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Dio ha le mani sporche
Il grido degli innocenti, le angosce dei carnefici, l'arroganza dei boss
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Dio ha le mani sporche
Il grido degli innocenti, le angosce dei carnefici, l'arroganza dei boss
Informazioni su questo libro
È la narrazione di un dolore che provoca, che non lascia in pace, che mette in discussione certezze e convinzioni, e che chiede di abbandonare ogni comoda neutralità. È il dolore degli innocenti, di chi ancora cerca verità e giustizia, ma anche il dolore di chi si è reso responsabile di morti, di violenza e di sangue versato e vive tormentato da sensi di colpa. L'autore è un prete che racconta anni di percorsi, incontri e colloqui con chi si porta sulla pelle le cicatrici e le ferite ancora aperte dalla violenza subita ma anche da quella di cui si è stati artefici: dal caso Elisa Claps, la ragazza sedicenne ritrovata cadavere nel sottotetto di una chiesa a Potenza, alle confidenze di Giovanni Brusca, l'autore della strage di Capaci; da Andrea, Sara e Angelina, vittime della criminalità mafiosa, a Rahama, Becky e tanti e tante che come loro sono vittime della tratta degli esseri umani. Un racconto fatto "con il vangelo in mano", come dice lo stesso autore, perché l'impastarsi quotidiano di Gesù di Nazareth con l'umanità sofferente aiuta a comprendere meglio non solo che il suo Dio è fragile e inerme, ma soprattutto che non teme di lasciare la sacralità dei propri spazi pur di sporcarsi le mani con il dolore e la fatica degli uomini.
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Informazioni
Editore
San Paolo EdizioniAnno
2022Print ISBN
9788892228450eBook ISBN
9788892232150“Dove c’è sangue versato”
Sara, la giovinezza bruciata
La ricordo ancora.
Era minuta, graziosa, non aveva neanche diciotto anni. La incontravo di nascosto, si chiamava Sara. Anzi, no, il suo vero nome era un altro, ma quando ne parlavamo con gli amici che me la presentarono la chiamavamo Sara, perché lì dove vivevamo, ci conoscevamo tutti e bastava poco, anche solo per sbaglio, a far venire a galla la sua identità e la sua storia.
L’aspetto fisico tradiva la sua età, la faceva adulta, ma a dire il vero era quel veleno che si gettava dentro a renderla donna prima del tempo. Sara infatti si iniettava eroina nelle vene, non da molto tempo, certo, ma da quanto bastava perché da lì a poco chiunque glielo avrebbe potuto leggere in faccia.
Per questo motivo venne da me, per questo me la fecero conoscere: questa ragazzina aveva ancora la lucidità per capire che quelle non sono cose che si nascondono facilmente, che in poco tempo quel mostro che aveva preso possesso di lei lo avrebbero visto tutti, che prima o poi lei avrebbe perso la sua verginità sociale, che invece lei questo dolore ai suoi genitori non gliel’avrebbe voluto dare e che in un posto piccolo come quello significava essere ammazzata dal giudizio della gente prima ancora che da quello schifo che si gettava nel sangue.
Non tanto la droga in sé, dunque – «perché quella cosa è bella» mi disse una volta – ma quanto le apparenze da salvare, un’immagine da difendere: era questa la sua unica preoccupazione.
Nessuna famiglia disgregata alle spalle, nessun particolare problema a tormentare il suo animo, nessun vuoto da colmare, ma solo noia, tanta noia e la voglia di fare qualcosa di diverso in un posto dove fra quelle poche case, in quel periodo, circolava forse più droga che gente.
Io non sapevo quali parole usare, nessuno mi aveva mai detto come ci si comporta in queste situazioni e se ci sono dinamiche particolari di cui tener conto; ricordo solo che se pure mi ero approcciato a lei con la buona intenzione di riportarla sulla “retta via”, fu lei in realtà che senza che io me ne accorgessi, prendendomi per mano iniziò a condurmi per le vie impervie di un mondo che per quanto scomodo e difficile, tra le fragilità e le colpe, conservava tuttavia una dignità che prima di essere spietatamente etichettata andava ascoltata in profondità.
Un giorno, poi, seduta di fronte a me su una poltroncina, e agitata più del solito perché aveva «voglia» – così mi disse –, guardandomi dritto negli occhi e con tanta rabbia addosso continuò: «Marcello, oggi non voglio parlarti di me ma di quelli che mi stanno distruggendo».
