1.
L’Etiopia
e il coraggio della carità
Moltissime cose scorrono molto in fretta.
Ne racconterò alcune
per potermene ricordare, per me stesso
Jean Paulhan, La vita è fatta di cose inquietanti
All’inizio fu l’Etiopia. Un fortilizio inaccessibile ripiegato sulle sue ambe e su quattromila anni di storia. Orgoglioso, ieratico, immobile, l’aspetto serio e desolato dell’Africa dei contadini. Era una società arcaica sulla cui gerarchia “naturale” di immobile feudalesimo è atterrata negli anni Settanta del secolo scorso, infiocchettata esoticamente di Marx e di Lenin, di lotta di classe e di rimessiticci Budjonni da savana, la rivoluzione dei colonnelli e capitani: come se fosse una astronave di marziani. Capricciose e innocue allegorie verbose senonché, ahinoi, nulla sembrava aver soppiantato se non nel fanatismo retorico una sorta di ingiustizia immanente, assoluta, una ineguaglianza vertiginosa. I voraci notabili del nuovo regime hanno preso il posto nelle prepotenze di quelli vecchi, uno sfasciume in Mercedes accampato attorno al ghebì imperiale di Haile Selassie, alle “tradizioni intatte”, al “tesoro storico”. E alle angherie millenarie.
Quello che c’era prima e quello che c’è ora hanno determinato la stessa conseguenza: l’indifferenza assoluta, spessa, lussuriosa verso la sorte dei poveri. In mezzo al tumulto, all’avvio del socialismo verso immancabili destini, all’insipienza nefasta e biliosa di quei bolscevichi semianalfabeti, intanto sparirono le piogge. Prima quelle “piccole” e poi quelle “grandi”, un decennio almeno all’asciutto, una maledizione che satrapi più smaliziati avrebbero subito definito controrivoluzionaria. E che era colpa di quello che più agevolmente e abusivamente chiamiamo destino o natura matrigna.
Così in attesa del socialismo migliaia di etiopici morivano di fame, anzi migliaia di poveri morivano di fame. Prima davanti all’indifferenza annoiata dei ricchi, ora davanti alla indifferenza sbrigliata dei rivoluzionari modernisti. Semplicemente: era gente a cui piaceva odiare, era felice di poterlo fare ora a sua pervertita discrezione, non più a comando, obbedendo agli ordini dei vecchi padroni. Oh! quante volte ho visto questa vertigine dell’odio finalmente liberato dagli impicci delle catene di comando, delle parole d’ordine, dell’essere semplice esecutore, l’odio tuo che è diventato padrone. Ed è una sciocchezza quello che pensano in molti, gli illusi: che cioè l’odio rende ciechi, avvelena la mente. Affatto. Rende lucidi, ingegnosi, moltiplica le idee. Purtroppo.
Il 15 ottobre 1984 Mohammed Amin, cameraman di Visnews che aveva base in Kenya, fu convocato dall’ambasciata etiopica di Nairobi. Il visto per poter visitare il nord del paese dove si moltiplicavano le voci di una terribile carestia era stato concesso: che cosa aspettava a partire? Amin mentre si precipitava all’aeroporto pregava che, con un definitivo spruzzo di cattiveria, non lo bloccassero all’imbarco: c’è stato un deplorevole errore, non c’è nulla da vedere in quella zona del paese, il visto è revocato.
Sì, guardava e riguardava il timbro stampigliato sul passaporto e non ci credeva ancora: dai! il nord dell’Etiopia! Tra i corrispondenti a Nairobi quel visto era diventato un modo di dire, per indicare il sogno di qualcosa di impossibile. In Etiopia era al potere un marxismo da caserma, il Derg, una specie di setta misteriosa e feroce, ufficiali che avevano eliminato, a dirla crudemente, il negus Haile Selassie e la vecchia classe dirigente e avanzavano per ridurre tutti in ceppi a colpi di riforme agrarie radicali, spostamenti forzati di popolazione e guerra totale ai mille indipendentismi che azzannavano province intere di quello che era stato l’impero del leone di Giuda.
Gente dura, spietata che aveva assimilato celermente dai consiglieri sovietici, inventori del menticidio, la regola numero uno del marxismo, scientifico o artigianale che fosse: non lasciare che i ficcanaso occidentali venissero a spiare il tumultuoso avanzare della rivoluzione sulle ambe etiopiche. Altro che accattivarsi le simpatie della stampa straniera. E invece il visto lo aveva in mano, sul passaporto, con ancora l’odore della carta bollata.
