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Le foibe giuliane
Informazioni su questo libro
Gli interrogativi posti da Elio Apih e le riflessioni che essi suscitano nel percorso di questo libro, muovono da un quesito fondamentale: "Come e da dove viene l''infoibamento' nella Venezia Giulia?" È bene precisare che l'Autore tratta sia delle foibe del 1943 in Istria, sia delle foibe del 1945, che riguardarono anche Gorizia, Pola e Fiume, ma soprattutto, per efferatezza, Trieste. Ciò detto, è significativo che il primo capitolo si apra su uno scenario di vuoto metafisico: l'abisso (abissus abissum invocat) in cui si agitano elementi da primordio evocati tramite suggestioni letterarie, si ridesta un universo premoderno di credenze misteriche e magiche che aveva profondamente colorato i tes - suti dell'immaginazione di tante generazioni di istriani; la percezione diffusa è quella del male connesso alla foiba. Ma sul piano storico l'"infoibamento" come eccidio trova collocazione nel quadro della Seconda guerra mondiale; taluni episodi (il massacro di Katyn, le Fosse Ardeatine, le stragi in Spagna descritte da Hemingway) possono far pensare ad un'analogia fra le modalità "rituali" dell'eccidio. Tuttavia il quadro delle foibe giuliane pone la questione di un uso barbarico che sembra appartenere all'Europa centroorientale, e ci si domanda se esista un'inquietante presenza di "esperti" istruiti dai protagonisti dei fatti di Katyn. Si tratta, ad ogni modo, di un accadimento storico complesso, che rompe un plurisecolare assetto sociale da un lato, e dall'altro, nella lotta di liberazione, assume, dal punto di vista sloveno o croato, carattere di strumento per la revisione confinaria con l'Italia. Le tensioni politiche si intrecciano con quelle nazionali e viceversa. Per decenni la questione delle foibe è stata ostaggio della polemica politica, fondata sul mero conteggio dei morti, sulla descrizione delle atrocità, senza contare l'aleatorietà delle testimonianze dirette, tanto più incerte quanto più accentuata ne è la contingente emotività. L'ipotesi dell'Autore è che il comunismo jugoslavo "non allineato" non è stato sottoposto a giudizio in quanto ha goduto di un'ampia immunità dettata dall'atlantismo e incontrato l'apprezzamento della sinistra italiana in nome del - la politica di equidistanza terzomondista di Tito; in Italia l'antifascismo si sarebbe invece dovuto impegnare di più nella costruzione di un'etica democratica nella società civile, e meno in quella di un'etica politica o partitica, nel corso di un lungo processo che ne ha enfatizzato il culto eroico anche tramite l'abuso retorico, laddove la generazione democratica di Apih aveva intravisto nell'antifascismo l'opportunità di una rifondazione morale della Nazione italiana.
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Informazioni
I
PSICOLOGIA: STORIA E GEOGRAFIA DELL’“INFOIBAMENTO”
Abissus abissum invocat. Di per sé la voragine (tale è la “foiba”) trasmette l’impulso alla morte, precipitazione nell’orrido. “L’abisso attira... Non c’è forse nessuno che non abbia provato l’attrazione dell’abisso...” ha scritto l’austriaco Franz Werfel(1). Ma pare assai più pertinente un’osservazione di Friedrich Wilhelm Nietzsche: “Se guardi entro l’abisso, l’abisso guarda dentro a te”(2); guardando il male, l’orrido, lo si assorbe, si può solo respingerlo e rifiutarlo. Egli si riferisce alla pulsione suicida che può sprigionare il vuoto abissale, ma questa è anche omicida. Ne esiste qualche traccia letteraria: ripetutamente è stata ricordata una canzonetta istriana, di Pisino, dove appunto scorre il torrente “Foiba”, quale primo incitamento a “infoibare”: “La musa istriana ha chiamato la Foiba degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese la caratteristica nazionale dell’Istria... La foiba ze a Pisin / che i buta zo in quel fondo / chi ga certo morbin. / E a chi con zerte storie / fra i piè ne vegnerà...”(3). Il testo è stato recentemente segnalato pure in Spazzali(4), da G. Fontanot(5). Si tratta di una canzonetta presentata, all’inizio del secolo, ad un concorso della Lega Nazionale (associazione patriottica e nazionale italiana, molto attiva nella Venezia Giulia), testimonianza letteraria di un sentimento di ostilità, espresso un po’ scherzosamente, ma con un sottofondo meno scherzoso (?), benché ciò si dica in retrospettiva, post-1945, prima mai. Cattiva letteratura, anche se popolare, certo; ma naturalmente non è nella letteratura la matrice dei fatti di “infoibamento”.