Fu un attimo e quella chiacchierata quel pomeriggio si trasformò in un fiume di nomi, storie, episodi, i luoghi dello spaccio, i corrieri e i loro viaggi, e i tanti poveracci come lei che si sbattevano dalla mattina alla sera alla ricerca di “roba”, anche solo briciole: quel che bastava, insomma, per “viaggiare” oltre gli orizzonti angusti di quegli spazi di montagna così ristretti dove vivevano e per sentirsi “in paradiso”, anche soltanto per un po’.
Io ero pronto a tutto: a farmi mettere in discussione dal grido di dolore di una giovane vita che si stava bruciando col fuoco dello sballo, a scoprirmi nudo per l’impotenza di chi sa di non avere soluzioni in tasca né tantomeno risposte preconfezionate, ad accettare l’inadeguatezza dinanzi a storie così cariche di attese e di fallimenti. Ero pronto, insomma, a trasformare la costante del dubbio e l’imbarazzo del silenzio in miei compagni di viaggio.
A una cosa, invece, non ero preparato: alla richiesta di libertà, alla condivisione dei passi che reclamano giustizia, ad abbeverarmi allo stesso calice di chi ha sete di verità, e a chiamare per nome i responsabili di quelle vite rubate.
Questa ragazza seduta davanti a me, vittima sacrificale di un mercato di morte che non esita a bruciare sugli altari dei propri interessi tante esistenze spesso vuote e fragili, mi chiedeva per un attimo di andare oltre i confini della sua singola storia, di concentrarmi sull’altare stesso sul quale il drago malavitoso stava bruciando la sua esistenza e di indicare con il dito i volti nascosti dei sacerdoti profani di quella liturgia criminale.
E così ho iniziato a fare. Da quel momento e negli anni che sono seguiti.
Storie malavitose, ricostruite spesso con spirito certosino e rasentando a volte la paranoia, nomi e cognomi di clan mafiosi gridati ad alta voce non per una sterile e ancestrale caccia alle streghe ma per dare carne e corpo ad una violenza che troppo spesso rischia di essere letta in modo generico e come un male occasionale, e infine la frenetica richiesta di giustizia per le tante, troppe vittime che si sono viste sbranare dal drago mafioso, non solo quando le ha strappato per sempre gli affetti più cari, ma anche quando nessuno ha restituito loro le identità dei responsabili: tutto questo da anni accompagna i miei passi, perché non c’è fragilità né alcuna debolezza umana che meriti di essere schiacciata e umiliata dalla prepotenza altrui, perché a nessuno capiti di restare ucciso dalla solitudine, dall’indifferenza e dall’abbandono dopo essere stato brutalizzato dalle mani assassine, e perché, se a volte al sangue sparso dalla violenza criminale e mafiosa è impossibile porre un rimedio, che almeno si restituisca alle vittime il sollievo di una giustizia.
Il grido del sangue innocente
Non è stato facile e continua a non esserlo.
Quando Andrea mi racconta con gli occhi lucidi trent’anni di vita in ostaggio della ‘ndrangheta, l’umiliazione del pizzo che puntualmente ogni anno paga a Natale insieme a un panettone e a uno spumante, la consapevolezza di avere perso ogni dignità quando si è accorto di essere ormai diventato un pacco che i clan si passano di mano in mano a seconda di chi comanda il territorio e infine la rassegnazione per le tante denunce fatte, ma spesso sottovalutate, io non posso che restare in silenzio, accompagnarlo in punta di piedi in questo suo doloroso viaggio della memoria. E alla fine dinanzi a quelle sue otto parole coraggiose, ma anche figlie di una disperazione arrivata ormai al capolinea – «li denuncio solo se tu sei con me» –, già so da che parte stare. Io ho già fatto la mia scelta.
«È da trent’anni che vivo questo inferno. Sono stanco. Non ce la faccio più», mi disse quando lo incontrai la prima volta a Catanzaro, nell’ottobre del 2014, nell’angolo nascosto di una grande stanza, lontani dagli occhi di tutti.
Andrea Dominjanni è un imprenditore edile di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio, piccolo centro sulla costa in provincia di Catanzaro. Una vita fra cantieri edili e villaggi turistici. «Un lavoro che mi piace» mi dice mordendosi le labbra, «e come l’ho ereditato da mio papà, Giuseppe, così lo voglio lasciare ai miei quattro figli». Lo fa da quarant’anni, «eppure» mi dice ancora, «è come se avessi lavorato per loro».
“Loro” sono quelli che da trent’anni non lo lasciano in pace e gli hanno reso la vita un inferno: «tu non immagini quanti soldi gli ho dato in tutti questi anni fra un attentato e l’altro, fino alla tanica di benzina accanto a un accendino che mi hanno fatto ritrovare in spiaggia, nel villaggio, lo scorso 20 giugno. Mi hanno portato addirittura in tribunale, ho subito un processo civile, sono stato anche condannato. E quante volte li ho denunciati! Ma a cosa è servito? A niente. Loro non hanno mai pagato, io invece sì».