Era così stupefatto, Amin, che si era portato dietro un collega che gli facesse da testimone e collaboratore, Michael Buerk, un veterano d’Africa corrispondente della britannica Bbc. E quello dietro, di gran carriera: son cose che capitano una volta sola nella vita di un inviato, in questo caso davvero speciale.
L’incredibile fu che, all’arrivo ad Addis Abeba dove erano appena finiti i lussuosi festeggiamenti in stile sovietico per l’anniversario della rivoluzione comunista, star assoluta la guida suprema Menghistu, il più spietato e astuto dei militari che avevano agguantato facilmente il potere, il miracolo non evaporò. Anzi. Un giorno solo fu sufficiente per aggiungere al visto anche il lasciapassare per le regioni colpite dalla carestia.
Restarono solo due giorni i giornalisti in quel triangolo di sventura: quanto fu sufficiente perché il mondo scoprisse un luogo che nessuno conosceva sulla carta sterminata dell’Etiopia, Korem, con il suo campo delle vittime della Grande Fame. Due giorni. Bastarono per girare il documentario che portarono con sé per il montaggio a Nairobi. Il 23 ottobre 1984 la Bbc ne mandò in onda soltanto un breve trailer, cinque minuti, appena cinque minuti, nel notiziario delle diciotto.
Quattrocentoventicinque televisioni del mondo ritrasmisero il filmato e quattrocentosettanta milioni di spettatori nel mondo ne rimasero folgorati, atterriti, disfatti. Giuro, è così. L’agonia in mondovisione: il primo capitolo, a dirlo oggi, di una serie purtroppo infinita e sterile. Ma quella volta... Alla fine del mese l’aeroporto della capitale etiopica era già un formicaio ininterrotto di giganteschi aerei da trasporto, i tasselli di una immensa catena di solidarietà da cui sbarcavano migliaia di tonnellate di aiuti umanitari da ogni angolo del pianeta.
Raccontano che tra i primi a mobilitarsi con ricche donazioni di denaro ci furono anche gli inuit canadesi. Avete letto bene. Avevano visto le immagini di desolazione alla tv, loro che erano i derelitti del Grande Nord e che sapevano bene cosa voleva dire la fame. In prima fila con gli altri, i sazi d’Europa e d’America, dollari in mano, per aiutare.
I corpi emaciati dei bambini di Korem divennero in un attimo evento mondiale. Il “Catholic Relief Services”, la più grande organizzazione non governativa del mondo all’epoca, venne assediata dai donatori in preda, nell’affanno del peggio, a una autentica angoscia donativa. In Inghilterra due giornali, il «Sun» di Murdoch con le sue pin-up imbrancate, e il «Daily Mirror» si lanciarono in una sfida umanitaria su chi avrebbe raccolto più aiuti.
“Sappiamo che i nostri lettori adorano i bambini qualunque sia il colore della loro pelle” alitò l’editore Robert Maxwell. Già il 31 ottobre “Mercy Flight”, l’aereo della carità, partiva per Addis Abeba con a bordo Maxwell, proprietario del «Daily Mirror», ma soprattutto la stiva carica di latte, cioccolato in polvere, caffè.
L’entusiasmo umanitario davvero straripava. Nessuno di quei prodotti era adatto a fronteggiare la carestia e l’Etiopia, a pensarci bene e a consultar gli atlanti, era uno dei maggiori produttori mondiali di caffè. Quegli “aiuti” così voluttuari sarebbero finiti nelle dispense delle famiglie dei militari del Derg o venduti a caro prezzo nei mercati di Addis Abeba. Non sarebbero stati purtroppo gli unici. Dietro la crociata umanitaria la giunta al potere abilmente controllava e manovrava la carestia. La natura con il seguito di disgrazie millenarie assecondava i suoi disegni.
E poi ci fu Bob Geldof, cantante e compositore del gruppo The Boomtown Rats. Chi l’avrebbe scelto, proprio lui, per testimoniare della possibilità del mondo come una famiglia umana, come famiglia intera, come qualcosa che aveva prima e dopo in sé un punto di appoggio, un centro, una unità di misura; che l’uomo non finiva per coincidere con la rete dei suoi interessi, del suo egoismo? Se volete una morale, eccola: se un artista, quale che sia il suo livello, ha una parola da testimoniare in nome di un altro, in nome di una realtà, c’è sempre un giorno in cui il suo discorso diventa sangue e scorre per tutti. Smette di essere una ricerca astratta di armonia per restare oggetto di scambio sul mercato della realtà concreta, realtà che esige il confronto con la verità.
