
- 152 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
È passato un secolo dalla sua morte e London continua a vivere con noi proprio in virtù dell'energia che seppe imprimere al suo percorso letterario.
Questo libro, una scelta di riflessioni, articoli e interventi su autori da lui amati e letti, contiene scritti in gran parte tradottiper la prima volta in italiano e ricostruisce il background intellettuale di London nei primi anni della costruzione del suo successo, esprimendo compiutamente quello che egli chiedeva alla letteratura: la forza di risospingerlo incessantemente verso la vita.
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Informazioni
Una vita “più vera”.
Jack London lettore
di Cristiano Spila1
Il titolo del presente volume, La forza della letteratura, non è originale di London, anche se ne richiama lo stile; è un titolo redazionale che, però, ci sembra esprima compiutamente quello che Jack London chiede alla letteratura: la forza di risospingerlo sempre verso la vita e di risvegliarlo nella sua energia e nel suo coraggio. D’altro canto, il titolo riflette anche l’obiettivo che London si prefigge nei suoi racconti – quello cioè di rispecchiare “la vita”, questa misteriosa entità per definire la quale egli è obbligato sempre a partire dalla pagina scritta. In realtà, la vita raccontata da London è in parte la “sua” e, in parte, un risultato d’arte, ossia un artificio che nasce dalla letteratura e appartiene ad essa.
Uno dei testi qui raccolti che meglio esprime questa idea di una “vita” ricostruita a partire dalla letteratura è una missiva che London indirizza al suo primo editore, Houghton Mifflin, in data 31 gennaio 1900. In questa entusiastica lettera, che contiene le informazioni biografiche da usare per la quarta di copertina del libro Il figlio del lupo di imminente uscita, Jack London indulge non poco nella creazione del suo mito.2
Come ogni vero scrittore che si rispetti, anche London è un “fingitore” (uno cioè che pensa la realtà con gli stilemi e le finalità della fiction). Anzitutto, egli ritrae il John London della Pennsylvania come suo padre e, al tempo stesso, lo definisce come un avventuriero, esploratore, cacciatore e vagabondo, quasi una proiezione letteraria di se stesso. Ora, qualsiasi serio biografo londoniano non può che concordare sul fatto che John fu un patrigno dal buon cuore che si impegnò a dare a Jack, oltre il suo affetto, anche il cognome; ma che, in verità, lo stesso Jack (John Griffith) London nacque da una relazione extraconiugale. Fu solo otto mesi dopo la nascita del piccolo Jack che sua madre, Flora Wellman, originaria dell’Ohio, sposò John London il 12 gennaio 1876 a Oakland. Si sa, invece, che il vero padre dello scrittore era William Henry Chaney, una strana figura di predicatore e astrologo ambulante del Maine.
Non solo, ma London mente anche su altri avvenimenti. “Non mi sono sposato – il mondo è troppo grande e il suo richiamo è troppo insistente”, scrive al suo editore; eppure nove settimane dopo, il 7 aprile, si sposa con Bessie Madden. Infine, enfatizza non poco le peripezie del suo viaggio per mare con il Sophia Sutherland, mentre tra il 1907 e il 1909 avrebbe sopportato condizioni più ardue e disperate nella sua crociera nei mari del Sud con lo Snark. Sicché, c’è molta mitografia e finzione in questa enfatica ma bella lettera sulla giovinezza turbinosa appena trascorsa di un eroe autodidatta. Più tardi, le sue idee sul racconto saranno ribadite con forza:
Mi sento di dire che il Fatto, per essere vero, deve imitare il Racconto. L’immaginazione creativa è più vera della voce stessa della vita. Gli eventi attuali sono meno veri dei concetti logici e delle fantasticherie. E chi scrive racconti farebbe bene a lasciare da parte i fatti.3
Su un punto, però, London non mente: il suo grande, prepotente amore per la vita e per la letteratura. Sempre in questa lettera, infatti, egli ricorda che imparò a leggere e a scrivere attorno ai cinque anni da autodidatta. E ricorda anche le prime letture dell’infanzia; si tratta di libri di viaggi e novelle d’avventura, fino ad arrivare a letture più strutturate, come Twain e Washington Irving. Una cosa è certa: London non ebbe mai precettori o maestri. Ma anche su questo dobbiamo fare affidamento a ciò che lui stesso racconta. Insomma, come scrittore London ci offre degli spunti sulla sua prima formazione e, intanto, fornisce un identikit sulla sua condizione di autodidatta e self-made-man: “No mentor but myself”, annota icasticamente nella lettera. Espressione che vale un’intera poetica.