Cerca di analizzare in profondità questa tensione della psiche Carlo Sgorlon, nel romanzo La foiba grande (1992). La avverte come rapporto coi misteri terrificanti dell’ipogeo; l’analisi risente, evidentemente, della riflessione sui fatti storici del 1943-45 e sulle emozioni connesse (ma la dimensione su cui poggia l’analisi tende all’atemporale, all’individuazione di una struttura psichica perenne): “Nei discorsi di Partenija tendeva a risorgere e a prendere corpo l’Istria nera e notturna, misteriosa, non bene esplorata, legata a fenomeni carsici, alle grotte e alle foibe. Gli altri invece quelle cose tendevano piuttosto a dimenticarle, forse perché negli inghiottitoi si buttava la roba che si voleva eliminare, togliere per sempre dalla vista e magari anche dalla memoria. Perciò, ad esempio, il male e il peccato connessi, nella gente istriana, si collegavano con facilità alle gole delle foibe. “Tutte avevano qualcosa di obliquo, di scuro, di spaventoso. Nella foiba di Basovizza, vicina a Trieste, era stato buttato un feudatario odioso, un uomo carico di delitti, al tempo del patriarca di Aquileia Marquardo, cui allora l’Istria apparteneva. Due buoni colpi di spada non erano bastati a ucciderlo, perché aveva nove vite come i gatti. E allora, visto che non moriva neanche con quei terribili fori nel corpo, e un diavolo lo proteggeva, era stato buttato in foiba, e da laggiù le sue ossa continuavano a generare sventura al Carso e all’Istria tutta quanta. Era per fatti come questo che le foibe, piccole o grandi che fossero, emanavano un vapore sottile di pegola e di sventura, quasi che dal loro fondo continuasse a venir su un fumo di zolfo, come nelle fumarole vulcaniche. Con il calore grande dell’estate, quando l’aria tremava sulle rocce e sulle colline, anche adesso chiunque avrebbe giurato che dalla foiba grande uscisse un vapore. Qualcuno sosteneva che dall’inghiottitoio sortisse anche un lungo ansito, in qualche modo, prevalentemente nei mesi del freddo, quasi che le foibe fossero polmoni della terra, che generassero respiri emessi da un dinosauro antidiluviano, sepolto vivo lì sotto”(6).
Si intravede qui un universo mentale, le cui dimensioni e le cui potenzialità erano largamente ignote alla cultura occidentalizzata degli italiani dell’Istria, ridotte a folklore, talora pure derise. Un universo premoderno, presente nell’Istria croata e contadina, non aliena dal misterico e dal magico (ma risulta che c’era ancora chi credeva alla possibilità di rinchiudere un diavolo in una bottiglia). Questo premoderno generava una forte vitalità, contrapposta a una modernità sentita come ambigua e ostile. Ci sono testimonianze della presenza o creduta presenza del magico in Istria nel 1943: “Un altro presagio misterioso alimentava le speranze dei ribelli. Essi sarebbero rimasti nascosti nei boschi fino a quando non fosse giunto dal cielo un segno... una pioggia di foglie secche. Il fatto, che appare inspiegabile, si verificò verso la fine di agosto. Intorno alle 18 un rombo di motori annunciò la presenza di bombardieri, altissimi nel cielo azzurro. Poi volteggiarono nell’aria pezzetti di paglia e di foglie secche che si sparsero sull’abitato e nella campagna. Si pensò ad una tromba d’aria, ma i contadini credettero di riconoscere il segno misterioso. Immediatamente l’attività dei ribelli si fece più intensa”(7). Forse erano quei filamenti di carta argentata che i bombardieri alleati liberavano nell’aria per ostacolare i radar nemici. Ma sulla esaltazione del magico nei momenti di tensione sarà bene affidarci ad Eric J. Leed(8).
