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Gli ultimi Re di Shanghai
- 352 pagine
- Italian
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Gli ultimi Re di Shanghai
Informazioni su questo libro
Shanghai, anni Trenta. Il Cathay Hotel, sul famoso lungomare della città, era uno dei più glamour al mondo. Costruito da Victor Sassoon – intraprendente playboy miliardario – ospitava celebrità del calibro di Charlie Chaplin e Wallis Simpson, mentre migliaia di turisti partiti da Trieste, Amburgo, Londra, Seattle, Vancouver sbarcavano dai nuovi, scintillanti transatlantici alla scoperta di una città che vantava grattacieli e uno skyline paragonabili a quelli di Chicago. Il merito di tanta modernità era soprattutto di due famiglie ebree, che prosperavano in Cina dal primo Ottocento, rivali in ricchezza e potere: i Kadoorie e, appunto, i Sassoon.
Entrambe originarie di Baghdad, sono rimaste al vertice degli affari del paese per oltre un secolo, iniziando a fare profitti con le guerre dell'oppio, sopravvivendo all'occupazione giapponese, corteggiando Chiang Kai-shek, resistendo fino all'ultimo per salvare i loro imperi dalla rivoluzione comunista. Al culmine della Seconda guerra mondiale si unirono per salvare diciottomila rifugiati ebrei in fuga dal nazismo. Gli sfarzosi edifici che hanno costruito e le floride attività che hanno avviato continuano a definire Shanghai e Hong Kong fino ai nostri giorni. Jonathan Kaufman ricostruisce una storia troppo a lungo ignorata, ambizioni, rivalità, intrighi politici e tenacia di questi protagonisti del boom economico che ha aperto la Cina al mondo.
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Informazioni
PARTE SECONDA
Re di Shanghai

Elly Kadoorie insieme ai figli Lawrence (a sinistra) e Horace.
4
L’ascesa di Shanghai
Se la Cina cadeva, Shanghai saliva alla ribalta.
Sun Yat-sen restò alla presidenza della nuova Repubblica cinese per pochi mesi, dopodiché fu spodestato e sostituito da un potente generale, Yuan Shikai, che si dichiarò imperatore verso la fine del 1915, salvo abdicare poco tempo dopo e lasciare un vuoto di potere che innescò un nuovo periodo di conflitti tra i signori della guerra. I generali spadroneggiavano in diverse parti del paese, governando veri e propri feudi attraverso il terrore e la forza militare. Inglesi, francesi, americani, tedeschi e giapponesi continuavano tutti ad amministrare la propria sfera d’influenza, estendendo il controllo su gran parte delle principali città, eccetto Pechino. Per avere un’idea, immaginate che, nonostante l’indipendenza ufficiale degli Stati Uniti, gli inglesi fossero rimasti a New York, Boston e Atlanta, con un governo indipendente asserragliato a Washington e sconfitto ripetutamente dai nativi americani a Ovest e dai secessionisti a Sud.
Tuttavia, Shanghai poteva contare su ciò che in gran parte della Cina mancava: un governo stabile in grado di proteggere i cittadini1. La Concessione internazionale era nata nel 1863, attraverso la fusione di due concessioni limitrofe: quella americana – una fetta di territorio lungo lo Huangpu – e quella britannica. La graziosa enclave era amministrata da un Consiglio municipale, formato da sette finanzieri e industriali di spicco eletti dalla comunità imprenditoriale inglese. (La Concessione francese restava autonoma e ad amministrarla era un gruppo simile di imprenditori stranieri). Il Consiglio si occupava della costruzione delle strade, della raccolta dei rifiuti e della riscossione delle imposte. Regolamentava la fornitura di gas, la circolazione di tram e risciò, la prostituzione. Garantiva l’ordine pubblico. I leader del mondo imprenditoriale facevano sì che tutte le decisioni politiche della Concessione internazionale esaudissero i desiderata dei capitalisti stranieri: stabilità, ricchezza e assenza di interferenze statali. Beninteso, fra i membri permanenti del Consiglio sedevano rappresentanti dei Sassoon. A detta di uno storico, Shanghai era diventata una «repubblica di mercanti». Gli investitori stranieri accorrevano numerosi, attirati dalle strutture moderne, dalle tasse ridotte e da un’assenza di regole vantaggiosa per le imprese. Per gli ambiziosi imprenditori e finanzieri di tutto il mondo, Shanghai non puzzava più di fogne, cibo da strada e incenso. Aveva il profumo dei soldi.
