L'ultimo imperatore d'Occidente
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L'ultimo imperatore d'Occidente

Carlo d'Asburgo, il "santo patrono dei perdenti"

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L'ultimo imperatore d'Occidente

Carlo d'Asburgo, il "santo patrono dei perdenti"

Informazioni su questo libro

Carlo, l'ultimo imperatore degli Asburgo, ha fallito in tutti i tentativi in cui ha impegnato le sue forze: - non è riuscito a vincere la Grande guerra… - … e nemmeno a fare la pace (per cui più di tutti ha provato ogni possibile via); - non è riuscito a riformare l'impero e non è riuscito a evitarne il dissolvimento; - non è riuscito a mantenere la corona, non è riuscito a riprendersela nei due tentativi rocamboleschi compiuti per tornare sul trono; - non è riuscito nemmeno a salvare le sue sostanze, le sue proprietà e i suoi beni (morirà in sostanziale povertà); - non è riuscito a essere padre dei suoi otto figli, morendo addirittura prima di vedere l'ultima concepita; - non gli è riuscito, come tanto desiderava, di vivere a lungo al fianco dell'amata moglie… … eppure un papa santo, nel 2003, lo ha proclamato Beato, mentre in quei giorni Le Monde lo citava come "il santo patrono dei perdenti". Penetrandone la personalità e l'animo si scopre, sorprendentemente, un uomo capace di affrontare le vicissitudini con un'impossibile sorriso, eco di una pace che ogni donna e uomo non smettono di cercare.