Fu un caso, un altro, l’ennesimo, che Geldof tenesse il televisore acceso quando trasmisero il documentario sull’Etiopia affamata. Telefonò ad amici che suonavano in altri gruppi rock, chiamò le star del pop inglese e mise insieme con quaranta colleghi un progetto musicale, Band Aid. I tecnici per realizzare la registrazione lavorarono gratis, in poche settimane il quarantacinque giri Do They Know It’s Christmas? vendette sei milioni di copie nel mondo. Cinquecento milioni di televisori trasmisero qualche mese dopo in diretta il concerto “Live Aid” dallo stadio londinese di Wembley, dove erano in ottantamila, e da Filadelfia.
“Io non rappresento una istituzione ma una istanza morale” rivendicò orgogliosamente Geldof davanti ai “vedrò cosa posso fare” della signora Thatcher, premier britannico, frase che i politici di tutto il mondo dicono agli oppressi quando questi chiedono qualcosa. È una frase vaga, che contiene una certa simpatia umana e non impegna affatto chi la pronuncia.
In Band Aid tutto il lavoro fu volontario, nessuno chiese un penny di rimborsi o note spese. I viaggi furono pagati da giornali e istituzioni per non sottrarre denaro agli affamati, non si ripeté il disastro di un’altra mobilitazione umanitaria del rock, quattordici anni prima: per il Bangladesh, promossa dal beatle George Harrison. In quel caso il denaro raccolto fu inghiottito in mille rivoli.
Bob Geldof, anzi sir Bob Geldof, mandò in soffitta il mondo tradizionale della carità, il sostegno popolare pensoso e tenero, travolgente e deciso, e lo rivestì di un incredibile potere sovversivo. Lo diceva lui stesso e sono parole che oggi dovrebbero farci riflettere: “Io rappresento solo me stesso... e qualche milione di persone con la voglia di aiutare. Io ho la legittimità della compassione”.
Un miracolo in fondo, ma come i miracoli non si è ripetuto. La legittimità della compassione è diventata la colpa o il ridicolo della compassione.
A guardare i numeri sembra di essere nell’età delle favole. Si stupisce rievocandoli se si ripensa alla data, i foschi anni Ottanta del Novecento acri di negazioni e di demolizioni: numeri così lucenti, spaziosi. Solo per l’anno 1985 l’aiuto all’Etiopia totalizzò 1,4 miliardi di dollari, il 75 per cento dagli Stati occidentali di cui 85 milioni di dollari dall’Europa e dalle Nazioni Unite fustigate dalla mobilitazione popolare, travolte dall’entusiasmo di massa al grido di “salviamo i bambini etiopici”; il resto dalla generosità dei singoli, attraverso progetti come Usa for Africa e Band Aid. Fu questo sforzo collettivo, titanico che trasformò le Ong che conducevano allora vita stentata tra straordinario impegno dei singoli e bilanci risicati in giganti del business con consigli di amministrazione e strutture burocratiche enormi.
I morti furono forse novantamila. O centomila? A distanza di tempo le cifre restano astratte. Non i volti. E gli sguardi. Piccoli stracci colore della polvere. Stracci che si muovono con afflizione, sempre più stancamente, come se l’aria smossa dal passante li animasse. Per un attimo. Per tendere la mano.
Nel campo di Korem gli uomini di Medici senza frontiere per settimane registrarono, atterriti, la morte di centinaia di etiopici stremati dalla denutrizione. I funzionari del governo allargavano le braccia: non c’è cibo, sogghignavano. Una delle dottoresse, a distanza di decenni dalle fotografie spuntano i suoi occhi brucianti e dolci, un bello sguardo umano pieno di tristezza, confidò ai due giornalisti, i primi che vedeva da quando combattevano lì contro l’onnipotenza della morte, che loro esercitavano una sorta di diritto di scelta orribile tra chi poteva vivere e chi invece veniva lasciato morire. Sceglievano cioè per distribuire il poco cibo quelli che sembravano in migliori condizioni e che avevano qualche possibilità in più di esistere. Gli altri erano abbandonati al loro destino.
Assistere a tutto questo, quasi in diretta, commosse e mosse il mondo.
Nessuno quaranta anni fa si sarebbe sognato di negare il carattere universale del dolore. Ma allora il dolore universale, inteso come quello degli altri, degli africani, degli asiatici, degli abitanti dell’altra America quella storicamente derelitta, era discreto.
C’era stato, sì, un precedente importante, il Biafra. La popolazione di una parte della Nigeria, quella degli ibo, ridotta alla denutrizione da una convulsa guerra civile. Ma il dolore era appunto discreto. Con l’Etiopia per la prima volta disponeva per farsi ascoltare degli stessi potenti mezzi della gioia e dell’odio. Ovvero...