Il Novecento americano, dunque, si apre nel segno di Jack London. Alla vigilia del suo primo grande trionfo – la pubblicazione sull’“Atlantic Monthly” del racconto Un’odissea del Nord (gennaio 1900) e l’uscita per i tipi di Mifflin del suo primo libro, Il figlio del lupo (aprile 1900) –, egli ha al suo attivo un lungo tirocinio giornalistico e una lunga “gavetta” di lettore e scrittore. Lo racconta in un pezzo magistrale, Farsi pubblicare (1903), qui tradotto; ma poi, in una maniera più epica e distesa, nel suo capolavoro Martin Eden (1909).
Sulla questione degli inizi e della sua gavetta, London tornerà più volte e in varie parti della sua opera. “Avere un nome è una cosa molto importante per uno scrittore”, dirà in modo corrivo ma concreto agli editori in occasione delle opportune contrattazioni. In un suo articolo, intitolato appunto La questione del nome (1900), egli spende varie pagine su questa problematica che affligge soprattutto gli scrittori sconosciuti, come era stato lui. I metodi per farsi conoscere sono sostanzialmente due, chiosa lo stesso London: “scrivere un libro di successo” o “fare un ottimo lavoro sulle riviste”.4 Comincia, così, il duro lavoro di London nel mondo dell’editoria e del giornalismo, un lavoro massacrante che, non ultima delle cause, avrà ripercussioni sul suo fisico e la sua psiche, e lo porterà a una prematura fine. Il lavoro, anzitutto: come fonte di guadagno ma soprattutto “come filosofia di vita”, scrive in un articolo del 1899.
London cominciò a pubblicare su piccoli periodici letterari, rotocalchi e poi su altre riviste specializzate e quotidiani come l’“Overland Monthly”, l’“Atlantic Monthly”, il “San Francisco Examiner”, su cui pubblicherà il suo reportage sulla guerra russo-giapponese;5 e ancora “McClure’s magazine”, “The Woman’s Home Companion”, “The Smart Set”, “Harper’s Bazar”, “The Youth’s Companion”, “Outing”, “Cosmopolitan”, “The Indipendent”, “Vogue”. Una carriera di scrittore e di giornalista che lo avrebbe portato, negli anni, a produrre un immane corpus di testi: centinaia di articoli e un discreto numero di saggi, duecento racconti e una ventina di romanzi per importanti editori. Il suo dichiarato obiettivo negli anni della miseria, quello di riuscire a scrivere “mille parole al giorno”, diventò il punto di forza del suo successo letterario e del suo gagliardo dinamismo intellettuale.
Il mestiere di giornalista, per come lo intendeva lui, prevedeva reportage, fotografie, recensioni e interventi di vario tipo, sotto forma di consigli all’aspirante scrittore o brevi saggi a tema letterario.6
I primi sforzi di London come scrittore sono raccontati nell’autobiografico Martin Eden (1909), ma anche in John Barleycorn (1913). “Martin Eden ero io”, scrisse in più di un’occasione; e infatti nel libro London riversa tutte le sofferte esperienze fatte per affermarsi come autore. Il penoso contrattempo dei cinque dollari per un racconto di quattromila parole ha un fondamento di verità: l’“Overland Monthly” gli promise quella somma per L’uomo sulla pista, che fu pubblicato nel gennaio del 1899; ma per avere quella somma London dovette irrompere come “un orso” negli uffici dell’“Overland” e, quasi letteralmente, frugare nelle tasche degli editori.7 Questi, però, evidentemente non tennero conto dell’incidente col giovane scrittore, tanto che aumentarono la somma a sette dollari e cinquanta per Il silenzio bianco, che uscì il mese seguente. Ma il decisivo salvataggio della sua iniziale carriera furono quei provvidenziali quaranta dollari che la rivista “The Black Cat” versò a London per Le mille e una morte, racconto tanto amato da Borges. La storia di questo provvidenziale “salvataggio” London l’ha narrata nel suo articolo Farsi pubblicare ma anche nell’introduzione al volume Red Hot Dollar (riportata in questa sede), che egli scrisse, una volta divenuto celebre, come una sorta di risarcimento e di gratitudine verso il direttore della rivista di allora, Herman Daniel Umbstaetter.