La vita quotidiana era molto più gradevole di quando Laura deprecava la città nel suo diario. Almeno nei quartieri degli stranieri erano scomparsi il fetore di malattia e lordure, gli uomini rissosi, la sensazione di trovarsi al confine dell’impero. Adesso le banche, le imprese commerciali e i palazzi del governo lungo il Bund erano adorni di colonne. All’assenza di un sistema fognario, che aveva inorridito i primi coloni stranieri, alla vista dei cinesi che spostavano i loro morti sulle carriole come mucchi di mattoni, alla mancanza di un’illuminazione e di acqua corrente degne di questo nome si era sostituita la nuova tecnologia. Nelle concessioni occidentali si trovavano tram, lampioni a gas e condutture idriche. Le ville degli stranieri facoltosi su Bubbling Well Road si estendevano ben oltre il famoso ippodromo. Le sofferenze della Cina arretravano di fronte agli splendori del colonialismo. Il numero di donne occidentali a Shanghai – che in gran parte accompagnavano i mariti – aumentò da appena sette nel 1850 a oltre tremila nel 1895, segno di quanto erano migliorate le condizioni di vita. Un frasario molto diffuso all’epoca suggeriva alle straniere appena sbarcate in città le espressioni più comuni per poter comunicare con la servitù cinese: «Nung hiau tuh Ying koh kuh sau feh va?» (Sai cucinare alla maniera inglese?); «Hiniung tan long kuh bung zung tan t’seh chepah» (Va’ a sbattere il tappeto fuori); «Pau seau non t’seh chepeh seang seang» (Porta il bambino a passeggio)2.
«Non c’era che da urlare […] e tutto arrivava», avrebbe ricordato un giovane imprenditore inglese. «Dapprima, chi aveva il compito di portare l’acqua per riempire la vasca del bagno giornaliero, poi il “secondo boy” per un bicchiere di vino rosso, una bistecca e qualche uova (costavano così poco che non si poteva non mangiarle), e infine, sempre con un urlo, si chiamava […] il coolie addetto al trasporto fino all’ufficio, per gli affari del giorno»3.
«Ricordo che prima dei dodici anni non mi sono mai fatta il bagno da sola», gli fa eco una vicina dei Kadoorie in Bubbling Well Road. Ad aiutarla era sempre una cameriera. «Non sapevo neanche sciacquare una tazza. Avevo una bambinaia che mi era più intima di mia madre»4.
Crescita e modernizzazione non si limitavano ai quartieri stranieri e alle famiglie europee che li abitavano, ma si diffusero anche all’esterno. Sin dalle guerre dell’oppio, le migliori menti della Cina si scervellavano per trovare un modo di reagire alla superiorità tecnologica e militare dell’Occidente. Per molti imprenditori e uomini d’affari, adesso Shanghai offriva una risposta: imparare dagli stranieri e approfittare dei confini aperti e del dinamismo della città. Se per alcuni cinesi Shanghai era un promemoria costante delle umilianti sconfitte della Cina, per altri illuminava il futuro.
Verso gli anni Venti del Novecento, nella Concessione internazionale di Shanghai amministrata dagli inglesi, oltre a più o meno quarantamila stranieri, vivevano un milione di cinesi. Altri due milioni abitavano nelle zone della città controllate dalla Cina. Nella Concessione internazionale, pur dovendo sottostare a precise restrizioni sociali (il divieto di entrare nei circoli britannici e di passeggiare in determinati parchi), potevano fare acquisti, lavorare negli uffici e nelle fabbriche. Cinesi ambiziosi si trasferirono a Shanghai, decisi a lavorare per le imprese straniere che fiancheggiavano il Bund. Vivevano come immigrati nel loro stesso paese: lavoratori instancabili e intraprendenti, si ammassavano negli slum e cercavano lavoro per i ricchi stranieri o per le nuove aziende cinesi contagiate dall’energia innovativa della città. Si trattava di imprese che operavano nel campo del cotone, della gomma, del tabacco, del ferro, della farina, delle sigarette e dell’industria alimentare. Tra la fine dell’Ottocento e gli anni Venti del secolo successivo, più di metà delle nuove fabbriche del paese furono aperte – da imprenditori cinesi – a Shanghai. L’industria cinematografica fiorì. Sui palazzi della città erano affissi tabelloni pubblicitari che ritraevano donne cinesi vestite all’europea, intente a fumare sigarette d’importazione, circondate da oggetti di lusso tipici dell’Occidente.