È confuso Andrea, inizia un discorso e poi passa subito a un altro; si ferma, scava nella memoria, torna dietro con il racconto e in un istante fa un gran balzo in avanti. È confuso come chi pretende in un’ora di raccontarti trent’anni di calvario e come chi aspettava questo momento da anni per viverlo come una specie di catarsi liberatoria. È confuso, certo, eppure i nomi dei suoi aguzzini li elenca ad uno ad uno, e anche i soprannomi: Vincenzo Gallelli detto Cenzo Macineju, Maurizio Gallelli detto u Campione, Andrea Santillo detto Nuzzo, Gerardo Procopio detto Gerry il biondo, Mario Mongiardo detto Babbalano, e poi ancora Codispoti, Gallace, Michele Lentini, Cosentino; nomi e volti che in questa striscia di Calabria jonica che in provincia di Catanzaro va da Sant’Andrea Apostolo ad Isca, da Davoli a Satriano, fino a Soverato e Guardavalle, conoscono in tanti perché a tanti hanno fatto versare lacrime.
Andrea li vomita tutti insieme, così come poi puntualmente farà in interminabili e segreti colloqui con le forze dell’ordine in una piccola stanza della Questura, lì a Catanzaro, mettendo nero su bianco, aggiungendo e integrando in ogni interrogatorio ciò che poco alla volta andrà ricordando. Perché accade così: quando finalmente trovi la forza e il coraggio, quando nel liberarti di quel peso inizi a riscoprire cosa significa la parola dignità, allora non ti ferma più nessuno. E Andrea non si fermerà più, fino al processo, fino alle condanne.
Certo, lo sa benissimo che nulla sarà più come prima, che ha dovuto forse sacrificare un po’ di libertà – essendo oggi sotto scorta – per riassaporare il gusto di una dignità ritrovata, ma ne è valsa la pena, e lui lo sa. Glielo leggo negli occhi ogni volta che lo incontro. Ma gli leggo anche tanta rabbia per le difficoltà nel ripartire e perché alla fine sembra essere lui l’appestato da evitare. E così, talvolta ci è sufficiente anche solo incrociarci con gli sguardi, per dirci in silenzio che la strada è ancora lunga e difficile.
Ecco perché non è facile condividere i passi delle vittime. Perché ad Andrea, come a Pietro, Giovanni, Paolo, Nicodemo, Tonino, e i tanti, i troppi volti innocenti deturpati da questo mostro che si chiama mafia e le cui catene ho toccato con mano, tu puoi aiutarli a risollevarsi da quella forca mortale, puoi aiutarli a riconquistare la dignità perduta e la sacralità delle loro esistenze, ma poi altro non puoi fare dinanzi alle loro richieste legittime e piene di dolore per una giustizia i cui percorsi, spesso, non coincidono con i loro percorsi e non sempre li restituisce ad un riscatto definitivo.
Ed è con questa impotenza che ho imparato a convivere, fino a trovare in essa il presupposto fondamentale e imprescindibile per vivere queste storie, non nella presunzione delirante di chi pensa di avere sempre una risposta a tutto, ma nell’umile consapevolezza che proprio la mancanza di risposte ti avvicina ancora di più e ti fa sentire parte del volto innocente e sfigurato, ma anche pieno di rabbia, di chi ti sta chiedendo aiuto.
Come si fa a mandare giù il calice amaro di una mamma che dinanzi alla tomba del figlio ti consegna senza più lacrime – perché ormai le ha consumate tutte – il dolore per quella vita strappata, ma soprattutto la rabbia per una verità e una giustizia che nessuno le ha mai restituito? Quali parole usare per evitare che la giusta consolazione non diventi invece un invito alla resa e così, nello stesso tempo, complice di chi a quella verità non vuole che si arrivi?
Angelina e Luca si fermano dinanzi alla tomba, in silenzio. Lui un passo dietro, lei invece si avvicina alla foto sulla lapide fredda, la bacia, sistema un fiore e me lo presenta: «lui è Attilio». Pochi, semplici ma strazianti gesti, che io porto ancora negli occhi. Mi trovo nel cimitero di Barcellona Pozzo di Gotto, a due passi da Messina, e loro sono la mamma e il fratello di Attilio Manca, un affermato urologo che il 12 febbraio 2004 viene ritrovato cadavere nel suo appartamento a Viterbo. Overdose da sostanze stupefacenti, si disse, ed invece da subito ogni cosa ha lasciato pensare ad un omicidio, e neanche normale ma di mafia, e di quella che solo a parlarne ti fa tremare le vene ai polsi. Perché la vicenda di Attilio sembra essere legata al mistero della latitanza del capo dei capi, Bernardo Provenzano, all’assistenza medica che Attilio inconsapevolmente si ritrovò a prestargli durante la sua latitanza in Costa Azzurra e a quello che poi avrebbe potuto rivelare nel momento in cui si rese conto dell’identità di quel malato.
