Tipologie Forestali della Calabria
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Tipologie Forestali della Calabria

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Informazioni su questo libro


Questo testo raccoglie studi e ricerche svolti dagli autori in un arco temporale di circa 20 anni sulla vegetazione, le tipologie forestali e la selvicoltura. Vengono analizzate le tipologie forestali della Calabria mettendone in evidenza le peculiarità. In modo particolare si evidenziano le abetine di abete bianco, le pinete oro-mediterranee di pino loricato e di pino laricio. I querceti caducifogli di farnetto e di rovere meridionale. I boschi di ontano napoletano, I castagneti, per la loro importanza nella economia della regione. I querceti sempreverdi di leccio e in particolare le sugherete. Si segnalano i boschi vetusti di pino loricato del Pollino, di pino laricio della Sila, di abete bianco delle Serre, di rovere meridionale e di leccio dell' Aspromonte. Una guida per professionisti e cultori della materia per conoscere il patrimonio forestale calabrese e per gestire le risorse forestali con criteri innovativi, differenziati secondo quelli conservativi e selvicolturali o del restauro forestale per i boschi degradati.

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Informazioni

Indice dei contenuti

  1.  
  2.  
  3. Roberto Mercurio, Carmelo Maria Musarella,
  4. Giovanni Spampinato
  5. Tipologie forestali
  6. della Calabria
  7. TITOLO | Tipologie Forestali della Calabria
  8. AUTORE | Roberto Mercurio, Carmelo Maria Musarella, Giovanni Spampinato
  9. ISBN | 9791221426786
  10. Prima edizione digitale: 2022
  11. © Tutti i diritti riservati all'Autore.
  12. Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.
  13. Youcanprint
  14. Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce
  15. www.youcanprint.it
  16. [email protected]
  17. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
  18. Autori
  19. Roberto Mercurio, già professore ordinario di Selvicoltura e Assestamento Forestale, Dipartimento di Agraria, Università Mediterranea Loc. Feo di Vito snc 89122 Reggio Calabria.
  20. Carmelo Maria Musarella, ricercatore e docente di Biologia Vegetale, Dipartimento di Agraria, Università Mediterranea Loc. Feo di Vito snc 89122 Reggio Calabria.
  21. Giovanni Spampinato, professore ordinario di Botanica Ambientale e Applicata, Dipartimento di Agraria, Università Mediterranea Loc. Feo di Vito snc 89122 Reggio Calabria.
  22. Ringraziamenti a coloro che hanno partecipato ai diversi lavori: Bagnato S., Cameriere P., Crisafulli A., Caminiti F., Cannavò S., Caridi D., De Lorenzo F., Falcone A., Gugliotta O., Mallamaci C., Modica G., Muscolo A., Romano G., Scarfò F., Sidari M., Signorino G., Siviglia M. Uno speciale ringraziamento al Dott. Giuseppe Contabile, Dottore Forestale, per il supporto tecnico e i preziosi consigli.
  23. INDICE
  24. PARTE GENERALE 8
  25. Introduzione 8
  26. Dal quadro normativo europeo e nazionale a quello regionale 9
  27. Inquadramento ambientale generale della Calabria 10
  28. Lineamenti su habitat e vegetazione forestale 12
  29. La superficie forestale 28
  30. Approccio metodologico 30
  31. Le tipologie forestali della Calabria 37
  32. BIBLIOGRAFIA 40
  33. PARTE SECONDA 45
  34. CATEGORIA: FAGGETE 45
  35. Sottocategoria: Faggete microterme 46
  36. Faggeta microterma tipica 46
  37. Sottocategoria: Faggete macroterme 50
  38. Faggeta macroterma oceanica 50
  39. Faggeta macroterma 55
  40. CATEGORIA: ABETINE 57
  41. Abetina pura 58
  42. Abetina pura cacuminale 60
  43. CATEGORIA: PINETE ORO-MEDITERRANEE 63
  44. Pinete di pino loricato 64
  45. Pinete di pino nero 67
  46. Pinete di pino laricio 68
  47. CATEGORIA: CASTAGNETI 73
  48. Castagneto montano 74
  49. Castagneto submontano 77
  50. Castagneto da frutto 80
  51. CATEGORIA: QUERCETI CADUCIFOGLI 82
  52. Querceti di farnetto 84
  53. Querceti di rovere meridionale 87
  54. Querceti di roverella termofili 89
  55. Querceti di roverella mesofili 92
  56. Querceti di cerro termofili 94
  57. Querceti di cerro mesofili 96
  58. CATEGORIA: QUERCETI SEMPREVERDI 99
  59. Leccete termofile 100
  60. Leccete mesofile 102
  61. Sugherete 106
  62. CATEGORIA: PINETE MEDITERRANEE 109
  63. Pinete naturali di pino d’Aleppo 110
  64. CATEGORIA: MACCHIE E ARBUSTETI MEDITERRANEI 112
  65. Macchia a lentisco 114
  66. Macchia alta a ginepro turbinato 115
  67. Macchia a euforbia arborea 117
  68. Macchia ad erica arborea 117
  69. Arbusteti a ginestra odorosa 119
  70. CATEGORIA: ARBUSTETI TEMPERATI 121
  71. Arbusteti a ginestra dei carbonai 122
  72. Arbusteti calcicoli a prugnolo e biancospino 123
  73. CATEGORIA: FORMAZIONI BOSCHIVE IGROFILE 125
  74. Formazioni ripariali di ontano nero 126
  75. Formazioni ripariali di ontano nero e ontano napoletano 128
  76. Formazioni ripariali di salice bianco 129
  77. Formazioni ripariali di pioppo nero 131
  78. Formazioni ripariali di pioppo bianco 133
  79. Formazioni di olmo campestre 134
  80. Formazioni ripariali di platano orientale 135
  81. Formazioni planiziali di frassino ossifillo e farnia 137
  82. Formazioni ripariali di tamerici 139
  83. CATEGORIA: ALTRI BOSCHI CADUCIFOGLI 141
  84. Formazioni di acero napoletano 142
  85. Formazioni di ontano napoletano 144
  86. Formazioni di acero montano 146
  87. Formazioni di carpino nero 148
  88. Formazioni di pioppo tremolo 151
  89. Formazioni di nocciolo 152
  90. Formazioni di frassino ossifillo 154
  91. CATEGORIA: RIMBOSCHIMENTI DI CONIFERE 156
  92. Rimboschimenti di pino marittimo 157
  93. Rimboschimenti di pino domestico 158
  94. Rimboschimenti di cipresso 160
  95. Rimboschimenti di pino d’Aleppo 161
  96. Rimboschimenti di pino laricio 163
  97. Rimboschimenti di pino loricato 165
  98. Rimboschimenti di abete bianco 167
  99. Rimboschimenti di douglasia 169
  100. Rimboschimenti di pino radiato e altri pini alloctoni 171
  101. Rimboschimenti delle dune 172
  102. CATEGORIA: RIMBOSCHIMENTI DI LATIFOGLIE 175
  103. Rimboschimenti di castagno 176
  104. Rimboschimenti di ontano napoletano 177
  105. Rimboschimenti di pioppo tremolo 178
  106. Piantagioni di pioppi ibridi 179
  107. Piantagioni di latifoglie a legname pregiato 180
  108. Rimboschimenti di eucalipti 182
  109. CATEGORIA: BOSCHI DI SPECIE ALIENE INVASIVE 185
  110. Boschi di robinia 186
  111. Boscaglie di ailanto 187
  112. Boscaglie di acacia 189
  113. BIBLIOGRAFIA 192
  114. GLOSSARIO 209
  115. PARTE GENERALE
  116. La tipologia forestale viene definita come quel "sistema di classificazione delle formazioni forestali in unità floristico-ecologico-strutturali con finalità applicative quali quelle selvicolturali e gestionali" (Del Favero et al. 1990). Lo studio delle formazioni forestali che viene condotto attraverso l'analisi e la discriminazione tipologica, consente di costituire unità di iferimento, di apprezzarne la variabilità strutturale ed ecologica, di stabilire una base comune di descrizione e di confronto delle varie formazioni, di definire gli indirizzi di gestione delle singole tipologie.
  117. Si tratta di un sistema di riferimento più semplificato rispetto a quello fitosociologico, che si basa sulla composizione floristica dello strato arboreo, e di poche altre specie arbustive ed erbacee particolarmente significative (integrazione tra gli aspetti fisionomici e fitosociologici) e che è inoltre correlato con gli aspetti applicativi e gestionali.
  118. In Italia, le basi teoriche di questo metodo sono riconducibili a Fenaroli (1933), Hofmann (1957, 1969). Ma l'impiego su vas a scala come strumento di gestione e di pianificazione degli interventi selvicolturali avviene nel ventennio 1990-2010.
  119. In Calabria non esistevano, ancora agli inizi del 2000, studi sulle tipologie forestali, nonostante l’interesse scientifico (botanico e selvicolturale) dovuto alla ricchezza e alla diversità della vegetazione forestale che abbraccia ambienti quanto mai diversi sia nei due versanti (ionico e tirrenico), sia in senso altitudinale (dal livello del mare fino a 2000 metri).
  120. Per colmare questa carenza conoscitiva, sono state riassunte conoscenze pregresse e studi specifici sulla vegetazione e sulle ipologie in aree definite (Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003, Cameriere et al. 2003, Mercurio e Spampinato 2001, 2006, Mercu io et al. 2007, Scarfò et al. 2008, Mercurio et al. 2009, Bernardo et al. 2010). Altri studi hanno riguardato ambiti più ampi a livello regionale (Nicolaci e Iovino 2016, Iovino et al. 2017a, 2017b, 2019).
  121. La “Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030” (Commissione Europea 2020) è un piano complessivo, a lungo termine, per proteggere la natura e invertire il degrado degli ecosistemi. L'UE mira a proteggere e a restaurare gli ecosistemi degradati entro il 2030 e a gestirli in modo sostenibile, affrontando le cause principali della perdita della biodiversità. Un tratto qualiicante riguarda le foreste: “Oltre a proteggere rigorosamente tutte le foreste primarie e antiche ancora presenti sul suo territorio, l'Unione deve aumentare l'estensione delle sue foreste, migliorarne la qualità e renderle più resilienti, in particolare contro gli incendi, la siccità, gli organismi nocivi, le malattie e altre minacce che si fanno più incombenti con i cambiamenti climatici”.
  122. La Nuova Strategia europea per le foreste per il 2030 rappresenta un ponte tra le politiche forestali nazionali e gli obiettivi europei in materia di foreste. Tende a promuovere i servizi ecologici e socio-economici forniti dalle foreste, rifacendosi agli obiettivi del Green Deal europeo, della Strategia sulla biodiversità per il 2030 e con la Strategia "Dal produttore al consumatore" (Commissione Europea 2020). La Strategia si pone come obiettivi: l'imboschimento, la conservazione e il ripristino delle foreste in Europa, allo scopo di aumentare la capacità delle foreste di assorbire e immagazzinare CO2, promuovere la bioeconomia circolare, proteggere la biodiversità, incentivare l’ecoturismo forestale. La Strategia pone l'accento sulla messa a dimora di almeno tre miliardi di nuovi alberi nella UE entro il 2030 (Commissione Europea 2021).
