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"Abbiamo voluto raccogliere alcuni interventi pubblicati sui settimanali di Treccani per dare tracce della imprescindibile figura storico-letteraria di Leonardo Sciascia. A questi testi si lega un articolo, mai uscito in raccolta, in cui l'autore di Racalmuto piange la morte di George Orwell." Dall'eco di Matteo Marchesini di Sciascia

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Informazioni

PORTE APERTE

LA MOSTRUOSITÀ DEL POTERE. LEONARDO SCIASCIA E FRANCESCO ROSI

di Lavinia Spalanca

In questo incerto e travagliato 2021, assieme alla ricorrenza della nascita di Leonardo Sciascia, ritorna un altro importante e profetico anniversario: la pubblicazione del romanzo Il contesto, anticipato sulla rivista “Questioni di letteratura” nel numero di gennaio-febbraio 1971, e edito da Einaudi nello stesso anno. Libro fra i più controversi di Sciascia, Il contesto segna sicuramente un punto di svolta nella sua produzione, inverandosi nella parodia del giallo tradizionale, nell’introduzione – per dirla con lo stesso autore – del «dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco»1. Estremamente preziosa, a illuminare la stesura del romanzo, è una lettera al regista Elio Petri – già autore del rifacimento filmico di A ciascuno il suo – risalente al 9 agosto del 1967. Rivolgendosi al più visionario fra i suoi interpreti cinematografici (si pensi al successivo adattamento di Todo modo), Sciascia consegna a Petri il nucleo ideativo del Contesto, di cui l’inedita missiva – una lettera dattiloscritta su due facciate – rappresenta a tutti gli effetti il soggetto. Il testo presenta la dettagliata sinossi del romanzo, con l’indicazione dei personaggi, dei luoghi e dei temi trattati – significativi, in particolare, i rimandi alla cornice antropogeografica («un paese che somiglia all’Italia uscito da pochi anni da una dittatura di destra, dominato da forme di mafia»), alla rete di complicità fra giudici e poteri costituiti («collusioni con la dittatura che se ne è andata e col regime che è al potere, con la delinquenza organizzata»), al motivo ricorrente dell’«“errore giudiziario”» e del «giudicare gli altri» – ma contiene altresì numerosi spunti rilevanti, come la complicità dell’investigatore nell’omicidio del più «pericoloso» fra i giudici.
Il progetto, com’è noto, non ebbe seguito, ma a raccogliere la temeraria sfida lanciata dallo scrittore è stato il regista Francesco Rosi, autore di un’inchiesta filmica destinata a suscitare, come già il romanzo, violente polemiche. E, oltre a ciò, l’incredibile accusa di «vilipendio» delle istituzioni, così commentata da Sciascia:
Il film di Rosi di verità sulle istituzioni ne dice molte. Direi che è un mosaico di verità tratte dalla cronaca di questi ultimi anni. Di verità su quel groviglio di non verità che è diventata l’Italia […] Si può fare un lungo elenco delle menzogne che le istituzioni hanno prodigato agli italiani, facendo vilipendio a se stesse fino a svuotarsi. E saremo accusati di vilipendio, considerando che il film di Rosi non ha fatto di più, e forse anche di meno2?
Come rivela lo stesso regista in una delle sue ultime interviste, la coraggiosa rilettura cinematografica del Contesto coniugava la fedeltà al romanzo – si veda il «lavoro minuzioso di recupero delle battute di dialogo» – con l’inevitabile deviazione in termini di concretezza: «l’allegoria, la metafora, l’apologo», afferma il regista, «sono categorie letterarie e il cinema è una cosa fisica, concreta»3.
Adattare significa dunque esplicitare, rendere visibile l’allusività simbolica del romanzo, ma adattare comporta altresì un processo di appropriazione e, nel caso di Cadaveri eccellenti, di estremizzazione del romanzo. In che modo ciò si realizza? Ad esempio con un certo tipo di ripresa: sebbene i luoghi del film siano estremamente riconoscibili, a imporsi è una «lettura barocca degli elementi architettonici e degli elementi ambientali», sono sempre parole del regista, «attraverso l’uso di certi obiettivi – i grandangolari che allontanano le distanze, che amplificano gli ambienti»; e ciò «per dare la sensazione di una dimensione non proprio realistica ma un po’ metafisica, un po’ surreale, nella quale però io inserivo i miei personaggi che erano estremamente realistici»4.