Questa cultura premoderna e la sua vastità – etnica e geografica – sono state colte con intelligenza da un giovane istriano, in una tesi di laurea parzialmente edita: “Quelle che da bambino chiamavo ‘storie di paura’, e che hanno profondamente colorato i tessuti dell’immaginazione di moltissime generazioni di giovani istriani, possono essere ricondotte ad alcune matrici fondamentali, particolarmente caratterizzate, scientificamente individuabili, che inseriscono le tradizioni di queste terre in un contesto molto più vasto, che supera l’Europa ed entra nel mondo orientale. Il disegno dei confini di questa dimensione si delinea inerte e confuso”(9).
Questo magico rappresentò una forza, più che una paura, tra i rivoltosi. Un apporto a queste tesi viene dal notissimo fatto del cane infoibato. Cito da uno dei pochissimi documenti ufficiali noti sulla questione “foibe” e cioè dalla relazione del maresciallo Arnaldo Harzarich, dei Vigili del Fuoco di Pola, dell’ottobre 1943: “L’interrogata fa notare uno strano fatto che denota la meschinità superstiziosa, primitiva e vile degli slavi. In ogni foiba è stato trovato, assieme ai cadaveri umani, la carogna di uno o più cani a seconda se le uccisioni sono avvenute in una o più volte. Sembra che con tale gesto gli assassini si credono liberati, davanti a Dio, della grave colpa commessa”(10).
Il fatto è stato più volte ricordato e recentemente pure da Gaetano La Perna, in Pola-Istria-Fiume 1943-1947 (1993), ma non ancora analizzato(11).
L’inserimento in un contesto di antropologia culturale è sollecitato pure da un singolare riscontro, proposto da una fonte ufficiale nazista, relativa all’asserita uccisione di cittadini polacchi di nazionalità tedesca, in Polonia, nei giorni immediatamente precedenti l’aggressione germanica e lo scoppio della Seconda guerra mondiale: “Assieme ai cadaveri dei tedeschi uccisi e mutilati veniva gettata nella fossa, in segno di disprezzo, la carogna di un cavallo o di un cane (p. 27)... È degno di speciale menzione il luogo del rinvenimento, nel bosco di Targowisko, dove 15 donne, uomini e fanciulli uccisi erano stati gettati in un abbeveratoio insieme alla carogna di un cane (p. 86, con foto a p. 81)... Poi i polacchi se ne andarono. Dopo mezz’ora circa osai strisciare fuori dal fosso. Tutto era silenzio e nessuno dava più segno di vita, solo guaivano ancora due cani contro cui si era pure sparato (p. 109)... Le cinque salme giacevano alla rinfusa, in una trincea polacca. Sopra il cadavere di suo figlio c’era la carogna di una mucca (p. 119)...”(12).
Ognuno sa quale credito si può dare alle pubblicazioni e alle documentazioni naziste, specie se di propaganda politica, e pure si sa a quali accessi giungesse la loro spregiudicatezza in fatto di falsificazioni; basterà ricordare la criminalità con cui fu inscenato, in quei giorni, il falso attacco di soldati polacchi alla stazione radiotrasmittente tedesca di Gleiwitz, vicinissima al confine, lasciando nel terreno quale prova cadaveri di detenuti tratti da carceri tedesche e vestiti con uniformi(13). È difficile credere che il documento di cui sopra non sia frutto di manipolazioni, se non di invenzione, ma – se si tratta di falsificazione – l’inserimento in essa del dettaglio del cane ucciso, dettaglio per niente necessario alla narrazione dei fatti, fa supporre la presenza di un falsario abile e preparato, capace di inserire nel suo discorso particolari tratti dalla realtà locale, in grado di renderlo credibile. Perciò si ritiene che questo documento nazista sia meritevole di citazione, in ordine all’argomento che qui si cerca di approfondire.