  123. Per le peculiarità delle foreste calabresi interessate da boschi con specie a legno duro, attualmente governate a ceduo per la legna da ardere, è da tenere presente che il “Nuovo Bauhaus europeo” dovrebbe dare maggior impulso alla ricerca e all'innovazione in materia di architettura, progettazione ecocompatibile e materiali da costruzione (https://europa.eu/new-european-bauhaus/about/about-initiative_it).
  124. Il Decreto Legislativo 3 aprile 2018 n. 34 “Testo unico in materia di foreste e filiere forestali” (TUFF) è stato emanato con l’intenzione di unificare e rendere conforme alle esigenze attuali la normativa quadro in materia forestale. Il TUFF conferma la riforma costituzionale (Legge Costituzionale n. 3 del 2001) che attribuisce alle Regioni la competenza esclusiva in materia di boschi per la sola funzione economico-produttiva. Parimenti viene ribadito come gli aspetti ambientali e di conservazione della biodiversità e del paesaggio siano di competenza dello Stato (trattati rispettivamente dal Codice Ambientale - D.Lgs. n. 152/2006 - e dal Codice Urbani - D.Lgs. n. 42/2004). A completamento di questo processo normativo sono stati emanati alcuni decreti attuativi:
  125. ● D.M. 29 aprile 2020 "Albi regionali delle imprese forestali"
  126. ● D.M. 29 aprile 2020 "Definizione dei criteri minimi nazionali per la formazione professionale degli operatori forestali"
  127. ● D.M. 7 ottobre 2020 "Adozione delle linee guida relative alla definizione dei criteri minimi nazionali per l'esonero dagli i terventi compensativi conseguenti alla trasformazione del bosco"
  128. ● D.M. 12 agosto 2021 "Disposizioni per la definizione dei criteri minimi nazionali e per il riconoscimento dello stato di abbandono delle attività agropastorali"
  129. ● D.M. 28 ottobre 2021 "Disposizioni per la definizione dei criteri minimi nazionali inerenti agli scopi, le tipologie e le ca atteristiche tecnico-costruttive della viabilità forestale e silvo-pastorale, delle opere connesse alla gestione dei boschi e alla sistemazione idraulico-forestale"
  130. ● D.M. 28 ottobre 2021 "Disposizioni per la definizione dei criteri minimi nazionali per l'elaborazione dei piani forestali di indirizzo territoriale e dei piani di gestione forestale"
  131. ● D.M. 18 novembre 2021 “Approvazione delle linee guida per l'identificazione delle aree definibili come boschi vetusti”
  132. Il 9 febbraio 2022 è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale (D.M. 23 dicembre 2021) la Strategia Forestale Nazionale (SFN), in ottemperanza del Testo Unico in Materia di Foreste e Filiere Forestali (articolo 6, comma 1, D.L. 3 aprile 2018 n.34). Si tratta di un documento strategico di validità ventennale, che individua, facendo riferimento ai tre principi-guida della Strategia forestale dell’UE, tre obiettivi generali: 1) Favorire la gestione sostenibile e il ruolo multifunzionale delle foreste; 2) Migliorare l’impiego delle risorse forestali per lo sviluppo sostenibile delle economie delle aree rurali, di quelle interne e u bane del Paese; 3) Sviluppare la conoscenza e la responsabilità globale delle foreste.
  133. Per l’applicazione delle indicazioni previste nelle tipologie forestali della Calabria, la normativa forestale di riferimento della Regione Calabria comprende:
  134. - le P.M.P.F. approvate con DGR n. 218 del 20/5/2011, e modificate con DGR n. 43 del 2 febbraio 2012;
  135. - le Linee guida per la redazione dei piani di gestione forestale (DR 548 del 16 dicembre 2016);
  136. - il Regolamento 9 aprile 2020 n.2 di attuazione della L.R. 12 ottobre 2012 n.45 “Gestione, Tutela e Valorizzazione del Patrimonio Forestale Regionale” in vigore a partire dal 2022.
  137. Nella regione Calabria l’elenco dei Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e delle Zone di Protezione Speciale (ZPS) presenti sul territorio è incluso nella deliberazione della Giunta regionale n. 1000 del 4 novembre 2002 “Approvazione linee di indirizzo progetto integrato strategico Rete ecologica regionale - POR 2000-2006. Misura 1.10”, pubblicata nel Burc del 10 dicembre 2002, s.s. n. 6 al n. 22 del 30 novembre 2002. Con decreto n. 1555 del 16 febbraio 2005, la Regione Calabria approva la ”Guida alla redazione dei Piani di Gestione dei Siti Natura 2000”. La Deliberazione della Giunta Regionale n. 948/2008 designa le Amministrazioni provinciali quali Enti di gestione dei Siti Natura 2000 compresi nel territorio provinciale di appartenenza e non inclusi all'interno delle aree protette di cui alla L. 394/91 e smi. Con delibera n. 462 del 12.11.2015 la Regione Calabria ha istitui o 178 SIC e nel 2016 vengono approvate le misure di conservazione dei SIC (Burc n. 94 del 16 settembre 2016).
  138. La Calabria si estende nella parte più meridionale della penisola italiana (Mergner et al. 1965). Essa è una stretta penisola con una superficie di 15.080 km2 che si sviluppa in lunghezza secondo un asse nord-sud lungo 250 km ed è bagnata dal Mar Tirreno ad ovest e dal Mar Ionio ad est, con un litorale che si estende per una lunghezza totale di circa 780 km. Si tratta di una regione prettamente montuosa a causa dell’Appenino calabrese che la percorre interamente da nord a sud fino in riva allo Stretto di Messina e comprende una serie di sottosistemi molto diversi tra loro: la Catena del Pollino complesso di matrice calcarea che raggiunge i 2000 m; la Catena Costiera che si estende nella parte settentrionale della regione lungo la costa tirrenica con quote fino a 1000 m; la Sila in larga parte costituita da substrati silicei e la Presila con componente argillosa nella parte cent ale della regione fino a circa 2000 m; le Serre di matrice silicea fino a 1400 m e nell’estrema punta della regione l’Aspromonte fino a circa 2000 m.
  139. Le quote altimetriche elevate che si raggiungono in brevi distanze condizionano le caratteristiche e i tipi della vegetazione, per cui la situazione di base è diversa nel versante ionico rispetto a quello tirrenico meno caldo: un’asimmetria determinata essenzialmente da differenze climatiche (ARSSA, 2003).
  140. Dal punto di vista biogeografico, l’Italia meridionale rientra per la parte occidentale nella provincia Italo-tirrenica della egione mediterranea (sub regione Ovest Mediterranea) e per quella orientale nella provincia adriatica (sub regione Est Medite ranea). In particolare, la Calabria appartiene alla sub-provincia italica occidentale litorale (Rivas Martínez 2004). Secondo l’inquadramento in ecoregioni dell’Italia di Blasi et al. (2018), la Calabria occupa la sottosezione “Calabria”, della Provincia “Tirrenica” nella Divisione “Mediterranea” che comprende oltre la Calabria, le zone costiere tirreniche, la Sicilia e la Sardegna. La sottosezione include l’arco calabrese con rilievi di rocce metamorfiche e ignee intrusive che raggiungono le zone climatiche Temperate e le circostanti zone pianeggianti di matrice bioclimatica Mediterranea.
  141. La natura geologica della regione è varia e si possono distinguere (AA.VV. 1967, Amodio-Morelli et al. 1976):
  142. - la parte settentrionale, costituita dai complessi montuosi del Pollino e dei monti di Orsomarso e della Montea fino a Belvedere Marittimo, di origine sedimentaria e di natura calcareo-dolomitica;
  143. - la parte centromeridionale fa parte dell’arco calabro peoloritano, un frammento di catena alpina sovrascorso sulla catena appenninico-maghrebide nel Mediterraneo centrale nel corso dell’Eocene (Amodio-Morelli et al. 1976). Esso comprende da nord verso sud, la Catena Costiera a ovest, la Sila a est, più a sud dalle Serre Calabre e, nella parte estrema meridionale, dall’Aspromo te. Tutti questi complessi sono costituiti da substrati silicei aventi due possibili origini: metamorfica (scisti, gneiss) e intrusiva (graniti).
  144. Inoltre, in alcuni punti a quote basse di queste catene, si possono trovare depositi sedimentari di natura calcarea, marnosa, argillosa o sabbiosa, che, a volte, però, possono arrivare anche fino a 1000 m slm.
  145. Secondo la Carta bioclimatica dell'Europa (Rivas-Martínez et al. 2004) e quella aggiornata di Blasi e Michetti (2005), la Calabria presenta sia zone con bioclima mediterraneo oceanico pluviostagionale, sia zone con bioclima oceanico submediterraneo temperato e di tipo semi-continentale. Musarella & Spampinato (2012) avevano già avviato una prima caratterizzazione ecologica dei querceti calabresi in relazione alle fasce bioclimatiche presenti nella regione e ricavate dalle elaborazioni dei dati climatici di 38 stazioni termopluviometriche (37 in Calabria e 1 in provincia di Potenza, ma molto vicina a Cosenza).
  146. In base alle prime elaborazioni, le 38 stazioni termopluviometriche, di cui si disponeva di dati per almeno trenta anni, rient ano nella fascia latitudinale Eutemperata e presentano tutte una continentalità di tipo Oceanico con sottotipo Euoceanico accentuato (9 stazioni), Euoceanico attenuato (22 stazioni) e Semicontinentale attenuato (7 stazioni). Il bioclima prevalente è quello Mediterraneo pluviostagionale-oceanico (32 stazioni), mentre solo 6 località presentano un bioclima Temperato oceanico (Submediterraneo). La fascia bioclimatica con più stazioni è la Termomediterranea (20), segue la Mesomediterranea (9), Supramediterranea (2), Mesotemperata (2) e Supratemperata (5), tutte con differenti ombrotipi che vanno dal secco inferiore all’iperumido inferiore.
  147. Il bioclima è di tipo mediterraneo con precipitazioni stagionali fino a circa 1000 m e di tipo temperato submediterraneo nell'area montuosa (Rivas-Martínez et al. 2013). Infine, secondo Pesaresi et al. (2014), la Calabria appartiene al macrobioclima Mediterraneo, con una marcata componente di bioclima Mediterraneo pluviostagionale oceanico e alcune piccole aree con bioclima Temperato oceanico (submediterraneo). Per quanto riguarda i termotipi, questi vanno dal Termomediterraneo inferiore al Supramediterraneo superiore, con la presenza anche del termotipo Supratemperato superiore nella Sila e Orotemperato inferiore sul Pollino. Inoltre, presenta un valore di Continentalità di tipo oceanico nelle varianti “Strong euoceanic” and “Weak euoceanic”.
