Gandhi
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Informazioni su questo libro

Gandhi è un uomo che ha cambiato la storia del suo Paese, l'India, e del mondo. Per questa ragione è stato raccontato infinite volte, divenendo, col tempo, un'icona, una sorta di un super-eroe molto distante da noi. Questo romanzo si propone di far incontrare ai ragazzi di oggi la figura di Gandhi nella sua profonda umanità, immaginando di ripercorrerne la vicenda attraverso gli occhi di ragazzi e ragazze del suo tempo. Giovani come Khoi che si sente trattato per la prima volta con rispetto e gentilezza; Laxmi che riceve da Gandhi il suo primo paio di sandali e un sogno per il futuro; Seth e Kedar coinvolti nella prima grande azione di protesta contro una legge discriminatoria; il piccolo Srinivasa che durante la storica marcia del sale impara a riconoscere il valore di un uomo; Vittoria che comprende finalmente il significato della parola libertà e infine Sushila che scopre il senso di un sacrificio fatto per amore. Un romanzo corale, fatto di incontri che cambiano la vita.

Domande frequenti

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Informazioni

A Sergio Di Loreto,
ad Alessandra Donadello
e agli amici di Vicenza,
compagni nel cammino interculturale

Lead, Kindly Light,
amidst th’encircling gloom…
(Conducimi tu, Luce gentile,
attraverso il buio che mi circonda…)
John Henry Newman
Siate voi il cambiamento
che volete vedere nel mondo.
Gandhi

Primo incontro
KHOI

1893

Nell’aprile del 1893 Mohandas Karamchand Gandhi, avvocato di ventiquattro anni, emigra in Sud Africa per cercare fortuna. Trova lavoro presso una società indiana e, per seguirne le cause legali, si sposta da un capo all’altro del paese, dove scopre che i suoi connazionali vivono in gravi condizioni di discriminazione.