Rispetto alle autorità cinesi, nella Concessione internazionale gli inglesi consentivano anche maggiore dissenso e una stampa più libera. La conseguenza fu che l’enclave divenne un’oasi di politici radicali, inclusi i comunisti che volevano abbattere il capitalismo e scacciare gli stranieri dalla Cina. Negli anni Venti, sia Mao Zedong che Zhou Enlai, due capi della rivoluzione comunista che avrebbe trionfato nel 1949, vivevano nella Concessione internazionale o nella vicina Concessione francese, si dedicavano alla propaganda e tenevano riunioni finalizzate a scatenare la rivoluzione. All’epoca, in Cina circolavano oltre mille quotidiani, settimanali e mensili in lingua cinese, molti dei quali si pubblicavano a Shanghai. Gli operai erano appassionati di politica. «In fabbrica quasi tutti leggono i giornali», annotava l’operaio di un cotonificio. Una donna analfabeta comprava il giornale tutti i giorni e chiedeva al figlio di leggerglielo, in modo da poter «capire la società e la situazione politica presente»5. Persino i conducenti di risciò seguivano le notizie: uno su due leggeva i giornali.
La prima volta che andò a Shanghai negli anni Venti, il soldato americano Joseph Stilwell, che avrebbe svolto un ruolo centrale nel plasmare le opinioni americane sulla Cina e le relazioni fra i due paesi durante la seconda guerra mondiale, rimase stupito da quant’era moderna la città. Anziché un panorama orientale di pagode di legno e templi dai tetti delicatamente spioventi, si trovò davanti alberghi e banche moderni, ampi viali e parchi tipici di una città occidentale. Dalla finestra del suo albergo, Stilwell pensò che Shanghai fosse come Philadelphia6.
Poi passeggiò per le strade. Uscito dall’albergo, s’immerse nei vicoli «animati, traboccanti di gente, odori e dell’incessante frastuono di voci che urlavano, commercianti che vendevano e contrattavano, berciavano imprecazioni e avvertimenti, decantavano le merci con grida, nenie, tintinnii di campanelle e colpi di bacchette su ceppi di legno». Nel suo diario si meravigliava dell’energia dei cinesi: «Sotto la giusta direzione, quattrocento milioni di abitanti, con la loro capacità di lavorare e produrre, prenderanno il potere e per noi sarà meglio stare dalla loro parte».
«Non c’è mai stata e mai ci sarà un’altra città come Shanghai tra le due guerre», avrebbe scritto anni dopo il figlio di Elly, Lawrence Kadoorie. «Una città di contrasti estremi, che combinava tratti orientali e occidentali. La Parigi d’Oriente […] un paradiso per gli avventurieri. Lì mio fratello e io continuammo i nostri studi: il profilo internazionale di Shanghai ci aprì la mente e ci diede un’idea di cosa volesse dire diventare cittadini del mondo».
Per il ricco rampollo venticinquenne di una dinastia in ascesa, la città era la terra promessa. «Gli inverni erano freddi, e perciò stimolavano attività ed energia», ricorda Lawrence. «A Shanghai si poteva ballare per tutta la notte, andare a cavallo alle sei del mattino, lavorare tutto il giorno e non sentirsi stanchi»7.
Scioccato dalla morte di Laura, un abbattuto Elly Kadoorie, trasferitosi a Londra, rifletteva sul da farsi. Tornare a Shanghai cominciava a sembrare una buona soluzione. Aveva già fatto entrare Lawrence, allora ventenne, al Lincoln’s Inn, prestigiosa facoltà di legge londinese. Horace, più piccolo di qualche anno, aveva in mente di studiare architettura o forse agraria e diventare un gentiluomo di campagna. Elly era un uomo facoltoso e aveva l’appoggio della famiglia di sua moglie, i Mocatta, ricchi e socialmente ben inseriti. Ma in Inghilterra gli orizzonti gli parevano limitati. Non aveva la cittadinanza britannica e i suoi rivali lo trattavano con sufficienza, facendosi beffe della morte di Laura. Per esempio, descrivendo l’incendio che aveva ucciso la donna, un dirigente di Jardine, J. J. Patterson, scrisse ai suoi capi: «Nello scompiglio generale fu dimenticata la madre di famiglia; quando tutto era finito, la trovarono affumicata e stecchita come un’aringa, nella dispensa dove aveva cercato scampo»8. Il dirigente aggiunse che Elly «sfortunatamente […] trovò la porta!». William Keswick, capo della sede di Jardine a Shanghai e uno degli uomini più potenti della città, scherniva in privato le fattezze “semitiche” dei Kadoorie. In una lettera lamentava che «non la finivano mai d’impicciarsi e di fare domande» in materia di affari. «Si potrebbe in verità affermare che i Kadoorie, con il naso che si ritrovano, sono ficcanaso nati».