  148. La vegetazione, il manto verde che ricopre il nostro pianeta, è costituita dall'insieme di comunità vegetali, o fitocenosi, che si giustappongono come le tessere di un mosaico. Ancora prima dell'affermarsi delle scienze che studiano gli esseri viventi e le loro interazioni, veniva riconosciuto il ripetersi di determinate comunità vegetali sulla superficie terrestre. Esse erano i dividuate con denominazioni che fanno riferimento alla fisionomia della vegetazione, come, bosco, pascoli, ecc., ma anche con termini più specifici come faggeta, lecceta, che evidenziano la specie dominante e conseguentemente la struttura.
  149. Analizzando la composizione floristica e la struttura di ciascuna di queste comunità è possibile individuare delle unità eleme tari, le fitocenosi o associazioni vegetali, dove si osserva il ripetersi della convivenza delle medesime specie. Non si tratta di coincidenze casuali ma piuttosto del risultato di una selezione operata dall'ambiente sulla flora di quel territorio. Le fi ocenosi sono infatti combinazioni di specie vegetali che dipendono innanzitutto dalle caratteristiche ecologiche dall'ambiente e che sono fortemente condizionate dai rapporti di concorrenza e interdipendenza tra le varie specie. La fitocenosi, che può co siderarsi un bioindicatore di specifiche combinazioni di fattori ecologici, ha anche un significato fitogeografico in quanto la combinazione di specie di una fitocenosi dipende dal tipo di flora caratterizzante quel territorio.
  150. Lo studio della vegetazione è possibile con varie metodologie, ma la più diffusa in Europa e in altre parti del mondo è quella fitosociologica, teorizzata da Josias Braun-Blanquet (1884-1980), studioso franco-svizzero che all’inizio del 1900 gettò le basi per lo sviluppo della fitosociologia (Braun-Blanquet 1964). Egli individuo nella vegetazione delle unità chiamate “associazione vegetale” che definì come “un aggruppamento vegetale più o meno stabile nel tempo e in equilibrio con l’ambiente, con una tipica composizione in specie, alcune delle quali (specie caratteristiche) rilevano con la loro presenza una ecologia specifica ed autonoma. Le associazioni vegetali sono denominate tramite le specie caratteristiche con l'aggiunta del suffisso -etum. Così ad esempio l’Anemono apenninae-Fagetum sylvaticae è una associazione vegetale fisionomicamente caratterizzata dal faggio (Fagetum) differenziata da un suo tipico corteggio floristico nel quale si rinviene Anemone apennina, specie considerata caratteristica dell'associazione. Gruppi di associazioni similari per composizione floristica e per ecologia sono riuniti in raggruppamenti dette alleanze, che vanno intese come comunità vegetali più comprensive con un più largo significato ecologico, anch’esse caratterizzate da una tipica composizione floristica. Le alleanze vengono denominate con l'aggiunta del suffisso –ion: ad esempio, Oleo-Ceratonion è l'alleanza che riunisce le associazioni di macchia della fascia costiera con clima mediterraneo caldo e arido. Le alleanze affini sono riunite in ordini (suffisso -etalia) e questi in classi (suffisso -etea). La vegetazione forestale i aliana appartiene essenzialmente a due grandi classi di vegetazione: la classe Querco-Fagetea, che riunisce la vegetazione forestale mesofila a latifoglie decidue, e quella dei Quercetea ilicis, che inquadra la vegetazione termofila a dominanza di scleroille sempreverdi.
  151. La vegetazione non è statica ma dinamica e nel tempo si trasforma sia in risposta a fattori esterni (cambiamenti climatici, disturbi naturali o antropici), sia a fattori evolutivi interni alla comunità. Le fitocenosi forestali rappresentano, in genere, lo stadio terminale nel processo di evoluzione della vegetazione (serie dinamica) che partendo da fitocenosi con struttura semplificata come le comunità erbacee o quelle arbustive culmina con il raggiungimento dello stadio climax. Le formazioni climax sono in equilibrio dinamico con i fattori ecologici soprattutto di tipo climatico. In alcuni contesti ambientali condizionati da particolari fattori edafici (suoli idromorfi, suoli poco evoluti per la notevole acclività, ecc.) si inseriscono differenti formazioni forestali finali che hanno il significato di un climax edafico, come nel caso di boschi di ripa.
  152. La vegetazione della Calabria è abbastanza ben conosciuta (Gentile 1969, 1970, Brullo e Spampinato 1997, 2003, Brullo et al. 2001, Maiorca e Spampinato 1999, Maiorca et al. 2006, 2007, Spampinato 2009, Spampinato et al. 2007, 2008) e risulta articolata e diversificata in numerose fitocenosi, conseguenza della complessa orografia, delle notevoli diversità climatiche che determinano nella regione la contemporanea presenza del clima mediterraneo dal livello del mare fino a circa 1000 m e di quello temperato a quote più elevate. Nell’analisi della vegetazione sono considerate le grandi unità fisiografiche della regione, quali: fascia basale, fascia altocollinare e submontana, fascia montana e corsi d’acqua.
  153. Il concetto di habitat ha avuto diverse interpretazioni con l’evolversi delle ricerche e del pensiero scientifico. Attualmente viene inteso come sia il “luogo” dove una specie può vivere e riprodursi, sia le relazioni che intercorrono tra gli individui e la componente abiotica presente, caratterizzata da specifiche condizioni chimico-fisiche necessarie alla sopravvivenza di una specie (Musarella et al. 2020).
  154. Dalla Direttiva 92/43/CEE, detta semplicemente “Direttiva Habitat” (DH), sono individuati habitat la cui conservazione consen e di salvaguardare interi ecosistemi e, indirettamente, anche le popolazioni di specie vegetali e animali in essi presenti.
  155. La DH introduce, inoltre, una terminologia specifica, diversificata e ufficiale, valida nell’ambito dell’applicazione della Di ettiva stessa, che conferisce al termine “habitat” una connotazione oltre che di tipo descrittivo anche funzionale. Gli “habitat” sono intesi “zone terrestri o acquatiche che si distinguono grazie alle loro caratteristiche geografiche, abiotiche e biotiche, interamente naturali o seminaturali”. Nell’allegato I alla DH sono elencati gli “habitat d’interesse comunitario”, cioè habitat che nel territorio rischiano di scomparire dalla specifica area di distribuzione naturale o che presentano una riduzione della superficie occupata a causa di fattori esterni e che, pertanto, sono in regressione, o ancora, sono habitat che costituiscono esempi notevoli di caratteristiche tipiche di una o più delle nove regioni biogeografiche dell’Unione Europea: Atlantica, Con inentale, Alpina, Mediterranea, Boreale, Macaronesica, Pannonica, Steppica e regione del Mar Nero.
  156. Tra questi la DH individua gli “habitat prioritari”, habitat naturali d’interesse comunitario che rischiano di scomparire nel erritorio europeo e per la cui conservazione la Comunità ha una responsabilità particolare a causa dell’importanza della parte della loro area di distribuzione naturale compresa nel territorio europeo. Tali tipi di habitat sono definiti prioritari per favorire la rapida attuazione delle misure volte a garantirne la conservazione e sono contrassegnati da un asterisco (*).
  157. L’individuazione degli habitat avviene prevalentemente con riferimento alla vegetazione e si basa sulla composizione in specie, sulla struttura e sui processi delle comunità vegetali. La metodologia di analisi della vegetazione è quella fitosociologica, con riferimento alla sintassonomia delle cenosi individuate. Tuttavia, la vegetazione non rappresenta sempre l’unica discrimina te per l’individuazione di un habitat. Infatti, alcune tipologie sono identificate sulla base della loro componente strutturale derivata da altri fattori quali la natura del substrato, caratteristiche topografiche e/o geomorfologiche. Ne sono alcuni esempi gli habitat delle rupi calcaree, rupi silicee, ghiaioni termofili, grotte, corsi d’acqua, ghiacciai, estuari.
  158. Per ogni habitat così definito è possibile individuare una struttura e una funzionalità la cui qualità e mantenimento deve essere garantito. Nel caso di habitat definiti su base vegetazionale (ad esempio macchie, formazioni forestali, praterie) la struttura è determinata dalle caratteristiche fisionomico-strutturali delle fitocenosi e ai fini della qualità dell’habitat sono indicatori importanti la ricchezza floristica, il numero degli strati, la superficie occupata, le specie dominanti e i rapporti tra forme biologiche. Per gli habitat non caratterizzati dalla vegetazione, sono fondamentali informazioni sulle componenti abiotiche come le caratteristiche dell’acqua e le variazioni nel regime idrico per gli habitat palustri e di torbiera o le caratteristiche delle componenti geomorfologiche nel caso degli habitat di grotta ad esempio.
  159. La funzionalità di un habitat può essere identificata con le funzioni e i servizi ecosistemici che esso è in grado di fornire e riguarda numerosi processi (evapotraspirazione, formazione di suolo, reti trofiche, ad esempio), tra cui quelli responsabili del mantenimento della biodiversità. Così, un habitat funzionale offre condizioni ecologiche idonee ad ospitare numerose specie tipiche che partecipano alla struttura e alla diagnosi dell’habitat, specie rare e/o d’interesse conservazionistico (Cano Ortiz et al. 2015).
  160. Lo stato di conservazione di un habitat è il risultato della somma dei fattori che influiscono sull’habitat naturale e sulle specie tipiche che in esso si trovano. Fattori che possono alterare nel lungo periodo la sua area di ripartizione naturale, la sua struttura e le sue funzioni, nonché la sopravvivenza delle sue specie tipiche e di quelle d’interesse presenti. Lo stato di conservazione è valutato attraverso un’attività di previsione della sua evoluzione con l’individuazione ed intensità di quei fattori che possono avere influenza negativa, e che vengono distinti in pressioni e minacce per l’habitat, o influenza positiva dovuta a piani d’azione, misure di conservazione e altre disposizioni.
  161. L’articolo 1 della DH lettera e definisce lo “stato di conservazione” di un habitat naturale “soddisfacente” quando la sua area di ripartizione naturale e le superfici su cui si rinviene sono stabili o in estensione, la struttura e le funzioni specifiche necessarie al suo mantenimento a lungo termine esistono e possono continuare ad esistere in un futuro prevedibile e lo stato di conservazione delle specie tipiche è considerato soddisfacente ai sensi della lettera i.
  162. Il documento di riferimento scientifico che consente di identificare e definire gli habitat attraverso una descrizione delle caratteristiche e delle specie vegetali tipiche è il “Manuale di Interpretazione degli Habitat dell’Unione Europea - EUR 28”, che è stato aggiornato e meglio definito in riferimento alla realtà italiana dalla Società Botanica Italiana per conto del Ministe o dell’Ambiente delle Tutela del Territorio del Mare, “Manuale Italiano di Interpretazione degli habitat della Direttiva 92/43/CEE” (Biondi et al. 2009).