10 maggio 1893
Sud Africa, stazione di Maritzburg
Volete sapere come l’ho incontrato?
Era notte fonda, stavo sdraiato a terra, la schiena contro il muro della stazione di Maritzburg, proprio di fronte ai binari. Cercavo di dormire, ma i ricordi non mi lasciavano in pace.
Quando sopraggiunse il treno l’aria si riempì di fumo e di ombre. Socchiusi gli occhi e udii lo spalancarsi della porta di una carrozza di testa, una carrozza di prima classe.
Echeggiò un rumore di bagagli che precipitavano sul marciapiede, quindi un tonfo più pesante. La porta si richiuse e il treno ripartì.
Quando il fanalino di coda sparì in lontananza e il fumo si diradò, sotto le luci della banchina, tra le borse buttate qua e là, apparve un uomo steso a terra, che si alzò sui gomiti guardandosi intorno.
Di corporatura piccola, esile, indossava abiti da europeo: pantaloni scuri, giacca a doppio petto, camicia. E belle scarpe.
“È un padrone!” mi dissi stupito. Io ero scalzo, vestito di stracci e con al collo la collanina di semi che mi aveva dato la mamma prima di partire.
Osservai meglio il viso dello sconosciuto: era un indiano! Che cosa ci faceva un indiano in prima classe? Paradossale, quanto il fatto che un padrone venisse buttato giù da un treno!
Ero arrivato da alcune settimane in città, e avevo imparato subito in quale classe era permesso viaggiare agli indiani e ai neri come me: la terza, quella dei bagagli.
“Quel piccolo indiano ha disubbidito!” pensai incredulo.
«Via di lì! È vietato sostare sulla banchina!» urlò il capostazione, precipitandosi fuori.
L’indiano cercò a tastoni gli occhiali, se li sistemò sul naso e saltò in piedi. «Ho comprato un biglietto di prima classe per Charlestown, era mio diritto rimanere su quel treno! Sono un avvocato e manderò subito un telegramma di reclamo alla direzione delle ferrovie!» Aveva una vocina sottile, acuta.
Il capostazione scoppiò a ridere. «Sei un avvocato-coolie, allora! Benvenuto in Sud Africa, coolie, imparerai presto che a quelli come te è vietato viaggiare in prima classe!»
Ordinò a un facchino di portare i bagagli dell’indiano nel deposito, li chiuse sotto chiave e tornò nella stazione.
Avevo seguito tutto con attenzione. Non conoscevo ancora bene la lingua degli inglesi, e non mi importava. Pensavo che fosse meglio lasciarle ai bianchi le loro parole. Una però l’avevo sentita così tante volte in quei giorni che l’avevo imparata: coolie.
Voleva dire “servo indiano” ma quell’indiano non era vestito come un servo e non si comportava come un coolie.
Lui intanto aveva scosso la polvere dai vestiti e si era diretto dal capostazione. Gli parlò attraverso il vetro di uno sportello, con gesti gentili ma determinati. Discussero ancora, ma non sentii la loro conversazione.
Faceva sempre più freddo e ormai era tardi, treni non ne sarebbero passati più. Quando il capostazione sbarrò lo sportello con un asse di legno, ne approfittai per infilarmi nella sala d’attesa a sdraiarmi su una panca.
Poco dopo giunse anche l’indiano, che andò a sedersi sulla panca di fronte a me. Tremava. La giacca pesante doveva averla lasciata nelle valigie che il capostazione aveva chiuso nel magazzino. Neanch’io avevo da coprirmi, però mi ero abituato a non averne bisogno.
L’indiano iniziò a battersi le mani contro le braccia.
«Fa freddo la notte qui a Maritzburg, eh? Chi l’avrebbe detto in Sud Africa!» Mi sorrise. Aveva un modo di fare gentile – il capo piegato da un lato.
Non gli risposi. Abbassai gli occhi, aggrottai la fronte e mi chiusi nella mia tana di riccioli aggrovigliati.
Non parlavo da giorni, avevo deciso che non avrei parlato mai più.
La colpa era del nodo che avevo nella gola… e dei clic.
Gli olandesi chiamavano me e il mio popolo gli ottentotti – che voleva dire i balbuzienti – proprio a causa degli schiocchi che facevamo con la lingua. I clic, appunto. Gli olandesi ci prendevano in giro: «Noi ci rivolgiamo in questo modo solo ai cavalli!» sghignazzavano tra loro, e ci trattavano come bestie stupide. O erano gli inglesi a farlo? Non mi ricordo, i padroni erano tutti uguali, senza nomi propri.
Nessuno aveva un nome, in città. Noi, ottentotti e indiani, non protestavamo mai per come venivamo trattati, ci comportavamo da servi.
Tenevo d’occhio il piccolo indiano. Seduto sulla panca di fronte, estrasse dalla tasca della giacca un quadernino e una matita, incominciando a scrivere.
Non avevo mai visto nessuno muovere la matita così velocemente. Al mio villaggio soltanto il capo aveva imparato a scrivere il suo nome, ma ci impiegava mezza giornata.
L’indiano invece tracciava in fretta piccoli segni, parlando fra sé ad alta voce e in inglese. A volte si fermava a pensare, fissando in alto, gli occhi persi dietro qualcosa.
Mi pareva uno di quelli che dal mio villaggio erano venuti in città e avevano iniziato a bere alcol, andandosene in giro con lo sguardo allucinato. Anch’io, i primi giorni, ci avevo provato a bere, ma poi ero stato così male che avevo smesso.
L’indiano però non aveva bevuto e continuava a scrivere, rattrappito, sul quaderno, tremando di freddo.
A un tratto alzò la testa e lo sguardo gli si illuminò. «Verità… Verità! Ora so! Ora vedo!»
A me invece i pensieri si fecero bui.
Verità. Quella era una parola inglese che conoscevo. Il giorno prima l’avevo provata sulla mia pelle.
«Di’ la verità!» mi aveva urlato addosso un bianco, uno per cui lavoravo a scaricare frutta al mercato. Io prima avevo negato d’avere rubato un’arancia, poi l’avevo ammesso e lui mi aveva frustato.
A cosa mi serviva, allora, la verità?
Chiusi gli occhi, li strinsi forte e piombai nel sonno.
Iniziarono a galleggiarmi nella testa immagini come anatre in uno stagno.
Sognai di essere a pesca lungo il fiume. Il villaggio riposava alle mie spalle, le capanne a cerchio, nel mezzo il recinto con le capre e le pecore che belavano.
Tenevo i piedi ben piantati nell’acqua, e alta sopra la testa la lancia con la punta d’osso che aveva costruito mio nonno. I muscoli delle gambe e delle braccia erano così tesi da farmi male. A pescare ero il più bravo dei miei fratelli.
Un pesce guizzò. Ma mentre scagliavo la lancia l’aria fu lacerata da un grido. Dieci, cento, mille gridi, strepiti, urla rimbalzarono intorno facendo impazzire la savana, volare via gli uccelli e fuggire tutti gli animali. Quando mi voltai, le capanne erano in fiamme.
Balzai a sedere, coperto di sudore, il cuore che rimbombava nelle orecchie. Di fronte, l’indiano dormiva steso sulla panca con un sorriso sulle labbra.
Richiusi gli occhi.
Vidi ancora il fuoco che divorava i tetti delle capanne. Ma non era più un sogno. Era il ricordo di quello che era successo qualche mese prima.
Il mio villaggio era stato bruciato dai bianchi che volevano il nostro territorio per coltivarlo, e noi tutti eravamo dovuti scappare. Con la mia famiglia, insieme ad altri, avevamo trovato rifugio ai margini della città, in baracche di latta che avevano la forma delle capanne, ma non erano le nostre capanne.
Gli animali erano fuggiti, o morti. Erano stati i nostri amici, il nostro sostentamento, amavano i nostri clic, gli schiocchi e i sibi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quarta
  3. Autore
  4. Frontespizio
  5. Colophon
  6. Indice
  7. Primo incontro. KHOI
  8. Secondo incontro. LAXMI