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Informazioni

A Francesco e Giovanni

UNA NOTA PERSONALE

Nella primavera del 2018 ho parlato per l’ultima volta con mio padre.
Ero per qualche giorno a Beirut e lui già in ospedale, ricoverato un po’ a forza da mia sorella, che aveva dovuto vincere le sue resistenze ostinate. Al mio rientro in Italia la situazione era già seria e quando mi sono trovato accanto al suo letto di terapia intensiva era sedato e prono, con miriadi di macchinari che balbettavano suoni incomprensibili.
È iniziata una lunga serie di settimane in cui per almeno tre giorni scappavo da Milano e tornavo su, nelle mie terre del Sud Tirolo, per potermi sedere di fianco a lui.
In quella terapia intensiva, attrezzata in una grande sala con una dozzina di letti e di pazienti, tutti più o meno nello stesso stato di “assenza” vigilata, i protocolli e gli orari erano giustamente rigidi e prevedevano al massimo la visita di uno o due familiari per volta.
Non dimenticherò mai quei giorni. Ero lì, dalle quattordici alle diciannove.
Ho visto molte donne e uomini entrare nello stesso stato in cui era papà e ho visto diversi figli come me, o mogli o mariti, mettersi lì a fianco del proprio caro, proprio come me. Li ho visti piangere, singhiozzare, ho visto la rassegnazione e il dolore. Ma dopo un giorno o al massimo due, smettevano di venire al cospetto della sofferenza muta e della propria impotenza: non gliene faccio nessuna colpa e ci mancherebbe. Quello che mi stupiva non erano loro, li capivo perfettamente, nessuno può o vuole o riesce a stare a lungo di fronte a un grido così lacerante: quello che mi spiazzava era che io, invece, non riuscivo a staccarmi da lì. Io che tante volte sono scappato davanti alla paura e alle contraddizioni, lì non riuscivo ad allontanarmi. Senza nessun merito.
Cosa facevo in quelle lunghissime ore che non sono mai state lunghissime? Gli parlavo, lo carezzavo, gli aggiustavo i capelli, fissavo per attimi eterni i macchinari che prolungavano i dati e la respirazione, piangevo, scrutavo i messaggi delle decine e decine di amici che non mi hanno mai lasciato solo, gli leggevo i resoconti del Giro d’Italia (a lui, che dello sport non è mai fregato niente), uscivo ogni due ore a fumare e bere un miscuglio di acqua e frutta, rientravo e lo guardavo. Ore e ore e ancora ore a fissarlo, a stare lì con lui. Non c’erano tanti pensieri: io sono preda da sempre di saette che turbinano come fulmini rimbalzando da una parte all’altra senza sosta, portandomi dove vogliono. Ma lì no. C’era mio padre sdraiato inerme e io di fianco, un’ordinaria vicenda di dolore a cui, non so perché, non potevo sottrarmi.
Mi sono chiesto perché quella sofferenza, vissuta peraltro con una lievità che è impossibile imporsi, mi abbia catturato, preso e tenuto con sé per tutto quel tempo. Perché gli altri (giustamente) se ne andavano dopo un po’ e io invece rimanevo lì incollato? Non so rispondere nemmeno adesso, nemmeno dopo anni. So, perché l’ho vissuta e nessuno può permettersi di dubitarne, che la sofferenza è una traiettoria – per chi crede che quello che ci succede sia una trama di cenni precisi a cui siamo convocati – con cui il Destino ci chiama; so che sostare al fianco di chi soffre può essere un impareggiabile privilegio. La formidabile densità con cui ho vissuto quelle lunghe settimane resta impressa nella sua unicità: una straordinaria amplificazione di sentimenti (spesso contrastanti: non c’era nessuna contraddizione nel passare dal piangere al ridere), una percezione di me nitida, una semplificazione essenziale e vitale di ogni questione, e soprattutto, dentro ad ogni cosa, un’insospettabile quiete dell’animo, animata da non pochi istanti di gioia intensissima (mai separata dalla sofferenza di veder soffrire chi ami), in netto contrasto con l’agitazione inquieta che, da sempre, caratterizza il mio vissuto.