  163. Ciascun habitat è identificato da un codice Natura 2000 composto da quattro cifre e/o lettere costruito secondo un criterio ge archico. Il primo numero individua la macrocategoria (gruppi di habitat con caratteristiche simili): 1- Habitat costieri e vegetazione alofitica; 2 - Dune marittime e interne; 3 - Habitat d’acqua dolce; 4 - Lande e arbusteti temperati; 5 - Macchie e boscaglie di sclerofille (Matorral); 6 - Formazioni erbose naturali e seminaturali; 7 - Torbiere alte, torbiere basse e paludi basse; 8 - Habitat rocciosi e grotte; 9 – Foreste.
  164. I codici di classificazione degli habitat riportati nel “Manuale Italiano di Interpretazione degli habitat della Direttiva 92/3/CEE” comprendono, oltre al codice Natura 2000, anche il riferimento al sistema di classificazione europeo Corine Biotopes, attribuito nel 1991 nell’ambito del Progetto omonimo per l’identificazione e la descrizione dei biotopi di maggiore importanza pe la conservazione della natura nella Comunità Europea e i codici del sistema di classificazione del programma habitat-Eunis. Eunis è un sistema di classificazione gerarchica sottoposto a periodici aggiornamenti sviluppato dall’Agenzia Europea per l’Ambie te attraverso l’European Topic Centre Natura e Biodiversità, nel quale sono confluite le classificazioni degli habitat successive a quella del sistema Corine Biotopes.
  165. La fascia basale della Calabria include le strette pianure costiere e le aree basso collinari dal livello del mare fino a 200-00 m. Questa fascia di territorio è caratterizzata da un bioclima di tipo Mediterraneo pluvio stagionale oceanico con termotipo termomediterraneo e un ombrotipo secco o subumido. Presenta una maggiore ampiezza sul versante ionico, mentre su quello tirrenico la sua estensione è più limitata per la prossimità dei rilievi montuosi al mare. In questa fascia di territorio si localizzano molte aree urbane e varie infrastrutture che nel tempo hanno determinato un forte impatto sulla naturalità e sulla vegetazio e forestale. Le formazioni primarie, quali boschi e macchie di sclerofille, occupano superfici di limitata estensione, frammentata in piccoli lembi e gran parte del territorio è occupato da coltivi e da formazioni secondarie quali praterie steppiche.
  166. Si tratta di formazioni forestali a struttura alto arbustiva a dominanza di sclerofille sempreverdi. Sono formazioni a caratte e spiccatamente xerofilo della fascia termo-mediterranea dove assumono il significato di formazioni climax. Attualmente le formazioni di macchia appaiono degradate e frammentate in conseguenza di incendi, pascolo eccessivo, variazioni d’uso del suolo, che ne hanno determinato la sostituzione con praterie steppiche a graminacee cespitose. Nei lembi residuali di macchia si assiste spesso all’ingresso di specie alloctone invasive, come Ailanthus altissima o Acacia saligna, che contribuiscono alla perdita di diversità floristica e di originalità della vegetazione.
  167. La macchia mediterranea del territorio calabrese in massima parte è inquadrata nell’Oleo sylvestris-Ceratonion siliquae, allea za che riunisce la vegetazione arbustiva climatofila, forestale e preforestale, dei piani bioclimatici a termotipo termo e mesomediterraneo. La tipologia di macchia che si rinviene più frequentemente è quella a lentisco (Pistacia lentiscus) del Myrto communis-Pistacetum lentisci, cui si associano varie altre sclerofille sempreverdi quali mirto (Myrtus communis) e olivastro (Olea europaea subsp. oleaster) e numerose specie lianose, tra cui la rosa sempreverde (Rosa sempervirens), la clematide cirrosa (Clematis cirrhosa), la salsapariglia (Smilax aspera), l’asparago pungente (Asparagus acutifolius) ed il caprifoglio mediterraneo (Lonicera implexa), che contribuiscono a renderla fitta e intricata.
  168. Molto rara è invece la macchia alta a olivastro dell’habitat 9320: Foreste di Olea e Ceratonia, una formazione frammentata e localizzata, a causa degli incendi e del pascolo, e che è possibile riscontrare solo in lembi residuali.
  169. Su versanti acclivi con rocce affioranti ben soleggiate, si insedia la macchia a dominanza di euforbia arborea (Euphorbia dendroides), una delle poche specie decidue estive della macchia mediterranea che caratterizza l’habitat 5330: Arbusteti termo-mediterranei e pre-desertici. Tale habitat in Calabria è presente con tre sottotipi: 1) cenosi a dominanza di euforbia arborea (Euphorbia dendroides), sottotipo 32.22; 2) garighe dominate da tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus), sottotipo 32.23, la cui ampia distribuzione è conseguenza del ripetersi degli incendi; 3) cenosi con palma nana (Chamaerops humilis), sottotipo 32.24, presente esclusivamente nella zona di Capo Vaticano.
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  171. Macchia a euforbia arborea dell’habitat 5330 (Amendolea, RC)
  172. Nel sottotipo 32.22: Cenosi a dominanza di Euphorbia dendroides, si rinvengono insieme all’euforbia anche sclerofille sempreve di quali olivastro (Olea europaea subsp. oleaster), lentisco (Pistacia lentiscus), asparago bianco (Asparagus albus), il camedrio doppio (Teucrium flavum).
  173. Altre formazioni secondarie sono le garighe della classe Cisto-Micromerietea, fitocenosi con struttura basso arbustive ricche di varie specie aromatiche quali timo (Thymbra capitata), rosmarino (Salvia rosmarinus) e varie specie di cisti, tra cui cisto rosso (Cistus creticus subsp. eriocephalus), cisto di Montpellier (C. monspeliensis), cisto femmina (C. salviifolius).
  174. La macchia alta e densa, spesso impenetrabile, a dominanza di ginepri, ginepro coccolone (Juniperus macrocarpa) e ginepro turinato (Juniperus turbinata), caratterizza l’habitat 5210 “Matorral arborescenti di Juniperus spp.”. Si tratta di formazioni in cui il ginepro si associa ad altre sclerofille sempreverdi tra cui olivastro, ilatro comune (Phillyrea latifolia), lentisco (Pistacia lentiscus), salsapariglia (Smilax aspera), camedrio femmina (Teucrium fruticans), localizzate su substrati di natura calcarea o marnosa in aree acclivi e rocciose della fascia termomediterranea.
  175. Le foreste mediterranee hanno il loro sviluppo nella sovrastante fascia di territorio ma penetrano nella fascia basale limitatamente ai versanti più freschi. Su suoli profondi sono rappresentate da lembi residuali di querceti termofili di quercia virgiliana (Quercus virgiliana), quercia semi decidua cui si associano arbusti sclerofilli quali olivastro (Olea europaea subsp. oleaster), lentisco, ilatro comune (Phillyrea latifolia) e varie specie lianose come la rosa sempreverde (Rosa sempervirens) e la robbia selvatica (Rubia peregrina). I querceti termofili che rientrano nell’habitat di Direttiva 91AA*: Boschi orientali di quercia bianca, sono diffusi in tutta la regione in piccoli nuclei spesso degradati.
  176. Sui versanti acclivi e ombreggiati si rinvengono i boschi termofili di leccio (Quercus ilex) ricchi di varie specie sclerofille quali lentisco (Pistacia lentiscus), robbia selvatica (Rubia peregrina), asparago pungente (Asparagus acutifolius), salsapariglia (Smilax aspera), erica arborea (Erica arborea) che caratterizzano l’habitat “9340: Foreste di Quercus ilex e Quercus otundifolia”.
  177. Le leccete termofile, così come gli altri habitat forestali della fascia basale, hanno subito pesanti alterazioni soprattutto per le trasformazioni del territorio legate all’attività agricola e alla urbanizzazione, che hanno comportato una riduzione drastica delle superfici boscate e una sostituzione con formazioni secondarie quali le praterie steppiche.
  178. Le formazioni mediterranee a dominanza di pino d’Aleppo (Pinus halepensis) rientrano nell’habitat 9540: Pinete mediterranee di pini mesogeni endemici. Si tratta di comunità in genere con una struttura aperta, con strato dominante costituito dal pino d’Aleppo e strato arbustivo ricco di specie sclerofille sempreverdi tipiche della macchia mediterranea. Queste pinete sono spontanee nella Calabria nord-orientale e, in relazione al substrato, presentano una differente composizione in specie: su substrati di natura calcarea sono presenti formazioni di pineta con lentisco inquadrabili nel Pistacio lentisci-Pinetum halepensis, mentre su substrati di natura silicea al pino si associa l’erica arborea, e la cenosi è riconducibile all’Erico arboreae-Pinetum halepensis. Rientrano nell’habitat anche gli impianti artificiali stabilizzati che presentano una rinaturalizzazione negli elementi del corteggio floristico anche grazie all’azione del fuoco che favorisce la rinnovazione del pino d’Aleppo.
  179. I rimboschimenti litoranei di conifere, diffusi lungo tutte le coste basse della regione a dominanza di pini termofili mediter anei (Pinus halepensis, P. pinea, P. pinaster) sono riferiti all’habitat 2270*: Dune con foreste di Pinus pinea e/o Pinus pinaster. Si tratta di impianti artificiali in massima parte realizzati tra gli anni 50-70 del secolo scorso per proteggere le colture dell’entroterra dai venti marini che occupano il settore più interno e stabile del sistema dunale, a livello delle dune in passato occupate dalle formazioni del Crucianellion o dalle formazioni di macchia dei Pistacio-Rhamnetalia alaterni con ginepro coccolone (Juniperus macrocarpa), tracce di elementi della macchia sono occasionalmente presenti ma ostacolati dalla copertura dei pini.
  180. Le attività antropiche attraverso il pascolo e gli incendi rendono estremamente precaria la sopravvivenza delle formazioni forestali e favoriscono le comunità secondarie. Tra queste, le praterie steppiche dominate da graminacee cespitose resistenti agli incendi, sono favorite dal passaggio reiterato del fuoco e dal pascolo. In particolare le praterie steppiche a barboncino mediterraneo (Hyparrhenia hirta) sono localizzate sui substrati sabbiosi e sui suoli sciolti della fascia più strettamente costiera, formando un mosaico con i pratelli effimeri a fioritura primaverile ricchi di specie annuali dell’habitat 6220*: Percorsi subs eppici di graminacee e piante annue dei Thero-Brachypodietea.
