Le parole valgono
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Le parole valgono

  1. 185 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Per reagire all'ondata di violenza e di sciatta volgarità che ha invaso la lingua italiana, gli autori hanno scelto, come strumento di redazione, le parole che valgono, accompagnando il lettore a scoprirle in testi pieni di sorprese. Dalle diciassette parole usate in una famosa sentenza medievale a quelle di una canzone d'amore in una pergamena del XII secolo; da quelle di san Francesco, Dante, Leonardo e Ludovico Ariosto a quelle raccolte nel Vocabolario della Crusca; da quelle di Cesare Beccaria contro la tortura e la pena di morte a quelle struggenti di Bella ciao, fino alle parole di due grandi presidenti della Repubblica, Einaudi e Ciampi, e di Papa Bergoglio.

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Informazioni

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“LE PAROLE VALGONO”: QUANDO UNA FRASE DIVENTA UNA BANDIERA

di Valeria Della Valle
Dire che le parole valgono può sembrare un’ovvietà. E in parte lo è. Ma è anche vero che in certi periodi le parole usate male, come armi di offesa, hanno avuto un valore distruttivo. In politica i prepotenti le hanno sempre adoperate per evitare di confrontarsi con chi la pensava diversamente da loro. In un periodo infausto della nostra storia, conclusosi con una guerra che ha condotto alla morte circa cinquecentomila italiani, parole come giudeo, pietista, sovversivo sono state usate per perseguitare italiani di religione ebraica e per distruggere oppositori politici con la violenza degli epiteti scagliati contro chi osava dissentire. Il male fatto a costoro veniva liquidato con un «Me ne frego»; l’importante era «credere, obbedire, combattere».
Può sembrare incredibile, ma in questi anni le parole sono tornate a essere usate come armi offensive. Attraversano i vecchi e i nuovi media, le reti sociali e perfino il Parlamento e le istituzioni di governo.
Per reagire a questa ondata di barbarie linguistica, in un momento in cui molti (noi compresi) hanno avuto l’impressione che l’Italia stesse per naufragare, e non solo linguisticamente, Massimo Cacciari ha scritto su “la Repubblica” del 7 maggio 2019:
Non resta forse altra vera Patria che la lingua. Lo dicono, in fondo, tutti i poeti esuli (Thomas Mann, ad esempio) nel tempo in cui le più grandi miserie si abbattono sui loro Paesi. Abitare la lingua con tutta la cura possibile, questo ci è dato, coltivarla, arricchirla nel dialogo con altre, renderla sempre più capace di tradurle in sé. La lingua tanto più è ricca quanto più accoglie. Così dovrebbe essere anche la Patria. Come la Patria non è un mezzo, uno strumento a nostra disposizione per perseguire i nostri, particolari fini, così non è un mezzo la lingua per informarci di questo o di quello. È pensiero, storia, cultura, e noi dobbiamo essere coloro che la trasformano custodendola. La lingua è Matria, però, assai più che Patria; la lingua è materna.
Matria. Per parlare dell’importanza della lingua Cacciari non ha coniato una nuova parola, ma si è servito, al contrario, di una voce di tradizione antica e letteraria, la matria già invocata da Torquato Tasso in una lettera del 7 giugno 1585:
Ne godo tra me stesso per molte cagioni, delle quali la prima, ch’ella sia di quella nobil patria della quale io mi vanto; e potrei gloriarmene più ragionevolmente, s’io la chiamassi la mia cara matria.
È un neologismo, invece, dismatria, la parola che nel 2005 Igiaba Scego, scrittrice nata in Italia da genitori somali, ha coniato per dare un titolo a un suo racconto incentrato su un espatrio forzato, particolarmente sofferto, dalla propria terra d’origine e dalla propria lingua madre.
Un antico proverbio, registrato nel Vocabolario degli Accademici della Crusca fin dalla prima edizione del 1612, recita: “Le parole sono femmine e i fatti sono maschi”. La misoginia ha radici antiche e propaggini moderne: il modo di dire appena menzionato raccoglie l’eredità di un adagio latino medievale che diceva “Facere virorum est, loqui vero mulierum” (“Il fare è proprio degli uomini, mentre il parlare è proprio delle donne”), e tuttora campeggia, nella sua forma in lingua italiana, sullo stemma dello Stato americano del Maryland. Benché non sia riconosciuto ufficialmente, è adoperato nei suoi documenti ufficiali ed è esposto negli edifici statali. Recentemente, molti cittadini di quello Stato che non apprezzano il motto hanno chiesto che venga abolito.
