondo materiale, nonché una sensazione di privilegio personale perché sopra vi è stato eretto un altro ponte, e a farlo è stato proprio lui. Feynman è attento a distinguere questo lavoro speciale dalla scienza “normale” (nel caso di un fisico teorico) fatta di “calcoli e spiegazioni”. Questo momento è un dono di preziosa unicità.
È un istante che possiede una solitaria peculiarità, ma le riflessioni di Feynman sono rivolte anche alla comunità di colleghi di cui fa parte. Viene in mente la famosa rappresentazione matematica dell’elettrone operata da Dirac, che a sua volta rappresenta un momento in cui la particella più comune (l’elettrone, responsabile di ogni processo chimico, proprietà materiale e conduttività dei metalli) è stata immaginata come dotata di una geometria molto più ricca rispetto al passato. Anche la creazione di Dirac è stata un momento in cui la chiarezza ha preso il posto della confusione e la coerenza quello della contraddizione: per la prima volta la meccanica quantistica della struttura atomica che era piombata sulla fisica dei primi anni Venti del Novecento sembrava coerente con la struttura della relatività ristretta teorizzata da Einstein nel 1905. Allo stesso modo è comparso naturalmente, in modo spontaneo, lo “spin” dell’elettrone, la proprietà che conferisce agli atomi la loro struttura allungata e le loro proprietà magnetiche. Miracolosamente, l’idea che Dirac aveva di questa geometria superiore dell’elettrone predisse anche l’“antimateria”, l’esistenza di un partner “specchio” di ogni particella conosciuta, ma dotato di una serie di proprietà opposte. Nel giro di qualche anno nuovi esperimenti avevano cominciato a scoprire queste anti-particelle, concepite all’inizio attraverso un’immaginazione strutturata matematicamente. Possiamo capire perché Feynman affermò che il lavoro di Dirac fosse “fondamentale” e perché questo sia il tipo di esperienza all’interno del quale colloca la sua scoperta più umile, quella che è diventata nota come “interazione V-A” nel decadimento beta.
Esiste un aneddoto interessante, raccontato anche da Feynman nella sua onesta e divertente biografia, sulle difficoltà che portarono a questo momento di illuminazione. Aveva vissuto un’esperienza molto comune ai giovani ricercatori: sembra che tutti gli altri sappiano molte più cose, siano molto più avanti, scrivano e parlino a un livello di sofisticazione a cui loro non potrebbero mai ambire. Ricordo le conversazioni alla lavagna durante le pause, quando ero un giovane studente ricercatore di Fisica. I professori e i ricercatori post-doc sembravano così veloci, così astrusi con i loro ragionamenti matematici e l’agilità con cui in pochi minuti attraversavano oceani concettuali che per me persino ore dopo erano ancora avvolti nella nebbia. È fin troppo facile sentirsi intimiditi da questa esperienza, quasi timorosi di avventurarsi in territori di pensiero non segnati sulle mappe. Passando a un’altra metafora, azzardare una nuova pennellata, seppur leggera, sulla nostra tela scientifica della natura richiede un’enorme sicurezza di sé, e però tutte le esperienze di un giovane scienziato tra colleghi più o meno esperti tendono a scalfire quella sicurezza. Ciononostante, basta ascoltare il viavai di idee che vengano o meno colte consapevolmente in quel momento, per piantare semi di nuove intuizioni che germineranno in seguito. Simili esperienze, soprattutto se poi sono seguite dall’affioramento di un’idea convincente che arriva come un dono proveniente da un altro luogo, testimoniano il ruolo del pensiero inconscio, un aspetto della creatività scientifica che abbiamo già intravisto e che dovremo esplorare ulteriormente. Ma, come succede a tutte le creature timide, tendiamo a individuarne i movimenti soltanto ai margini della nostra visione. Quando ci giriamo per guardarla nella sua interezza, l’esperienza dell’ideazione inconscia è scomparsa.
Avremo bisogno di altri esempi per mettere insieme tutte le possibili fugaci incursioni dell’inconscio nella creatività. Infatti, quale che sia la nostra opinione sull’eredità freudiana nell’attuale analisi del subconscio, il suo lascito duraturo è il riconoscimento del fatto che la mente conscia costituisce solo una piccola parte del nostro pensiero. Se è stato dimostrato che gran parte della nostra vita emotiva è sepolta...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. PREFAZIONE
  5. INTRODUZIONE. Creatività e limiti
  6. CAPITOLO 1. L’ispirazione creativa nella scienza
  7. CAPITOLO 2. Vedere l’invisibile
  8. CAPITOLO 3. La scienza sperimentale e l’arte del romanzo
  9. CAPITOLO 4. Musica e matematica
  10. CAPITOLO 5. Emozione e ragione nella creazione scientifica
  11. CAPITOLO 6. Il fine della creazione
  12. BIBLIOGRAFIA
  13. Inserto fotografico