Può essere disturbante parlare di un valore del dolore nel contesto attuale, a volte così opprimente, che lo ha emarginato espellendolo dal carrello della vita come un rifiuto tossico, ma posso semplicemente riportare quello che è successo a me: non sono farneticazioni o illusorie formule consolatorie, ma, molto più poveramente, le conseguenze di un approdo esistenziale vissuto come un ordinato rispondere a ogni istanza che la vita propone. Rispondere sempre e a tutto, semplicemente, senza artificiosità e rischiando in qualche maniera tutto, scrollandosi di dosso il sospetto, il ricatto, del riconoscimento, lasciando che l’imponenza delle cose diventi – in termini esistenziali – la signoria, il dominio dei fatti sui pensieri.
Erano lontani, durante la lunga agonia di mio padre, i tempi della pandemia, del dolore e della morte gridati a squarciagola. Morte e sofferenza si sono riaffacciati prepotenti e una paura strisciante ha preso progressivo spazio nelle nostre case: nell’immobile impotenza l’estrema contraddizione genera sgomento. In qualche modo, stando di fianco a mio padre che moriva lentamente, ho vissuto un’intimità con la sofferenza accettandone la possibile, per quanto immediatamente incomprensibile, cifra di significato. Perché è nel momento in cui la realtà inizia a svelarsi come deludente che inizia la sfida essenziale. All’inizio le cose e gli affetti promettono bene, ma poi si introduce la contraddizione e gli astri non si allineano più nell’ordine immaginato, atteso o sperato e ha inizio la grande questione vitale.
È la contraddittorietà di alcune condizioni a rendere insopportabile la vita e a riempirmi di graffi. Allora il dolore si affaccia come anticamera della morte.
Sono contraddizioni che emotivamente deprimono il mio procedere e lo rallentano e che, per quanto diverse siano, hanno in comune il dolore più o meno soffocante da cui vengo travolto: il tradimento o l’ingiustizia patita, subita e reiterata che ci fanno salire il sangue alla testa (sono insopportabili); il mancato riconoscimento (sempre atteso) in ogni azione che faccio; la perdita di un amico amato che all’inizio della vita adulta, appena sposato e con un bambino piccolo, muore di cancro; le sconfitte professionali, la lunga (ma splendente) malattia e l’addio alla mamma; le defezioni, i torti e gli inganni subiti da chi speravi fosse amico. E poi le mille e perseveranti contraddizioni meno eclatanti, ma non per questo meno incidenti, che, disseminate lungo il procedere della vita, mi fanno inciampare e sussultare, non sono che il mostrarsi di un volto deludente delle cose verso cui, peraltro ostinatamente e soprattutto paradossalmente, non riesco del tutto ad abdicare, pur graffiandomi con dei tagli che restano.
Le difese alle intemperie della sventura che ho provato ad armare sono poco più che ridicole: ostinazione caparbia nel resistere e non mollare la presa (che presto o tardi, in qualche modo imprevisto, viene piegata) o più spesso fuga, dispersione, distrazione, sospensione, anestesia.
Di sicuro le lacerazioni prodotte delle prove della vita non si possono evitare. A porzioni differenti – questo sì che è misterioso – sono distribuite a tutti. Non in parti uguali: ad alcuni con un accanimento che ci sembra davvero eccessivo. Comunque, nessuno può sfuggirle e presto o tardi, sempre ci inghiottono. La medicina del rozzo senso comune è di lasciarle passare, cauterizzarle col tempo. E un po’ è vero che anche l’ingiustizia più sanguinosa, dopo un tempo più o meno lungo, comunque passa, (si arretra un po’, si barcolla, ci si mette un po’ di più a riprendere il respiro normale, ma dopo sì, passa) e si riprende a fare altro, a pensare ad altro, a occuparsi di altro: ci sono sempre nuove cose da fare, nuovi pensieri a cui aggrapparsi per tenersi in vita.
Ma questa apparente scorciatoia per rompere l’accerchiamento è sconfitta, perché per quanto guardingo e difendendomi dai colpi che possono arrivare, questi in ogni caso, arrivano.