Neanche a noi piace questo modo di dire. Gliene preferiamo un altro di significato opposto e di fortuna recente: “Le parole valgono”. Lo ha diffuso con successo l’Istituto della Enciclopedia Italiana (quella che tutti noi chiamiamo, con ammirata e affettuosa familiarità, “la Treccani”), avviando attraverso i suoi canali social una campagna intitolata proprio così: #leparolevalgono.
Che una tale campagna sia partita da questa istituzione culturale non deve sorprendere. La Treccani è stata, dalla sua fondazione nel 1925 a oggi, una vera e propria officina di parole: nelle sale di Palazzo Mattei, in quella che un tempo si chiamava piazza Paganica e che nel 1992 è stata rinominata piazza della Enciclopedia Italiana, le parole sono state raccolte, studiate, analizzate, definite. A fare questo lavoro, curvi sulle scrivanie e sotto la luce di lampade di vetro opalino verde, sono stati i protagonisti della cultura italiana del Novecento e dell’inizio del nuovo millennio: da Giovanni Gentile a Gaetano De Sanctis, da Umberto Bosco a Bruno Migliorini, da Ignazio Baldelli a Sabatino Moscati, da Giorgio Petrocchi a Luigi Moretti, via via fino a Tullio Gregory, solo per ricordare qualche nome illustre dei moltissimi che potrebbero essere citati.
Nell’ottobre del 2015 la Treccani cominciò a diffondere lo slogan “Le parole valgono”, rivolgendo a tutti gli internauti una domanda tanto semplice quanto appassionante: «Quale parola ha cambiato la tua vita?» Nella campagna furono coinvolti esponenti del mondo della cultura, dello sport, della musica, della letteratura e dello spettacolo, da Alessandro Baricco ad Andrea Bocelli, da Samantha Cristoforetti a Rosario Fiorello, da Luciana Littizzetto ad Alba Rohrwacher, fino a Claudio Santamaria e a Francesco Totti.
L’appello ebbe un successo straordinario, testimoniato dai numeri: un totale di 6.829.107 di accessi, con 21.071.790 visualizzazioni. Alle molte persone che parteciparono al sondaggio, nel novembre del 2015 se ne aggiunse una davvero inaspettata: papa Francesco, che indicò la parola misericordia come «il messaggio più forte del Signore».
In seguito agli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, la campagna chiamò a raccolta le testimonianze degli utenti intorno alla parola solidarietà.
Infine, nell’ottobre del 2016, fu scelta la parola fiducia, che venne esposta sulla facciata in restauro dello splendido palazzo rinascimentale della Cancelleria di Roma.
Nel discorso di fine anno del 31 dicembre 2018 Sergio Mattarella ha parlato dell’esistenza di un’Italia «che ricuce e che dà fiducia, così come fanno le realtà del terzo settore, del no profit che rappresentano una rete preziosa di solidarietà».
Due delle tre parole simbolo che abbiamo menzionato, solidarietà e fiducia, ricorrono a poca distanza l’una dall’altra nel frammento di un discorso in cui si parla di calore umano, di conforto alla solitudine e alla sofferenza, cioè di un sentire e un agire senza dubbio legati alla misericordia. È soltanto una combinazione oppure è la testimonianza che anche per il nostro presidente della Repubblica le parole valgono?
Riferimenti bibliografici
Amnesty International Italia, Il barometro dell’odio, https://www.amnesty.it/barometro-odio/.
Cacciari, Massimo, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Torino, Einaudi 2019.
Cacciari, Massimo, Ma quale Patria? Si chiama Matria ed è la nostra lingua, in “la Repubblica”, 7 maggio 2019, p. 27.
Carofiglio, Gianrico, La manomissione delle parole, Rizzoli, Milano 2010.
De Mauro, Tullio, Le parole per ferire, in “Internazionale”, 27 settembre 2016, https://bit.ly/2QuAQK7.
Faloppa, Federico, Lessico e alterità. La formulazione del “diverso”, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2000.
Faloppa, Federico, Parole contro. La rappresentazione del “diverso” nell’italiano e nei dialetti, Garzanti, Milano 2004.
Faloppa, Federico, Razzisti a parole (per tacer dei fatti), Laterza, Roma-Bari 2011.
Messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Palazzo del Quirinale, Roma 31 dicembre 2018, consultabile in rete all’indirizzo: https://www.quirinale.it/elementi/19822
Rodotà, Stefano, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014.
Rondinelli, Paolo e Vinciguerra, Antonio, «Le parole son femmine e i fatti son maschi». Storia e vicissitudini di un proverbio, in “Studi di lessicografia italiana”, 33, 2016, pp. 21-37.
Scego, Igiaba, Dismatria, in Pecore nere. Racconti, a cura di Flavia Capitani ed Emanuele Coen, Laterza, Roma-Bari 2005.
Tasso, Torquato, Lettere, a cura di Cesare Guasti, presso Niccolò Capurro, Firenze 1854, vol. II, p. 379.
Zagrebelsky, Gustavo, Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi, Torino 2012.
Zoja, Luigi, La morte del prossimo, Einaudi, Torino 2009.