La Procura di Viterbo ha archiviato questa storia ripetutamente e la famiglia Manca, anno dopo anno ripetutamente si è opposta, ha denunciato, ha presentato esposti, e ha chiesto con tutta la propria forza una verità che invece per loro sembra andare in tutt’altra direzione rispetto ad una tragica quanto volgare overdose.
Come si fa a girarsi dall’altra parte? Come si fa a non sentire propria quella dolorosa e pressante richiesta di giustizia? Come pensare che quel dolore non ci appartenga un po’ a tutti?
E come non farlo anche per Vincenzo Agostino che ha giurato a sé stesso di non tagliarsi mai più la sua lunga barba bianca finché qualcuno non gli avrà restituito la verità sull’omicidio del figlio Nino e della nuora Ida che portava un bimbo in grembo quando insieme furono uccisi a Palermo il 5 agosto 1989? Augusta, la moglie di Vincenzo, se ne è andata pochi anni fa e ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto: Qui giace una madre in attesa di giustizia.
E a proposito di madre, come restare impassibili dinanzi alle parole dure e chiare di Francesco che in una scuola superiore, dinanzi ad un’aula strapiena di ragazzi quasi suoi coetanei dice: «non avrò mai pietà per chi mi ha fatto crescere orfano». Aveva cinque anni quando nel giugno del 1997 a Napoli alcuni sicari della camorra nel corso di un regolamento di conti fra di loro colpirono a morte sua mamma, Silvia Ruotolo, 39 anni, che era andata a prenderlo all’asilo e tenendolo per mano stavano rientrando a casa.
Come si fa a non farsi graffiare l’anima da un dolore così straziante e spesso ancora più amplificato da una giustizia che non arriva? Come non farsi sfiorare, anche solo per un attimo, dal racconto tragico di queste storie? Come si può pensare che ci si possa lasciar coinvolgere da questo sangue innocente e ingiusto senza che però, nello stesso tempo, questi percorsi non vengano vissuti con “compassione”, che non significa una generica e pietistica pacca sulle spalle, ma – com’è scritto nell’etimo profondo della parola stessa – “soffrire insieme”?
Qual è, insomma, quel dio che ci chiede di camminare al fianco di così tanto dolore, ma senza farci bagnare da quelle lacrime e senza farci sporcare da quel sangue? È il Dio dei vangeli o è un altro dio quello che, mentre si svela come compagno di strada che si piega sulle ferite spesso purulente e per questo fastidiose dei più deboli e indifesi, nello stesso tempo ci chiede però di farci da parte quando si tratta di rivendicare con forza le responsabilità dei colpevoli?
“Non ti devi preoccupare della terra”
«Ritieniti un morto che cammina. Un giorno questi due confetti te li faremo mangiare (molto presto). Infame. Fai il prete, pensa a dire messa». Tu lo metti pure in conto che ad alcuni il tuo impegno non vada giù, che qualcuno di quelli che vivono come parassiti e sciacalli sulla pelle di tanta povera gente prima o poi te lo mandi a dire, come difatti mi capitò nell’ottobre del 2008 quando, insieme a queste parole scritte su un foglio a lettere cubitali, in una busta gialla mi recapitarono pure due proiettili calibro 12.
Provi fastidio, certo, un iniziale senso di instabilità, ma anche un moto di rabbia per un’intimità che senti sotto osservazione e per una libertà di parola e di movimento che avverti essere ingiustamente violate. Lo metti in conto e, anzi, in quelle parole paradossalmente trovi ancora di più la spinta ad andare avanti, a non lasciarle sole le vittime della violenza criminale né inascoltate le loro richieste di giustizia. E così, se l’intento di quella mano anonima era di intimidirti, l’effetto creato è stato esattamente il contrario.
È altro invece che all’inizio non avevi messo in conto, e che invece crea un senso di amarezza che a lungo andare diventa una inevitabile e ingombrante compagna di viaggio: le ultime sette parole di quel messaggio, “fai il prete, pensa a dire messa”.
O meglio, finché a dirtelo e a scriverlo su fogli sgualciti e con un tono così spr...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Quarta
- Autore
- Frontespizio
- Colophon
- Indice
- Prefazione di Agnese Moro
- “Dove c’è sangue versato”
- Se queste sono persone