  181. Sui substrati argillosi, spesso soggetti a forti erosioni che generano i calanchi, sono invece presenti le praterie steppiche a sparto (Lygeum spartum) cui si associano alcune specie tra cui il gramignone delle saline (Puccinellia festuciformis subsp. lagascana), la scorzonera trachisperma (Scorzonera hispanica subsp. neapolitana) e la scorzonera sbrindellata (Podospermum laciniatum), il poligono di Tenore (Polygonum tenorei), endemita di Calabria e Basilicata, o la broteroa (Cardopatium corymbosum), un cardo spinoso dai caratteristici capolini blu.
  182. La prateria steppica più diffusa dal livello del mare fino a circa 1000 m nel sud della regione è quella costituita dal tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus), prateria discontinua a cui, in relazione al disturbo e alla dinamica della vegetazione, si accompagnano camefite o arbusti sempreverdi della macchia mediterranea e delle garighe, e numerose specie annuali. Le comunità ad Ampelodesmos mauritanicus sono riferite all’habitat 5330: Arbusteti termo-mediterranei e pre-desertici e in particolare al sottotipo 32.23: Garighe dominate da Ampelodesmos mauritanicus.
  183. Molto diffusi sono inoltre i pascoli subnitrofili dell’Echio plantaginei-Galactition tomentosae, alleanza che comprende la vegetazione dei campi abbandonati, degli incolti e delle aree disturbate costantemente da pascolo e incendi, ricchi di varie specie sinatropiche, soprattutto annuali, quali avena barbata (Avena barbata), scarlina (Galactites tomentosus), grano villoso (Dasypyrum villosum), e varie specie del genere Bromus.
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  185. Calanchi con le praterie steppiche a sparto e frammenti della macchia a ginepro turbinato (Palizzi, RC)
  186. Questa fascia occupa una vasta area della regione tra 200-400 e 800-1000 m, arrivando in genere sotto gli altopiani posti into no ai 1000 m che caratterizzano i rilievi della Sila, delle Serre e dell’Aspromonte. Il bioclima è sempre di tipo Mediterraneo pluvio stagionale oceanico, ma più fresco e umido e sono rilevabili due termotipi: mesomediterrano che interessa le quote più basse fino a 600-700 m e quello supramediterraneo, le aree della fascia più elevata.
  187. Le formazioni forestali che caratterizzano il paesaggio di questa fascia di territorio sono i querceti mediterranei della classe Quercetea ilicis a dominanza di sclerofille sempreverdi o di querce caducifoglie termofile.
  188. Su suoli sabbiosi e acidi, provenienti in genere da rocce granitiche profondamente alterate, la sughera (Quercus suber) diven a la specie dominante e struttura le fitocenosi dell’Helleboro bocconei-Quercetum suberis, inquadrate nell’habitat 9330: Foreste di Quercus suber. Nello strato arboreo alla sughera si associano, con un ruolo subordinato, il leccio (Quercus ilex) e la quercia virgiliana (Quercus virgiliana). Lo strato arbustivo, in genere piuttosto denso è composto da citiso trifloro (Cytisus villosus), citiso di Montpellier (Genista monspessulana) ed erica arborea (Erica arborea). Nel ricco strato erbaceo è presente l’elleboro di Boccone (Helleborus viridis subsp. bocconei), specie endemica, nemorale, tipica di questo habitat in Calabria che caratterizza l’associazione della sughereta.
  189. I boschi di leccio sono diffusi su tutto il territorio regionale, soprattutto nella fascia collinare e submontana tirrenica, dove s’insediano anche sui versanti più acclivi. Il leccio ha una ampia valenza ecologica e struttura diverse associazioni vegetali, da quelle termofile prima trattate con un ricco contingente di sclerofille sempreverdi, a quelle submontane del Teucrio siculi-Quercetum ilicis con un corteggio di specie mesofile, che prendono talora contatto diretto con le faggete della fascia montana grazie alla notevole oceanicità del clima; tutte le comunità rientrano nell’habitat 9340: Foreste di Quercus ilex e Quercus otundifolia. Le leccete sono in genere governate a ceduo e utilizzate prevalentemente per la produzione di legna da ardere e carbone, anche se di recente il legname viene conferito alle centrali a biomasse. In conseguenza del tipo di governo, le leccete si presentano molto fitte e piuttosto povere floristicamente. Al leccio si associano altre specie arboree tra cui l’orniello (F axinus ornus subsp. ornus), e un ricco gruppo di arbusti sempreverdi sclerofilli come l’ilatro comune (Phillyrea latifolia). Sui versanti più freschi e umidi, al leccio si associano diverse specie di caducifoglie mesofile, tra cui il carpino nero (Ostrya carpinifolia), e alcune specie di acero. Una particolare lecceta mesofila è quella mista di leccio e farnetto (Quercus frainetto) localizzata sui versanti ionici di Aspromonte e Serre.
  190. L’avvio dei processi di degradazione legati all’azione combinata del fuoco e del pascolo comporta la sostituzione della lecceta con formazioni di macchia secondaria a Erica arborea che si rinviene su vaste superfici. Nelle zone sistematicamente percorse dal fuoco, sono diffusi i cespuglieti a ginestra odorosa (Spartium junceum) e altre Fabaceae arbustive e le praterie steppiche a tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus).
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  192. Bosco misto di leccio e farnetto (Rudina, Aspromonte)
  193. Nella pratica forestale si usa il termine comprensivo di roverella per indicare le querce del gruppo di Quercus pubescens s.l.: in questo lavoro, in accordo con Pignatti (2017b), sono distinte ai fini delle tipologie forestali due specie Q. virgiliana e Q. congesta.
  194. Le formazioni di querce caducifoglie della fascia collinare dominate dalla quercia virgiliana (Quercus virgiliana) a cui possono associarsi orniello (Fraxinus ornus) e sorbo domestico (Sorbus domestica), caratterizzano l’habitat 91AA*: Boschi orientali di quercia bianca. A questo habitat sono ascrivibili anche i boschi a dominanza di quercia congesta (Q. congesta) localizzati in stazioni submontane e montane, in genere poco acclivi, tra 800 e 1100 m, su substrati costituiti da depositi sabbioso-ciottolosi, e talora da filladi, scisti, gneiss. Alla Q. congesta si accompagnano il castagno (Castanea sativa) e, più sporadicamen e, l’acero napoletano (Acer neapolitanum) e il carpino nero (Ostrya carpinifolia). Nello strato arbustivo si rinvengono citiso trifloro (Cytisus villosus) ed erica arborea.
  195. Si tratta di formazioni che sono state ampiamente sostituite dalle colture e dagli impianti quali castagneti, per cui si rinve gono solamente pochi lembi o individui sparsi nel paesaggio agrario e periurbano. Le particolari caratteristiche bioclimatiche della regione rendono frammentaria la presenza dei querceti decidui nelle zone più acclivi del versante tirrenico, quali Aspromonte e Serre, dove possono essere anche assenti. Al contrario sulla Catena costiera, sul Pollino e sulla Sila questi querceti sono ben rappresentati anche sui versanti tirrenici.
  196. Le cerrete, diffuse tra 800 e 1400 m, caratterizzano soprattutto i paesaggi della Sila e della Catena Costiera. Queste formazioni sono localizzate nella fascia bioclimatica supramediterranea e prediligono suoli di natura argillosa, fertili e profondi, tendenzialmente acidi, collocandosi a quote superiori rispetto agli altri tipi di querceti caducifogli. Al cerro (Quercus cerris) si associano altre specie quali, acero campestre (Acer campestre), acero ottuso (Acer obtusatum), castagno (Castanea sativa), agrifoglio (Ilex aquifolium), carpino nero (Ostrya carpinifolia), che rientrano nell’habitat 91M0: Foreste Pannonico-Balcaniche di cerro e rovere.
  197. I boschi a dominanza di farnetto (Quercus frainetto) del Cytiso-Quercetum frainetto sono distribuiti sui versanti ionici di tutta la regione, dal Pollino all’Aspromonte, tra 600-800 e 1100-1200 m. Si tratta di formazioni talora vetuste frequentemente avversate dal pascolo e dagli incendi e per questo spesso frammentate e degradate. Come le cerrete, rientrano nell’habitat 91M0: Foreste Pannonico-Balcaniche di cerro e rovere.
  198. Il castagno (Castanea sativa), sebbene sia ritenuta una specie autoctona, non è mai specie dominante le formazioni forestali aturali. In Calabria è coltivato da tempi antichissimi su vaste superfici per la produzione di legno e frutti, sostituendo i boschi di querce caducifoglie e in alcuni casi le faggete della fascia montana. I castagneti sono delle formazioni seminaturali che per la loro valenza storico-culturale oltre che paesaggistica ed ecologica sono considerate dalla DH come habitat di interesse comunitario 9260: Boschi di Castanea sativa. Attualmente, i castagneti sono utilizzati soprattutto per la produzione legnosa e gestiti come cedui semplici o matricinati. Sono in via di scomparsa i castagneti da frutto che hanno caratterizzato in passato vaste aree montane e sub-montane del territorio regionale.
  199. Nei valloni che solcano questa fascia di territorio, laddove si formano strette forre è possibile rinvenire boschi di latifoglie mesofile dell’habitat 9180*: Foreste di versanti, ghiaioni e valloni del Tilio-Acerion. Questo habitat ha una elevata biodiversità, con numerose specie arboree come acero napoletano (Acer neapolitanum), carpino nero (Ostrya carpinifolia), nocciolo (Corylus avellana), carpino bianco (Carpinus betulus) e, più raramente, tiglio nostrano (Tilia platyphyllos) e il tiglio selvatico (Tilia cordata), oltre a specie del genere Quercus, quali il leccio e la quercia congesta.
  200. Una formazione molto rara legata all’ambiente di forra, è quella della macchia alta in cui l’alloro (Laurus nobilis) arboreo o arborescente domina lo strato superiore della fitocenosi, riferibile all’habitat 5230* Matorral arborescenti di Laurus nobilis. Questo habitat forma un mosaico con altre tipologie di boschi di forra e ripisilve, localizzandosi dove le condizioni topograiche sono tali da mitigare l’aridità estiva e le gelate invernali, rendendo l’alloro competitivo nei confronti delle sclerofille sempreverdi e delle latifoglie decidue.
  201. Nel sud della regione, lungo i corsi d’acqua che solcano questi valloni, in prossimità di cascate o pareti stillicidiose si ri viene talora la rarissima felce bulbifera (Woodwardia radicans), specie relitta di una flora tropicale presente in Italia nel Terziario, che in seguito alle vicende climatiche del quaternario si è quasi del tutto estinta rimanendo accantonata in alcuni ambienti con microclima prettamente oceanico. La felce bulbifera si rinviene in differenti habitat umidi e ombrosi ma ha il suo optimum ecologico soprattutto sulle pareti stillicidiose dell’habitat 7220*: Sorgenti pietrificanti con formazione di tufi (Cratoneurion), dove cresce su uno spesso strato di briofite gocciolante di acqua. È questo un habitat particolarmente vulnerabile, caratterizzato da comunità a prevalenza di briofite che si sviluppano in prossimità di sorgenti e pareti stillicidiose dove costituiscono delle comunità durevoli sensibili alle variazioni idriche stagionali.