La cultura del nostro tempo estromette questi graffi, rendendoli illegali, negandogli il diritto di esistenza, li abolisce inorridendo, ma risorgono in continuazione. Ho bisogno allora di considerare le cose in una maniera vecchia e davvero rivoluzionaria: e se tutti i fatti (tutti, nessuno escluso), anche quelli oscuri, quelli che mi impauriscono, anche il dolore, anche il tradimento, anche l’ingiustizia contenessero un approdo? Se tutto, proprio tutto, (niente può rigorosamente restare fuori) non fosse solo una sequenza di orrende voragini di vuoto disseminate nel correre spaventato verso il nulla?
I medioevali erano così certi che Dio agisca al presente, al mio, al tuo presente, erano così persuasi che non cada foglia che Dio non voglia (come ricorda mia moglie), che non c’era fatto in cui non alitasse il volere divino. Poi si azzannavano nell’interpretarli, spesso per una misura molto, molto meno trascendente, ma il punto di partenza era denso di fascino.
Un Dio che agisce al presente, che mette qui davanti ai miei occhi mio padre morente con me inerme e impossibilitato a fare qualsiasi cosa: e se vivere fosse accettare quest’avventura di ogni istante, senza mai nessuna interruzione? Se questa serie incalcolabile di eventi minuscoli e grandiosi non fosse altro che un mosaico sublime che Dio può costruire esclusivamente coinvolgendomi in continuazione, interpellandomi, appellandosi a me e, rendendomi protagonista del posizionamento di ogni minuscola tessera, attraendomi a sé, per rendermi parte della Sua Gioia?
Proprio perché il senso del mosaico non è il suo splendore finale (per quanto meravigliosa, non posso accontentarmi di una sfida il cui esito si mostra all’ultimo giorno, anzi, la trovo insopportabile: vivo al presente e ho un ineliminabile bisogno fisico di riscontri al presente, di risposte al presente), ma è il sapore pieno, il godimento estremo (pur attraversando difficoltà e anche sofferenza), che mi viene consegnato non dall’esito delle operazioni, ma dalla passione amorosa con cui ricambio quella dell’Amato.
Chi sta davanti a contraddizioni enormi con un’inspiegabile leggerezza, con un sorriso lieve, non ebete, ma figlio di una certezza solida, chi attraversa così il dolore è, credo, il più alto grido, la più alta dimostrazione della convenienza cristiana.
Quello che segue è un tentativo davvero piccolo di osservare un uomo che ha attraversato ingiustizie, tradimenti infamie e sofferenze sorridendo gentile, non come un’idiota, ma da uomo virile. Le pagine che seguono sono l’invito a considerare che è possibile affrontare le contraddizioni e approdare alla Gioia.
Non sono pagine da storico e per gli storici, ma molto più semplicemente la descrizione di alcuni lineamenti di Carlo d’Asburgo che mi hanno fatto innamorare di lui.
Sono certo che, in un mondo come il nostro, che valida e incoraggia un’idea di soggetto pienamente riuscito coincidente con le sue prestazioni di successo (accantonando spietatamente il fatto che la vera clamorosa evidenza è una strabordante depressione come il vero male oscuro dei nostri giorni), osservare e amare l’incedere di uomini che accolsero come ipotesi la sola rivoluzione finalmente attraente può davvero strappare dal nulla apparente e sospingere in una via luminosa.
Carlo d’Asburgo ha suscitato in me una potente ammirazione fin da quando l’ho scoperto, perché è attraente ed esistenzialmente convincente il modo con cui ha vissuto: non è un vincente secondo le formule moderne. Al contrario è (apparentemente) uno sconfitto, ma sorride di una Gioia finissima che è la sola necessità vitale.
Sono e siamo circondati di luminose presenze di questa natura, occorre, è vero, essere attenti per vederle, ma non sono rare, non sono negli almanacchi: scorrono nelle vie delle nostre città spesso umilmente e mai sui palcoscenici (i coni di luce cercano altri modelli). Hanno sguardi profondi e occhi limpidi, fischiettano e ridono spesso, ci attirano perché sopraffatti da quella Gioia necessaria che cerco in ogni attimo e in ogni azione cosciente o incosciente.
Se qualcuno amerà anche solo un millimetro di questa straordinaria vita di Carlo d’Asburgo, l’ultimo imperatore d’Occidente, ne sarà valsa la pena.

