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Informazioni su questo libro
"A Roma da Cartagine. La spada e lo scudo del legionario repubblicano" è un percorso attraverso le fonti storiche, letterarie e archeologiche, che esplora la nascita di due degli elementi più caratteristici della panoplia romana: la spada e lo scudo. L'ipotesi affascinante che viene offerta e illustrata nel dettaglio è quella di un tramite cartaginese, poiché sarebbe stato proprio l'esercito di Annibale Barca a portare per la prima volta in Italia alcune delle armi che sarebbero diventate tra le più iconiche dell'armamento dei legionari. Attraverso un approccio pluridisciplinare, corredato da un importante apparato di tavole illustrative, l'Autore ricostruisce le tecniche, innovazioni e influenze che hanno caratterizzato la produzione di armi nell'antica Roma.
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Informazioni
PARTE SECONDA
LO SCUDO
“... la natura della loro panoplia
offriva loro protezione e li riempiva di fiducia,
poiché il loro scudo era grande...”
Polibio, Storie, XV, 15, 8
V
I MOLTI SCUDI DEI ROMANI
“... nei tempi antichi, quando
[i Romani] utilizzavano scudi rettangolari,
gli Etruschi,
che combattevano in falange con scudi rotondi di bronzo,
li portarono ad adottare tali armi, e così vennero sconfitti.
Poi ancora, quando vi furono altre genti
che usavano scudi oblunghi e combattevano in manipoli,
li imitarono in entrambi gli aspetti...”
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, 23, 2
La genesi dello scudo dei legionari romani è, fra i problemi posti dallo studio del loro armamento, tra i più complessi, e per riuscire a tracciarne un’evoluzione organica è necessario destreggiarsi innanzitutto tra fonti letterarie apparentemente discordanti.
Il primo dato in ordine cronologico lo si può ricavare da Plutarco, che nella Vita di Romolo attribuisce al sovrano l’introduzione del θυρεός (thyreos), mutuato dai Sabini, che sarebbe andato a sostituire lo scudo ancestrale dei Romani, l’ἀσπίς (aspis) argivo(111).
La parola greca aspis va a definire lo scudo rotondo e convesso proprio degli opliti, mentre con thyreos, termine originariamente utilizzato per indicare un sasso allungato con funzione di fermaporta, per analogia morfologica i Greci identificavano qualunque scudo oblungo fornito di rinforzo centrale e impugnato per mezzo di una manopola.
Nella lingua latina, invece, le due tipologie di scudi sono indicate rispettivamente con i termini clipeus e scutum.
Apparentemente Plutarco viene contraddetto da Diodoro Siculo, che pare riportare un moto opposto: i Romani, avvezzi all’uso di un thyreos che egli definisce τετραγώνος (tetragonos), rettangolare, a seguito del confronto protratto con la falange etrusca lo avrebbero abbandonato in favore dell’aspis(112).
In realtà i due passi non debbono essere necessariamente letti in conflitto l’uno con l’altro: il passaggio dall’aspis al thyreos riferito da Plutarco viene circostanziato all’Età Romulea, mentre il moto opposto riportato da Diodoro viene inserito nel quadro delle guerre tra Romani ed Etruschi, ed è quindi successivo, nonché accompagnato dall’adozione delle tattica falangitica.
Il percorso che si può ricavare dal raccordo delle due fonti troverebbe anche un parziale riscontro su base archeologica: l’“aspis argivo” di Plutarco potrebbe essere ricondotto agli scudi della Cultura Laziale III, rotondi, lievemente convessi e in bronzo sbalzato, come quello ritrovato nella tomba 94 della Necropoli dell’Esquilino e datato all’VIII secolo a.C., mentre un thyreos rettangolare è riconoscibile in una statuetta votiva dal deposito di Campetti a Veio, datata ai primi del V secolo a.C. e coeva al frammento ceramico da Satricum raffigurante al contrario un guerriero latino che imbraccia un autentico scudo oplitico.
Più che una totale sostituzione di un modello di scudo all’altro, quindi, il quadro che si ricava suggerisce una compresenza delle due tipologie, che a seconda del contesto storico debbono aver goduto di una minore o maggiore popolarità e diffusione.
D’altra parte Dionigi d’Alicarnasso(113) e Tito Livio(114) fanno menzione dell’uso tanto dello scudo oplitico quanto di quello oblungo a manopola già all’epoca della riforma militare di Servio Tullio, convenzionalmente datata al 570 a.C., legando l’uso dell’aspis/clipeus alla prima classe di combattenti, appartenenti al ceto più abbiente ed equipaggiati alla maniera degli opliti greci, e lo scudo oblungo alle classi immediatamente inferiori.
Che l’ambito militare etrusco-italico dovesse essere contraddistinto già in epoche remote da una pluralità di modelli di scudo è altresì testimoniato nell’arte delle situle dell’Etruria Padana; in particolare la Situla della Certosa, datata alla prima metà del VI secolo a.C.(115), mostra una processione di armati divisi in differenti reparti, alcuni equipaggiati con scudo oplitico, altri con scudi rettangolari, altri ancora con scudi ellissoidali.
Tutte le fonti letterarie sono comunque concordi relativamente al fatto che in un dato momento i Romani abbandonarono definitivamente lo scudo oplitico per adottare in massa il thyreos.
Sempre secondo Diodoro, dopo aver acquisito dagli Etruschi l’aspis e la tattica falangitica, i Romani si sarebbero in un secondo tempo scontrati con “altri popoli” non specificati, che combattevano in formazione manipolare e utilizzando il thyreos.
Lo scontro con queste popolazioni avrebbe portato i Romani ad assimilare nuovamente scudo e tattiche degli avversari, così da poterli sconfiggere.
Tito Livio fa coincidere il completo abbandono dello scudo oplitico in favore di quello oblungo a manopola con l’istituzione del primo stipendio per i soldati(116), avvenuta in concomitanza con la presa della città di Anxur (Terracina)(117) nel 406 a.C., lasciando quindi supporre che gli “altri popoli” citati da Diodoro fossero la stirpe sabellica dei Volsci.
Invece, secondo quanto riportato da Sallustio(118), da Ateneo(119) e dall’Ineditum Vaticanum(120), i Romani avrebbero adottato il loro modello definitivo di scudo durante i conflitti con i Sanniti, dai quali avrebbero tratto diversi elementi della panoplia, quindi durante la seconda metà del IV secolo a.C.
Al di là del topos letterario del rivolgere contro il nemico le sue stesse armi, che senza dubbio porta con sé un grano di verità, l’insistere di diversi autori su una sistematizzazione del thyreos/scutum durante le Guerre Sannitiche potrebbe in parte sottintendere a un fenomeno reale.
Più che a un’effettiva mutuazione da parte romana delle armi proprie dei Sanniti, però, il fenomeno va piuttosto ricondotto alla necessità di esaltare elementi già presenti nella propria panoplia per rispondere a particolari necessità tattiche, nel caso specifico relative a una guerra contraddistinta da combattimenti fluidi, spesso condotti in teatri d’operazione accidentati, nei quali la rigida falange oplitica dif...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Colophon
- INDICE
- Presentazione
- Introduzione
- PARTE PRIMA IL GLADIO
- PARTE SECONDA LO SCUTUM
- Fonti letterarie
- Bibliografia
- Ringraziamenti