Le “regole” del mercato per gli scrittori esordienti erano, ai suoi tempi, né più né meno che quelle di oggi: vessazioni da parte degli editori, ansie rovinose, insulse lettere di rifiuto, tagli arbitrari ai manoscritti, gravosi ritardi nei pagamenti, scarsi emolumenti. Prima che egli stesso si rendesse veramente conto del mero business dell’editoria e del vero interesse degli editori di riviste e libri, che pubblicavano solo per soldi misurando la letteratura in termini di merce, stavano per essere pubblicati il suo terzo libro di racconti, I figli del gelo e il suo primo romanzo, La figlia delle nevi.
Durante il periodo della pubblicazione delle sue prime fondamentali opere, insomma, il suo nome cominciava a divenire celebre. Essersi fatto un nome significò per lui essere riconosciuto come autore, essersi costruito una solida posizione professionale, aver acquistato una certa importanza sociale e una certa libertà di manovra sul mercato editoriale ma, soprattutto, avere a disposizione del denaro da spendere e da investire in qualche progetto; in una parola: “la vita”. Senza sembrare mai un letterato dedito al denaro, l’interesse di London per i “contanti” e le “buone somme” (“Cash? Yes: cash!”), in verità hanno sempre mascherato i suoi seri sforzi letterari e il suo idealismo di fondo che gli faceva odiare di scrivere solamente per denaro. Assieme a questo Jack London, autore di successo richiesto e ben pagato, c’è un Jack London più idealista, autodidatta, meditativo che stabilisce con il primo una sorta di complementare ambiguità.
Quando uscì Martin Eden, London lamentò che la critica non lo aveva capito: i recensori lo tacciavano di individualismo, mentre il romanzo voleva essere un’accusa alla filosofia del superuomo di marca nietzscheana.8 In una lettera del 5 novembre 1915, alla scrittrice americana Mary Austin, London dichiara:
Ho scritto e riscritto libri che non hanno avuto successo. Molti anni fa, all’inizio della mia carriera di scrittore, nel mio libro Il lupo dei mari attaccai Nietzsche e la sua idea del superuomo. Molti lo hanno letto ma nessuno è riuscito a capire che era un attacco alla filosofia nietzscheana del superuomo. Più tardi, senza dire delle mie fatiche secondarie, scrissi un altro romanzo che era ancora una volta un attacco all’idea superomistica, cioè Martin Eden. Ma nessuno lo ha capito. Un’altra volta, affermai che questo tipo di attacco proveniva dall’opera di Kipling e intitolai il mio scritto La forza dei forti. Anche in questo caso, nessuno ebbe la benché minima idea del mio punto di vista.
Ti racconto questo non solo per dimostrarti che, effettivamente, il mondo è pieno di gente stupida ma anche che io non mi preoccupo affatto del fallimento di alcuni miei libri.
Voglio dirti di non preoccuparti: lascia che le grandi fatiche del tuo cuore e della tua testa falliscano. Le grandi fatiche del mio cuore e della mia testa hanno fallito, poiché hanno fallito praticamente con tutto il mondo dei lettori e di ciò non mi preoccupo. Vado avanti felice di essere ammirato per la mia sanguigna brutalità e per le altre centinaia di piccole cose sgradevoli che, nella mia opera, non sono affatto vere.
Il nucleo importante di questa lettera non è ispirato al passato, ma a una complessa ricostruzione della propria poetica, a un bilancio della sua scrittura. Il tema del “fallimento” è un ingrediente necessario nell’opera londoniana: non è tanto uno spettro da cui rifuggire, ma la vera dimensione dell’uomo.9
In queste righe di disillusione, opera di uno scrittore che tutti riconoscono come energico, violento, macho, si direbbe che il grande assente sia proprio il superuomo. Eppure, le parole che London rivolge alla Austin assumono un significato polemico verso chi ha visto nei suoi racconti solo la dimensione superomistica, con la “s” maiuscola che tiene conto solo delle figure belluine e della lotta per la vita e non, invece, della sostanza di cui sono fatte le esistenze umane. È, in buona parte, la polemica autodistruttiva che i personaggi di...
Indice dei contenuti
- Collana
- Frontespizio
- Colophon
- Una vita “più vera”. Jack London lettore
- Note biografiche
- Bibliografia
- La forza della letteratura
- La filosofia di vita dello scrittore
- Farsi pubblicare
- Il tragico e l’orribile nella narrativa
- Il lungo giorno
- La giungla
- Più strano della finzione
- Un classico del mare
- Il rovente dollaro rosso
- Lettera a Mifflin
- Lamento per la giustizia
- Replica a un’accusa di plagio
- La piovra
- Lettera ad Anna Strunsky
- Otto elementi per il successo letterario
- Indice
- Nova Delphi e-book