Cadaveri eccellenti si pone dunque alla confluenza fra realismo documentaristico e astrazione metafisica, in una radicalizzazione del testo di partenza: dalla parodia si trascorre al dramma, dal “rimosso” barocco al ritorno del rimosso. Emblematica di ciò è l’iconografia della morte o, meglio, la dialettica visuale fra i vivi e i morti. Una dimensione binaria affidata non a caso ad una particolare bicromia – il rosso e il nero – dall’evidente portata simbolica. Indicativa è proprio la sequenza iniziale del film, dai titoli di testa alla carrellata di mummie della cripta dei Cappuccini: in linea con la rappresentazione allegorica della mostruosità del potere, è la specularità fra il volto rugoso di Charles Vanel nelle parti del giudice Varga – su cui la camera stringe implacabilmente – e i volti imbalsamati dei cardinali, anch’essi trasfigurati dalla macchina da presa, le cui bocche spalancate gridano un terrore atavico, degno dell’urlo di Munch. Al nero della dimensione luttuosa si accompagna il rosso delle vesti cardinalizie. E la suddetta bicromia cromatica ritorna inoltre in scene del film, come quelle incentrate sulla rappresentazione del potere giudiziario: le toghe rosse, appena ornate dal bianco dell’ermellino – che sembrano fuoriuscire da un dipinto di Vélazquez – spiccano sugli scranni di legno scuro, nella requisitoria del Presidente della Corte Suprema, così come una moquette rosso porpora – nell’austero studio di Riches – spicca sul nero luttuoso degli arredi. Ma il rosso e il nero, come spiegherà lo stesso regista, sono destinati ad assumere – nella realtà della cronaca così come nella finzione cinematografica – un inquietante significato ideologico:
Quando Sciascia scrisse il libro e persino quando io feci il film, il terrorismo in Italia era “nero”, non si era ancora qualificato anche “rosso”, o meglio non aveva ancora preso l’identità precisa di “partito armato” che doveva assumere a poco a poco, in seguito, attraverso i delitti consumati e rivendicati contro magistrati, giornalisti, dirigenti d’impresa, operai, agenti dell’ordine, uomini politici, fino all’episodio più clamoroso di tutti, l’affaire Moro5.
Com’è stato notato dalla critica, il livello figurativo del film si fonda appunto su una struttura binaria, in un intrecciarsi di realismo e simbolismo. Quando prevale il piano cronachistico, il linguaggio è quello freddo dei fotoflash e delle immagini di repertorio, che simulano il genere del film-inchiesta; quando prevale il piano metaforico, lo stile assume tratti espressionistici e deformanti. Interessante, in tal senso, l’iconografia dello spazio. Da una parte è l’efflorescenza barocca delle scene sovraffollate, come il funerale del giudice Varga ambientato da Rosi nella chiesa napoletana di San Domenico maggiore, tra i suoni della banda e le grida degli anarchici; dall’altra è la freddezza modernista degli sfondi in cui si staglia la figura dell’investigatore Rogas, la cui solitudine ed estraneità al mondo esterno – sempre più oscuro e indecifrabile – è amplificata dall’uso dei campi lunghi, dei carrelli e dei grandangolari. Una cornice metafisica, dechirichiana quasi, specchio della voragine di senso in cui, inesorabilmente, è precipitato il protagonista.
Fedele e allo stesso tempo innovativo rispetto al romanzo, l’adattamento di Rosi comporta dunque un inevitabile processo di appropriazione, specie nelle sequenze dedicate all’iconografia del potere. Scena clou del film – diversamente dal Contesto in cui è secondaria al colloquio fra Riches e Rogas – è la festa in casa dell’armatore Pattos, in cui membri del governo e finti rivoluzionari recitano sul medesimo palcoscenico. Non è un caso che il narratore del romanzo descriva così l’ingress...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. ECO, di Matteo Marchesini
  5. ANNIVERSARI E FANTASMI
  6. PORTE APERTE
  7. «L’ITALIANO NON È L’ITALIANO»