  202. La fascia montana presenta un bioclima di tipo temperato privo di aridità estiva o con un breve periodo di aridità inferiore a due mesi, compensato da fenomeni di precipitazioni occulte. Le piogge sono superiori ai 1000 mm annui e la temperatura media annua è compresa tra 8 e 13 °C.
  203. La vegetazione forestale della fascia montana è rappresentata da boschi di latifoglie decidue invernali della classe Querco-Fagetea. Dominano i boschi di faggio (Fagus sylvatica), specie ad ampia distribuzione europea. Si tratta di faggete governate in genere a fustaia che occupano vaste superfici su un range altitudinale compreso tra 900-1000 e 1900-2000 m, ma che sul versante tirrenico si localizzano anche a quote più basse, fino a 500-600 m, in corrispondenza di strette vallate interessate da fenomeni di inversione termica. I boschi di faggio si rinvengono su tutti i sistemi montuosi della regione e possono essere distinti i faggete macroterme, localizzate nella fascia montana più calda e riferite all’habitat 9210*: Faggeti degli Appennini con Taxus e Ilex, e faggete microterme, distribuite nella fascia montana più fredda dell’habitat 9220*: Faggeti degli Appennini con Abies alba e faggete con Abies nebrodensis. In condizioni di marcata oceanicità, come si riscontra sui versanti tirrenici, la faggeta macroterma si caratterizza per la presenza abbondante di agrifoglio (Ilex aquifolium); viceversa, l’agrifoglio è assente o sporadico in condizione di attenuati caratteri di oceanicità ed è invece ben rappresentato il caglio peloso (Galium rotundifolium subsp. hirsutum).
  204. Si tratta di boschi di faggio con agrifoglio e abete bianco (Abies alba subsp. apennina) cui si accompagna un ricco contingen e di specie nemorali tra cui anemone (Anemone apennina), Dafne laurella (Daphne laureola), geranio striato (Geranium versicolor) e diverse specie del genere Galium.
  205. /
  206. Bosco misto di faggio e abete (Aspromonte)
  207. Nelle faggete macroterme dell’Anemono apenninae-Fagetum sylvaticae è possibile riscontrare fitti popolamenti di agrifoglio (Ilex aquifolium) con individui che divengono particolarmente abbondanti nelle aree con maggiore oceanicità del clima. Si tratta di formazioni relittuali, comunità alto-arbustive o arborescenti a netta dominanza di agrifoglio, talora associate al tasso (Taxus baccata), riferibili all’habitat 9380- Foreste di Ilex aquifolium. Partecipano alla fitocenosi oltre l’agrifoglio, anche il faggio, l’edera (Hedera helix), il biancospino comune (Crataegus monogyna), il rovo irto (Rubus hirtus), la mazza d’oro boschiva (Lysimachia nemorum) e geranio striato.
  208. La faggeta microterma, contraddistinta dalla campanula a calice peloso (Campanula trichocalycina) è distribuita dai 1500-1600 m di quota fino a quasi 2000 m; qui il faggio, si trova al suo limite altitudinale superiore e assume un portamento arbustivo. ⤀
  209. Nei vari tipi di faggeta, il faggio tende a costituire dei popolamenti puri, anche se talora si associa con l’abete bianco nella sua varietà meridionale (Abies alba subsp. apennina), che ha in genere un ruolo subordinato.
  210. Le faggete sono spesso attraversate da piccoli corsi d’acqua, con acque permanenti, alimentate da sorgenti e ben ossigenate, dove si localizzano fitocenosi erbacee caratterizzate da una flora igrofila nemorale molto specializzata, ricca di specie endemiche, quali lereschia (Cryptotaenia thomasii = Lereschia thomasii), il cavolaccio calabrese (Adenostyles alpina subsp. macrocephala), e la soldanella calabrese (Soldanella calabrella). Quest’ultima specie, strettamente endemica della regione, in un recente sondaggio è stata scelta come simbolo della flora calabrese.
  211. Sugli altopiani che caratterizzano Sila, Serre e Aspromonte i boschi di faggio sono stati spesso eliminati e sostituiti da col ure di cereali o patate, ma anche da rimboschimenti di pino laricio od ontano napoletano (Alnus cordata). L’abbandono delle colture determina la formazione di lande a felce aquilina (Pteridium aquilinum) e successivamente di formazioni arbustive a ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius), che forma fitti cespuglieti: il reiterarsi di incendi impedisce la progressione della serie dinamica verso la faggeta.
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  213. Faggete dell’habitat 9210 (Bosco di Stilo)
  214. La rovere meridionale (Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica), una sottospecie di rovere endemica delle montagne mediterranee di Calabria, Basilicata e Sicilia (Brullo et al. 2001) , si riscontra negli espluvi e sui dossi della fascia montana, talora con individui plurisecolari, isolati o in piccoli nuclei riferiti all’associazione Aristolochio luteae-Quercetum austrotyrrhenicae. Queste formazioni rientrano assieme alle cerrete e ai boschi di farnetto nell’habitat 91M0: Foreste Pannonico-Balcaniche di cerro e rovere.
  215. L’abete bianco appenninico è spesso associato al faggio e diventa dominante solo su limitate aree, tra 1500-1700 m di quota, su suoli rocciosi poco evoluti, dove dà luogo a formazioni più o meno pure, e in genere diradate, tipiche dell’habitat 9510*: Foreste sud-appenniniche di Abies alba.
  216. Questo habitat prioritario di interesse comunitario è esclusivo dell’Appennino meridionale dove l’abete si è rifugiato durante le glaciazioni. Nel Bosco Archiforo è presente uno degli esempi più significativi di abetina. Nelle abetine più dense è presente un corteggio di specie nemorali tra cui la monotropa (Monotropa hypopitys), una specie sapro-micotrofica priva di clorofilla tipica dei boschi di conifere dei territori freddi e temperato-freddi dell'Eurasia. Nelle stazioni cacuminali e di cresta ventose le abetine assumono una struttura più diradata e sono caratterizzate nello strato arbustivo dal ginepro emisferico (Juniperus communis subsp. hemisphaerica).
  217. Nella fascia montana, tra 1000 e 1500-1400 m, limitatamente alle superfici più acclivi, soleggiate, su suoli poco evoluti, le aggete sono sostituite dalle pinete a pino laricio (Pinus nigra subsp. calabrica = P. laricio), specie endemica dei rilievi di natura cristallina della Calabria (Sila e Aspromonte) e della Sicilia (Etna). Il pino laricio calabrese struttura pinete naturali tipiche dell’habitat 9530*: Pinete (sub)mediterranee di pini neri endemici, sull’altopiano della Sila e sui versati ionici del massiccio aspromontano. Altrove, nella fascia montana, è ampiamente utilizzato per rimboschimenti. Il Bosco di Fallistro, nella Sila Grande, presenta una piccola foresta di pino laricio che ospita un gruppo di 35 individui di pino vetusti con età compresa tra 350 e 400 anni, diametro fino a 190 cm e che raggiungono oltre i 43 m di altezza. La monumentalità di questi alberi conferisce loro l’appellativo di “Giganti di Fallistro”.
  218. Le pinete di pino laricio possono presentarsi pure e costituire tratti di foresta molto matura, oppure misti al faggio o cerro, rappresentando in questo caso degli stadi della serie dinamica del bosco di faggio.
  219. Le pinete di pino loricato (Pinus heldreichii subsp. leucodermis) dell’habitat 95A0: Pinete oromediteranee di altitudine, sono invece esclusive del Pollino e dei rilievi attigui dei Monti di Orsomarso. Il pino loricato in Italia è presente unicamente in questo territorio, e al di là dell’Adriatico, sulle montagne dei Balcani in Albania e Montenegro. Le pinete di pino loricato localizzate a quote più elevate, tra 1800 e 2200 m sulle pendici rupestri di natura calcarea o dolomitica con suoli poco evoluti, presentano una struttura aperta con individui di pino distanziati e denso strato arbustivo costituito da ginepro alpino (Juniperus communis subsp. nana). Si tratta di una formazione climax della fascia altomontana dinamicamente collegata ai cespuglieti a ginepro alpino e alle praterie di altitudine a sesleria dei macereti (Sesleria nitida). A quote più basse, come nella Valle del Fiume Argentino, il pino loricato vegeta su versanti acclivi, rupestri, all’interno della fascia della faggeta, tra 1000 e 1500 m, costituendo i consorzi meglio conservati dell’Appennino meridionale. Qui si associa con l’orniello, carpino nero e più sporadicamente con il faggio. Lo strato arbustivo è caratterizzato tra l’altro dalla presenza del sorbo greco (Sorbus graeca). Questa tipologia di pineta rappresenta un particolare climax edafico, legato a condizioni che impediscono l’evoluzione del suolo, quale la notevole acclività (Maiorca e Spampinato, 1999).
  220. /
  221. Pinete di pino laricio dell’habitat 9530 (Contrada Menta, Aspromonte)
  222. Lungo i corsi d’acqua è presente una vegetazione molto specializzata, esclusiva di questi ambienti che si distribuisce in relazione alla disponibilità idrica e il disturbo arrecato alle piene (Brullo e Spampinato 1997).
  223. I tratti con acque perenni sono fiancheggiati dalle ripisilve a ontano nero (Alnus glutinosa) al quale talora si associano l’ontano napoletano (Alnus cordata) e il frassino ossifillo (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa). Sono note diverse fitocenosi con ontano nero distribuite in relazione alla fascia altitudinale e alla natura delle alluvioni che rientrano nell’habitat 91E0*: Foreste alluvionali di Alnus glutinosa e Fraxinus excelsior (Alno-Padion, Alnion incanae, Salicion albae). Sugli altopiani, i boschi dell’Euphorbio corallioidis-Alnetum glutinosae formano una foresta a galleria che richiudendosi sopra il corso d’acqua favorisce una costante ombreggiatura che consente, a diretto contatto dell’acqua, la presenza di peculiari fitocenosi igrofile nemorali e sciafile che ospitano specie di grande interesse fitogeografico tra cui l’elefantina (Rhynchocorys elephas), l’era milza dubbia (Chrysosplenium dubium), e la lereschia (Cryptotaenia thomasii = Lereschia thomasii). Nelle valli strette e ombrose si localizzano i boschi del Polysticho-Alnetum glutinosae, caratterizzati da un ricco corteggio di felci igrofile e nemorali che accompagnano l’ontano nero. Nei tratti poco acclivi terminali sono invece presenti le ontanete dell’Angelico sylvestris-Alnetum glutinosae, legati a substrati limoso-sabbiosi.