INTRODUZIONE

Carlo d’Asburgo è un uomo strano.
Proviene da una delle più altisonanti, prestigiose e longeve casate del mondo, è un arciduca, è inserito nella linea diretta di accesso al trono, (anche se alla sua nascita ci sono quattro granduchi che lo precedono), viene cresciuto ed educato come un membro di una stirpe regale, come è d’obbligo nell’altissima nobiltà europea di fine Ottocento, cresce nei palazzi principeschi, è di casa in residenze imperiali, gli sono dovuti gli onori che sono tributati ai più grandi della terra eppure a lui tutto questo pare non interessare.
Non che sia sprezzante, all’opposto: non gli dà peso. È sempre cordiale con tutti, sorride spesso, si interessa alle persone che incontra, la sua è una gentilezza non affettata. E per questo si fa amare.
Da quando poi è diventato l’erede al trono, quando tutti quelli che gli stavano davanti in linea di successione sono morti e per tutti lui è diventato il prossimo imperatore, la sua originalità in qualche modo è diventata pubblica.
Nascere in uno dei più grandi casati della storia non è cosa da poco, quando ti precedono secoli di dinastie, di re e imperatrici e imperatori e ti trovi in quella linea che decide che sarai tu il prossimo, che su di te cadranno le responsabilità di tanti popoli. Non dev’essere facile. Francesco Ferdinando aveva una speciale predilezione per Carlo, con cui si confidava e di cui si fidava. Si dice che avesse sentore delle trame contro di lui e che sapeva di essere presto ucciso. A Sarajevo non ci doveva andare: più d’uno aveva provato a dissuaderlo. E dopo quel 28 giugno 1914, Carlo è diventato il prossimo imperatore. Allora si sono moltiplicati gli ossequi: atti dovuti a chi reggerà le sorti dell’impero.
Al momento in cui gli ammazzano il nipote erede al trono e la nuora, il vecchio, vecchissimo imperatore Franz Josef è sfinito dai dolori e dalla fatica diligente. Ha passato la vita a governare con una dedizione instancabile: alla scrivania tutte le mattine per quasi sessantotto anni, durante i quali gli eventi gli hanno strappato la figlia primogenita Sofia, morta di polmonite, la moglie, in un attentato, il fratello minore, Massimiliano, giustiziato in Messico, il figlio Rodolfo suicida e, alla fine, l’erede Francesco Ferdinando. Forse non è stato il migliore degli imperatori possibili, ma è da così tanto tempo al suo posto, come un burocrate affidabile (ama definirsi il primo funzionario dello Stato), che i suoi popoli lo amano (o almeno lo rispettano): non riescono a pensarsi senza di lui.
Tutte le mattine, Francesco Giuseppe si alza presto e poco dopo l’alba si mette al suo scrittoio ad affrontare gli affari di stato: dal 1848 al 1916, ininterrottamente. In sessantasette anni di governo, il mondo è cambiato tante di quelle volte che è quasi impossibile credere a un così lungo regno. Sotto il suo scettro si sono alternati venti cancellieri o ministri presidenti dell’Impero, si sono avvicendati re e capi di Stato di tutto il mondo e lui li ha visti sfilare uno a uno.
Quando diventa imperatore, ha diciott’anni e l’Europa ha ancora i brividi pensando a Napoleone. I suoi confini sono quelli tracciati da Metternich al Congresso di Vienna. Dopo tutti quegli anni di governo, tutto quell’equilibrio instabile, ma meraviglioso, è saltato in aria e brucia nella Prima grande guerra mondiale.
Franz Josef è un soldato, ha combattuto in Italia nella Prima guerra di indipendenza del 1848 e poi ha dovuto affrontare (perdendole) quella del ’59 contro i Savoia, alleati a Napoleone III (lasciando lì l’amata Lombardia), e quella del ’66, contro il neonato Regno d’Italia, questa volta alleato con la Prussia. Qui c’è stata l’umiliazione di Sadowa (che lo ha costretto a cedere il Veneto e le terre tedesche) e adesso questa enorme conflagrazione mondiale.
Ha sempre indossato l’uniforme militare, la stessa con cui è stato sepolto: era un soldato, ma amava la pace, come tutti quelli che sono stati anche solo per un secondo su un campo di battaglia. È una legge: chi vede la morte che si abbatte in guerra, ama la pace.
Sembra che una volta abbia quasi aggredito il nipote e successore designato al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando: «Hai mai visto la guerra, tu? No! Ma io l’ho vista, e perciò ti dico che prima di avventurarcisi bisogna rifletterci ancora tanto a lungo, fino a trovare un mezzo per evitarla!». E infatti forse è l’obiettivo che maggiormente ha perseguito, spesso rimettendoci, salvaguardando un lunghissimo periodo di benessere crescente ai suoi tanti popoli. In molti parlano di un lento declino di un impero inadeguato allo sviluppo dei tempi e di un vegliardo che ne ha accompagnato l’agonia, ma forse le cose non sono esattamente così: quel miscuglio azzardato di popoli e differenze abissali che è l’impero asburgico è una realtà originale, capace di sfidare le logiche che la modernità nazionalista non ha mai amato: una strana e longeva energia che, cocciuta, va in senso contrario alle forze del mondo.
Occorre provare ad addentrarsi almeno un po’ nell’animo di quest’uomo segnato dai dolori e dalla fatica di ogni ora per provare a capire il volume e la densità di un’anomalia meravigliosa che ha segnato la storia.
Franz Josef ha vissuto il suo ruolo semplicemente come un compito, senz’altro ingrato, ma ineludibile, con cui fare i conti. E questa disposizione d’animo la vive il cristiano che molto semplicemente accoglie i fatti come il dispiegarsi della Provvidenza, cioè il modo con cui l’eterno si prende cura degli uomini, affidando a ciascuno un compito preciso da svolgere.
Formule...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Una nota personale
  8. Introduzione