Trovo però notizia della credenza contadina – questa volta in Sicilia – che il diavolo possa mutarsi in cane e aggredire; l’uccisione del cane potrebbe allora essere la giusta punizione dell’istinto diabolico, o demone, che ha spinto al delitto e in tal caso potrebbe anche essere atto purificatorio.
Ciò che anche conta è che, comunque, si tratta di ammissione di colpa. Ciò spiegherà anche il lungo silenzio slavo sul fatto. Sembrerebbe, a un occhio profano, un rito (primitivo o degradato) di “capro espiatorio”. Il quadro storico-sociale di quel territorio polacco, forse la Slesia, richiama, per qualche verso, quello istriano: contrapposizione nazionale e sociale (i tedeschi sono più ricchi) ed estraneità tra le etnie (dopo vent’anni di appartenenza allo stato polacco – si rivela da quella pubblicazione – i tedeschi ammessi ignorano ancora, spesso, la lingua del loro nuovo Stato); l’etnia tedesca svolge, obbiettivamente, funzione di supporto alle aspirazioni e pretese germaniche e naziste.
In questo ordine di notazioni psicologiche e antropologiche è possibile ancora una considerazione: si può forse estendere alla effettuazione della “giustizia sommaria”, al momento sanguinario, proprio di insurrezioni e rivoluzioni, quel carattere di “guerra come festa” che Mario Isnenghi ha individuato nell’interventismo italiano del 1915(14). In questa “festa” un’esecuzione capitale – tanto più se spettacolare – può costituire un apice: così lo scrittore Italo Calvino descrive (o immagina?) la corsa quasi gioiosa di un reparto partigiano piemontese alla fucilazione di un maestro, del quale si aveva finalmente la prova che era spia; una tragica necessità ma, appunto, “festa”(15). E in qualche modo è spettacolo e “festa” quanto fanno i “tribunali del popolo”. Ma attenzione! Spiega Ernest Hemingway che la festa è vissuta sì come licenza, ma che è sentita come celebrazione – attraverso il sacrificio umano – della conquista del mondo della libertà(16).
“L’idea di poter uccidere, e impunemente o quasi, veri o supposti avversari politici... produceva, sembra, un’ebbrezza cui non era stato possibile cedere... spesso”, nota pure il giornalista Silvano Villani(17). Orrore e terrore diventano rapidamente e consapevolmente armi. Se non si tiene presente – e come dato di fondo – il messaggio paralizzante di “orrore” che viene da questi fatti (non solo soggettivamente percepito, ma pure volutamente provocato) non si può dare un giudizio pieno sul fatto “foibe”; esso resta unico se ristretto ai soli dati quantitativi e politici(18). Sintesi forse di tutto sembra essere il piacere dell’annichilimento – sensazione data da una sparizione materiale (nihil, nichts, rien; Vernichtung), dell’affermazione totalmente vittoriosa, che non lascia residuo del nemico(19).
Ma c’è un altro aspetto, del tutto pratico, che spiega le “foibe”, più volte ricordato anche se, per lo più, con lo scopo di minimizzare l’altro aspetto e di maggiore rilevanza, quello orrido e terrificante. È la loro potenziale f...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- INDICE
- PREMESSA
- Come sono nate queste note. Una confidenza opportuna.
- Geografia delle “foibe”
- CAPITOLO 1. Psicologia: storia e geografia dell’“infoibamento”
- CAPITOLO 2. Ricordo di Pisino
- CAPITOLO 3. Sulla diffusione del fenomeno
- CAPITOLO 4. Le foibe del 1945
- CAPITOLO 5. Storia di una rimozione
- CAPITOLO 6. Conclusioni
- CAPITOLO 7. L’internazionalismo al confine orientale d’Italia
- CAPITOLO 8. Resistenza e violenza, violenza e terrore
- CAPITOLO 9. Resistenza, violenza e terrore
- CAPITOLO 10. Nota all’edizione critica, di Roberto Spazzali
- CAPITOLO 11. Ricordo di Elio Apih, di Marina Cattaruzza