  224. Lungo il tratto medio e montano della maggior parte dei corsi d’acqua della regione, nella parte centrale e in condizioni di elevata luminosità, acque limpide, fresche e poco profonde, si insediano comunità erbacee perenni paucispecifiche costituite da macrofite con foglie sommerse e apparati fiorali generalmente emersi dell’habitat 3260: Fiumi delle pianure e montani con vegetazione del Ranunculion fluitantis e Callitricho-Batrachion. Tra le specie tipiche dell’habitat sono presenti, gamberaja maggiore (Callitriche stagnalis), crescione d’acqua (Nasturtium officinale), ranuncolo a foglie capillari (Ranunculus trichophyllus), diverse specie di brasca (Potamogeton sp. pl.), veronica acquatica (Veronica anagallis-aquatica) e la zannichellia (Zannichellia palustris).
  225. /
  226. Boschi di ontano nero dell’habitat 91E0* (Sila Grande)
  227. Al margine del corso d’acqua si sviluppano comunità di alte erbe a foglie grandi (megaforbie) igrofile e nitrofile dell’habitat 6430: Bordure planiziali, montane e alpine di megaforbie idrofile, e sulle rive fangose, periodicamente inondate e ricche di nitrati è possibile riscontrare in maniera discontinua una vegetazione annuale nitrofila pioniera riferibile all’habitat 3270: Fiumi con argini melmosi con vegetazione del Chenopodion rubri p.p e Bidention p.p.
  228. Nei tratti in cui la valle è più ampia e la golena fluviale si allarga, le ontanete lasciano il posto ai saliceti a salice bia co (Salix alba) e salice calabrese (Salix brutia) e al pioppo nero (Populus nigra) dell’habitat 92A0: Foreste a galleria di Salix alba e Populus alba. Si tratta di boscaglie a struttura alto-arbustiva o arborea molto densa, a netta prevalenza del salice bianco, cui si associano, il salice calabrese e il salice rosso (Salix purpurea), che si insediano lungo i tratti prossimi al corso del fiume interessati dalle esondazioni. Nei tratti più distanti dalla sponda, dove la morfologia lo consente, il salice bianco assume portamento arboreo e la formazione si arricchisce di pioppo nero.
  229. Nel tratto medio e finale i corsi d’acqua del versante ionico con regime torrentizio assumono la conformazione di “fiumare”, caratterizzati da ampi greti ciottolosi, in genere più o meno completamente asciutti in estate. La presenza di questo particolare fisionomia del corso d’acqua è da collegare al regime delle precipitazioni, concentrate in pochi eventi temporaleschi, soprattutto autunnali, e alla natura dei substrati geologici, rappresentati in genere da metamorfiti particolarmente alterate e friabili, facilmente erodibili per le elevate pendenze e per le azioni di disboscamento. I fenomeni di erosione da parte delle acque meteoriche determinano un notevole trasporto dei materiali solidi che sono depositati nel tratto medio e terminale del corso d’acqua man mano che l’energia della corrente diminuisce. Si formano così le ampie distese di ghiaia che caratterizzano le fiumare.
  230. La vegetazione ripariale è caratterizzata dalle boscaglie piuttosto dense della classe Nerio-Tamaricetea a oleandro (Nerium oleander), tamerici (Tamarix africana, T. gallica) e agnocasto (Vitex agnus-castus) dell’habitat 92D0: Gallerie e forteti ripari meridionali (Nerio-Tamaricetea e Securinegion tinctoriae). Si tratta di boscaglie che si insediano su suoli a tessitura fine, inondati solo occasionalmente durante le piene. I grossi arbusti che caratterizzano questo habitat hanno adattamenti morfologici e fisiologici per resistere all’aridità estiva e potenti apparati radicali che sono in grado di utilizzare l’acqua della falda presente in profondità nel greto della fiumara.
  231. Sui terrazzi non influenzati della falda freatica, dove le alluvioni sono ringiovanite periodicamente dagli eventi di piena, si localizza la vegetazione basso arbustiva, pioniera e xerofila tipica delle ghiaie dell’habitat 3250: Fiumi mediterranei a flusso permanente con Glaucium flavum. Si tratta di comunità dominata da piccoli cespugli con habitus pulvinato, caratterizzata dal perpetuino italiano (Helichrysum italicum subsp. italicum), un’asteracea con ottimi sistemi di dispersione in grado di colonizzare rapidamente le ghiaie e, più in generale, i substrati sciolti, rilasciati dalle piene in inverno e asciutti in estate. A questa specie si associano varie altre camefite ed emicripotifite xerofile come artemisia variabile (Artemisia campestris subsp. variabilis), inula viscosa (Dittrichia viscosa), scrofularia comune (Scrophularia canina).
  232. Sui terrazzi più bassi della fiumara, percorsi dalle acque durante il periodo invernale e asciutti in estate, ma permanendo una certa umidità delle alluvioni, si insediano le cenosi erbacee pioniere di greto a inula viscosa e lappola (Xanthium italicum) dell’habitat 3270: Fiumi con argini melmosi con vegetazione del Chenopodion rubri p.p e Bidention p.p.
  233. Il permanere di una minima portata estiva superficiale modifica sostanzialmente il paesaggio delle fiumare per la possibilità di insediarsi di vari habitat igrofili, che si distribuiscono in relazione al perdurare della disponibilità idrica e al disturbo arrecato dalle piene in inverno. Nei tratti con portata residuale si localizzano le formazioni igrofile di tipo erbaceo a graminacee rizomatose, quali Paspalum distichum e Polypogon viridis e agrostide stolonifera (Agrostis stolonifera), dell’habitat 3290: Fiumi mediterranei a flusso intermittente con il Paspalo-Agrostidion, s’insediano nei tratti costantemente rimaneggiati dalle piene che mantengono una portata residuale in estate. Nei tratti con alluvioni meno rimaneggiate si insediamo le boscaglie di salici e pioppi caratterizzati da salice bianco (Salix alba), salice rosso (Salix purpurea) e pioppo nero (Populus nigra) dell’habitat 3280: Fiumi mediterranei a flusso permanente con vegetazione dell’alleanza Paspalo-Agrostidion e con filari ripari di Salix sp. pl. e Populus alba. Gli alberi igrofili formano filari irregolari lungo le zone di deflusso delle acque. Se il trat o di alveo con una portata minima estiva non è interessato da piene distruttive, si formano i boschi igrofili a galleria di pioppi e salici dell’habitat 92A0: Foreste a galleria di Salix alba e Populus alba. Questo habitat ha una maggiore complessità strutturale rispetto al precedente e presenta un ricco contingente di specie igrofile tra cui Carex pendula, Arum italicum e Sambucus nigra.
  234. Un particolare tipo di bosco ripariale è quello a platano orientale (Platanus orientalis) con salici e pioppi dell’habitat 92C0: Foreste di Platanus orientalis e Liquidambar orientalis (Platanion orientalis). Il platano è una specie a distribuzione mediterraneo-orientale che in Italia si trova al limite occidentale del suo areale. In Italia la sua distribuzione interessa Sicilia, Campania e l’area ionica centrale della Calabria lungo il fiume Uria, nella Presila catanzarese (Caruso et al. 2008).
  235. I boschi planiziali alluvionali sono stati eliminati dalle pianure calabresi (Maiorca et al. 2007), solo presso le foci del C ati e del Neto sono presenti lembi relitti di quali i pioppeti a pioppo bianco (Populus alba), e saliceti a Salix cinerea, Salix alba e Salix brutia, quest’ultima specie endemica calabrese, dell’habitat 92A0 – Foreste a galleria di Salix alba e Populus alba.
  236. Solo nel retroduna presso la foce del fiume Neto è ancora possibile osservare un rarissimo esempio, unico a scala regionale, di querceto planiziale a farnia calabrese (Quercus robur subsp. brutia), frassino ossifillo o meridionale (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa) e olmo campestre (Ulmus minor) dell’habitat 91F0: Foreste miste riparie di grandi fiumi a Quercus robur, Ulmus laevis e Ulmus minor, Fraxinus excelsior o Fraxinus angustifolia (Ulmenion minoris). Le continue manomissioni, le trasformazioni agricole e gli incendi hanno ridotto la superficie occupata da questo pregevole habitat che rischia di scomparire nell’immediato futuro (Spampinato et al. 2007).
  237. /
  238. Vegetazione delle ghiaie a perpetuino italico dell’habitat 3250 (Fiumara Laverde)
  239. La superficie territoriale della Calabria è di 1508055 ettari.
  240. Non essendo disponibili dati aggiornati si usano quelli riferiti alle categorie inventariali nazionali del INFC 1985 (Gasparini et al. 2011). La superficie forestale totale è di 612 931 ettari così ripartita:
  241. Le categorie forestali più rappresentative sono: le faggete (12.6%), le pinete di pino nero, laricio e loricato (12.2%), i castagneti (11.3%), i querceti a rovere, roverella e farnia (7.6%), i querceti di cerro e farnetto (7%), le leccete (7.1%), gli altri boschi di caducifoglie (5.9%). A queste si aggiungono le categorie meno rappresentative: altri boschi di latifoglie sempreverdi (3.3%), pinete di pini mediterranei (2.5%), boschi igrofili (1.4%) altri boschi di conifere puri e misti (1.3%), ostrieti e carpineti (0.9%), boschi di abete bianco (0.79%) e sugherete (0.79%). Le peculiarità del patrimonio forestale regionale sono le pinete di pino loricato, che interessano solo lo 0.3% della superficie forestale territoriale, ma rappresentano i1 100% della superficie su base nazionale. Inoltre, i boschi di ontano napoletano, di farnetto e di ontano nero, pur interessando una modesta superficie forestale, variabile per ognuno tra 1'1% e il 2% su scala nazionale rappresentano rispettivamente il 49.5%, il 42.1% e il 20% della superficie.
  242. Anche per la filiera del legno non sono disponibili dati aggiornati per cui sono stati usati quelli di Proto et al. (2011). La Calabria è una importante regione forestale con grandi potenzialità legate alla filiera del legno. La produzione annuale viene stimata in 1.5 milioni di metri cubi, di cui il 55% riguardano le biomasse, il 20% la legna da ardere, il 10% i prodotti di paleria agricola e per ingegneria naturalistica, l’8% il comparto industriale dei segati e tranciati; altre percentuali residue (%) potrebbero essere destinate alla produzione di pannelli lamellari e per la produzione di carbone vegetale.
  243. Per quanto riguarda le biomasse forestali calabresi ENEA (2010) fornisce questi dati: biomassa attuale non prelevata 248226 m, biomassa potenziale per energia 522786 m3.
  244. In Calabria sono stati realizzati 5 grandi impianti di produzione di energia elettrica con biomasse forestali e agricole. La potenzialità di assorbimento di tali impianti, osserva il Piano di forestazione di Azienda Calabria Verde (2020), è di 2.25 Mt, un volume ben superiore alle attuali condizioni dell'offerta regionale. Mentre ancora non decollano gli impianti a piccola scala.