Per contro, i cinesi con cui Elly faceva affari a Shanghai e Hong Kong non distinguevano tra imprenditori inglesi ed ebrei. Lo trattavano con rispetto. A quanto poteva vedere Elly, in Cina non esisteva una storia di antisemitismo. A cinquantacinque anni, Elly non aveva il garbo necessario per condurre la vita di un pacato signorotto di campagna. Era «un vortice di energia», stando alle parole di un suo impiegato. «Un uomo che non gradiva le lungaggini burocratiche e procedeva a modo suo […]. Si aspettava che tutti i lavori che chiedeva fossero sbrigati all’istante […]. Era un osso duro come capo, gli piaceva il lavoro ben fatto»; dopo la morte di Laura, gradiva «anche le donne ben fatte»9. Intanto, la stampa inglese raccontava tutti i giorni l’andirivieni a corte dei vari Sassoon, chiamati a intrattenere il re e a socializzare con la sua cerchia. Elly sentiva che a Londra, nonostante il suo successo, sarebbe rimasto per sempre un outsider, all’ombra dei più ricchi e fortunati Sassoon.
A confermare la decisione fu una seconda tragedia familiare. Un anno dopo la morte di Laura, il fratello di Elly, Ellis, morì d’infarto a Hong Kong, lasciandogli una grossa quota di una catena di alberghi a Hong Kong, Shanghai e Pechino. Elly si trovò a dirigere un impero che si estendeva da un capo all’altro della Cina e toccava punti strategici dell’Asia: gli alberghi di lusso del fratello defunto; una società elettrica a Hong Kong e nella Cina meridionale; imprese della gomma in Malesia; fruttuosi pacchetti azionari a Shanghai. Quegli investimenti sempre più vasti richiedevano un’attenzione costante. L’ultima volta che si era trasferito in Inghilterra – nel 1910 – aveva lasciato gli affari nelle mani di amministratori locali; ruberie e una crisi finanziaria l’avevano spinto a tornare. E un avvertimento gli era giunto anche dalle vicende dei Sassoon: durante la prima guerra mondiale, le aziende di famiglia erano state accusate di intrattenere rapporti commerciali con i nemici tedeschi, e le congetture avevano riempito le pagine dei giornali. Alla fine si era risolto tutto con un’assoluzione, ma era la prova che allentare le redini del controllo poteva infangare il nome della famiglia.
Elly decise di tornare a Shanghai insieme ai figli. Se prima aveva fatto affidamento su Laura, adesso si appoggiava a Lawrence e Horace. Nel 1924 ordinò a Lawrence di porre fine agli studi di legge al Lincoln’s Inn e a Horace di abbandonare i sogni riguardo l’architettura e la vita in campagna. (Con un piccolo atto di ribellione, Lawrence non si ritirò mai ufficialmente dal Lincoln’s Inn, ma tenne vivi i rapporti con l’ateneo fino agli ottant’anni suonati). I Kadoorie annunciarono il loro ritorno a Shanghai costruendo la villa più grande della città. Modellata sulla reggia di Versailles, poco fuori Parigi, dove gli Alleati avevano di recente tenuto il congresso di pace alla fine della prima guerra mondiale, Marble Hall era grande il doppio di tutte le case che esistevano a Shanghai e si trovava lungo la stessa strada della più modesta abitazione di William Keswick, uno degli eredi di Jardine, i cui dirigenti erano soliti sbeffeggiare Elly e la sua famiglia. La veranda anteriore di Marble Hall era lunga quasi setta...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- PERSONAGGI PRINCIPALI
- INTRODUZIONE
- PARTE PRIMA: Il richiamo di Shanghai
- PARTE SECONDA: Re di Shanghai
- PARTE TERZA: Esilio e ritorno
- RINGRAZIAMENTI