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LE PAROLE VALGONO PER ACCERTARE LA VERITÀ: IL PLACITO DI CAPUA

di Giuseppe Patota
Nei tempi remoti a cui si fanno risalire le origini della nostra lingua, diciassette parole ripetute per quattro volte valsero al punto di consentire a un giudice di accertare una verità e di emettere, per conseguenza, una sentenza nota come il Placito di Capua. Si tratta di un documento che, per gli studiosi di storia dell’italiano, rappresenta o l’atto di nascita o una delle attestazioni più antiche della nostra lingua. Le diciassette parole in questione sono abbastanza note:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
Meno noto è il contesto in cui vennero pronunciate e trascritte per quattro volte nel verbale del processo «senza nessuna variazione di forma», come precisa il grande giurista e storico della lingua italiana Piero Fiorelli nelle pagine che aprono Intorno alle parole del diritto, una sua raccolta di studi sull’italiano del diritto e dell’amministrazione. E meno noti sono il loro esatto significato e le ragioni che ci consentono di dire che valsero ad accertare una verità. Proveremo a dar conto di questi aspetti servendoci, oltre che del lavoro di Fiorelli, anche della ricostruzione storicolinguistica che ne ha offerto il suo illustre amico Arrigo Castellani in un libro intitolato I più antichi testi italiani.
Nel marzo del 960 d.C. si presentarono dinanzi ad Arechisi, giudice di Capua, Aligerno, l’abate di Montecassino accompagnato dall’avvocato del suo monastero, e un certo Rodelgrimo, originario del vicino centro di Aquino, che consegnò al giudice un promemoria in cui c’era scritto che alcune terre gestite dall’abbazia sarebbero state, in realtà, una sua eredità, e dunque abusivamente occupate dal monastero. Aligerno e il suo avvocato sostennero il contrario, rivendicando all’abbazia il possesso esercitato su quei terreni da oltre trent’anni. Arechisi, letto il promemoria e ascoltati i contendenti, fissò una nuova data per l’udienza, invitando Aligerno a presentarsi con tre testimoni che, tenendo in mano il promemoria di Rodelgrimo, pronunciassero sotto giuramento una frase stabilita dal giudice stesso: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti». Ovvero: «So che quelle terre, entro quei confini di cui si parla qui [nel promemoria], per trent’anni le possedette la parte [cioè l’abbazia] di San Benedetto».
Così fu. Nel giorno fissato Aligerno si presentò in tribunale con tre testimoni (tre religiosi del monastero) i quali pronunciarono la formula e poi giurarono sui Vangeli d’aver detto la verità.
Nessuna di quelle parole era stata scelta dal giudice e pronunciata dai testimoni a caso.
Sao, equivalente al nostro so, in questa dichiarazione significa “so per conoscenza certa (e lo posso giurare e lo giurerò)”. «Perché qui non si tratta» scrive Fiorelli, «d’offrire al giudice informazioni di vario peso e di varia sicurezza, che a lui spetti di valutare; ma si tratta di dargli la risoluzione stessa del caso controverso.»
Kelle terre sono i terreni identificati mediante i loro confini, i quali sono esattamente indicati ki, cioè nella memoria che ne contiene la descrizione: a scanso di equivoci, «ciascuno dei testimoni la tiene in una mano e la tocca coll’altra nel pronunziare le parole della formula». La parte Sancti Benedicti è il monastero dell’Ordine di San Benedetto sito sulla sommità di Montecassino, che qui è qualificato come parte nel duplice significato di “ente morale”, come diremmo oggi, e di “parte in causa”. E questa parte possette le terre in questione; le possette, ben...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Le parole valgono
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitolo 13