  245. Questo studio sulle tipologie forestali della Calabria è stato impostato secondo il seguente schema gerarchico:
  246. Categoria: è l’unità fisionomica dove vengono raggruppati i tipi che hanno in comune la specie dominante (faggete, abetine, ecc).
  247. Sottocategorie: sono utilizzate per differenziare la categoria in base all'orizzonte altimetrico.
  248. Tipo: è l'unità tipologica di base, caratterizzata da un elevato grado di omogeneità sotto l'aspetto floristico, ecologico ed eventualmente selvicolturale. È individuabile dal punto di vista floristico dalla presenza delle specie indicatrici. Il tipo viene denominato impiegando termini in uso nella pratica corrente. Contiene nella sua definizione qualche caratteristica ecologica, geografica e talvolta anche floristica importante per permetterne un più agevole riconoscimento. L'aggettivo tipico indica una situazione caratteristica del tipo considerato.
  249. Sottotipo: viene distinto dal tipo in relazione a variazioni ecologiche e vegetazionali del sottobosco, si usano i nomi di specie erbacee particolarmente abbondanti e caratteristiche dell'unità precedute dalla preposizione a.
  250. Variante: viene distinta dal tipo e sottotipo quando si notano cambiamenti nella composizione dello strato arboreo:
  251. la Variante con: indica la presenza di una specie secondaria compresa fra il 25 ed il 50%.
  252. la Variante a: indica la presenza di una specie secondaria uguale o superiore al 75%.
  253. Tenendo conto della vegetazione naturale potenziale attuale dell’Habitat di riferimento, vengono individuate per ogni unità tipologica le specie strutturali che hanno funzione di “specie edificatrici”, quelle che una volta messe a dimora consentiranno il ritorno delle altre specie.
  254. Per ogni unità tipologica si riporta una sintesi delle dinamiche vegetazionali e della fase finale per comprenderne lo stato a tuale di degrado. Le osservazioni sulle dinamiche evolutive fanno riferimento alle serie di vegetazione per la Calabria (Berna do et al. 2010) e riguardano il Tipo e non le Varianti. Questo aspetto è particolarmente significativo per la definizione degli indirizzi di gestione.
  255. Per ogni tipologia si descrivono:
  256. Inquadramento generale del tipo
  257. Localizzazione
  258. È la delimitazione geografica a livello regionale con riferimenti principali alle quote, alla geomorfologia e al substrato.
  259. Caratterizzazione fisionomica, ecologica e fitosociologica
  260. Sono evidenziate le caratteristiche fisionomiche e fitosociologiche della tipologia tenendo conto degli studi sulla vegetazione svolti sul territorio regionale.
  261. Specie indicatrici
  262. Sono le specie proprie e caratteristiche di ciascun tipo, in quanto più frequenti, con un maggior grado di copertura e utili per un primo riconoscimento. Le specie indicatrici, riportate in neretto, sono quelle che danno la “struttura” alla tipologia. I nomi scientifici delle specie sono in accordo con Pignatti (2017a,b, 2018), Pignatti et al. (2019).
  263. Riferimenti ai sistemi di classificazione internazionali
  264. European Forest Types (Barbati et al. 2006, 2011, 2014)
  265. Eunis Habitat Classification 2017
  266. Corine Biotopes Classification 1991
  267. Habitat Natura 2000 (Dir.92/43/EEC) EUR 28 (Genovesi et al. 2014, Angelini et al. 2016)
  268. Forma di gestione
  269. Le indicazioni riportano una prassi che fa riferimento alla normativa pregressa antecedente a quella presente.
  270. Dinamiche evolutive e regressive
  271. La sintesi delle dinamiche vegetazionali e della fase finale è il presupposto per calibrare meglio la gestione della unità tipologica.
  272. Criteri di gestione forestale
  273. L’elemento innovativo rispetto ad altri studi di tipologia forestale, è quello di proporre criteri e tecniche colturali che si diversificano secondo obiettivi, condizioni e funzioni delle varie tipologie.
  274. Fatto salvo che lo scopo generale è quello di conseguire una gestione forestale “sostenibile” sul piano economico, ecologico e sociale, si affinano le tecniche di gestione in base alla funzione prevalente dei singoli popolamenti. Rimandando a un contesto territoriale più ampio, la funzionalità multipla delle foreste.
  275. Una gestione disarticolata e nello stesso tempo integrata che consenta di soddisfare le crescenti richieste da parte della società, di tutti i servizi ecosistemici delle foreste: produttivi, ecologici e sociali.
  276. Criteri conservazionistici
  277. La presenza e il mantenimento di una elevata diversità specifica come risulta nei boschi della Calabria è una delle condizioni necessarie per il buon funzionamento della foresta e risponde a uno dei criteri di gestione forestale “sostenibile” così come definiti dalla Conferenza di Helsinki (1993) (MCFE 1993).
  278. Per quanto riguarda i siti di interesse comunitario, le misure di conservazione già proposte (AA.VV. 2016) hanno lo scopo di garantire il mantenimento delle dinamiche delle popolazioni e degli equilibri ecosistemici, tali da assicurare, almeno nel medio periodo, uno stato di conservazione soddisfacente ad habitat e specie di interesse comunitario, di tenere conto delle esigenze economiche, sociali e culturali, nonché delle particolarità regionali e locali.
  279. Per quanto riguarda i boschi calabresi nella loro interezza, fatti salvi i piani di gestione approvati per i Siti di Importanza Comunitaria, merita aggiornare quanto già noto alla luce di nuove evidenze scientifiche e delle esigenze sociali che sono sorte in questi ultimi anni pur nel rispetto degli obiettivi generali di gestione. Ossia che la selvicoltura deve essere compatibile con la conservazione degli habitat di interesse comunitario e il mantenimento di una diversità ambientale, sia per quanto riguarda la composizione specifica che la complessità strutturale; e che deve inoltre garantire il rispetto delle dinamiche naturali della vegetazione forestale, contenendo l’invasione delle specie alloctone.
  280. I presupposti che stanno alla base di qualsiasi intervento selvicolturale che segua i criteri conservazionistici devono tenere conto di due aspetti:
  281. a) Aumento dello spazio verticale in cui si determinano gradienti di microclima che vengono occupati da specie e comunità vegetali e animali che aumentano il grado di complessità, la funzionalità e la produttività dell’intero sistema forestale. Cazzolla et al. (2017) hanno trovato una correlazione significativa tra la ricchezza di specie di piante vascolari e l’altezza media del piano delle chiome. La complessità strutturale influisce positivamente sulla biodiversità, resilienza e adattabilità delle fo este (Stiers et al. 2018). Burrascano et al. (2018) sono più cauti in quanto hanno osservato, nei boschi di faggio (cedui invecchiati) dell’Italia meridionale, una debole rispondenza tra ricchezza di specie erbacee e incremento della diversità della s ruttura verticale tra foreste “gestite” e “non più gestite”, attribuendolo al “breve periodo < 60-80 anni” trascorso dalle passate intense utilizzazioni.
  282. Quando gli obiettivi della conservazione sono prioritari, sul piano della gestione significa che occorre accelerare i processi di diversificazione strutturale, ad esempio con l’apertura di piccole buche. Una gestione che attui i criteri conservazionistci si rifà a modelli generali di selvicoltura “a copertura continua” (Hobi et al. 2015) e nello specifico ai tagli selettivi per piede d’albero o a gruppi (Willim et al. 2020).
  283. b) Allungamento del ciclo biologico e colturale, compatibile con la biologia delle singole specie e con la “sostenibilità” economica dell’intervento. Con il tempo, al pari dello spazio, aumenta la composizione specifica, la strutturazione, l’evoluzione del suolo (aspetto importante per il rifornimento idrico e degli elementi minerali alle piante) e la funzionalità del sistema forestale. Sul piano della gestione significa: l’allungamento del ciclo colturale delle fustaie, l’applicazione dei principi della “selvicoltura naturalistica” tesa a mimare i piccoli disturbi naturali; con questo termine si indica un grande contenitore che raggruppa proposte con sfumature diverse accomunate da interventi moderati, graduali e costanti per non alterare la composizione e la struttura, e mantenere la copertura del suolo eterogenea, avvalendosi della rinnovazione naturale per assicurare la perpetuità dei sistemi forestali (Larsen et al. 2022). Va da sé che l’aumento della provvigione e della lunghezza del ciclo coltu ale sono scelte proprie della proprietà pubblica. In maniera più appropriata al caso in esame, si dovrebbe parlare non tanto di “provvigione”, espressione legata a un concetto di sola produzione legnosa, quanto di “produttività biologica” (Giacomini 1964) che implica una produttività collegata a tutte le produttività del sistema.
  284. Tra i criteri conservazionistici di gestione rientrano: a) il rilascio del legno morto in piedi e a terra, quale elemento importante per la conservazione della biodiversità, e la restituzione al suolo dei minerali che via via vengono asportati dalle pia te e dalle acque di scorrimento; b) il rilascio di alberi grandi ad invecchiamento indefinito.
  285. Per quanto riguarda i cedui, soprattutto quelli in abbandono e invecchiati, è da favorire l’avviamento all’alto fusto, laddove le condizioni della stazione e del popolamento lo consentono, fatta eccezione per quelli di castagno. Infatti, come osservano Manetti et al. (2017) “il termine -avviamento ad alto fusto- non risulta corretto per i cedui di castagno anche se è in uso per l’aspetto fisionomico delle strutture derivate. La rinnovazione del soprassuolo sarà infatti assicurata principalmente dai ricacci delle ceppaie”.
  286. Sotto l’aspetto della pianificazione occorre tener conto che le dimensioni delle foreste, comprese tra 2 e 20 ettari, rapprese tano le soglie minime al di là delle quali si perde la funzionalità del sistema (Harris 1984), quindi bisogna considerare tutte quelle azioni per “ricollegare” gli spazi boscati frammentati.
  287. Sono in genere da evitare tutte quelle pratiche che incidono sulla biodiversità e provocano una perdita dell'anidride carbonica depositata nella biomassa e nel suolo. Così come l'uso di macchinari nei lavori di utilizzazione che causano effetti ambientali negativi come la compattazione e l’erosione del suolo.
  288. Nel caso delle aree protette si deve diversificare l’approccio di gestione in funzione della zonizzazione prevista dalla L.394/1991 e segg.
  289. Nelle Zone A di Riserva Integrale, dove sono vietati tutti gli interventi selvicolturali, si applicano criteri preservazionistici per fare in modo che i soprassuoli possano completare il loro ciclo silvogenetico.
  290. Nelle Zone B e nei Siti di Interesse Comunitario, il fine preminente è la conservazione della biodiversità rispetto alla produzione legnosa (AA.VV. 2016, Santopuoli et al. 2019). I punti chiave di riferimento per assicurare la diversità nelle foreste saranno quelli proposti da Emberger et al. (2019) e previsti dal Regolamento della Regione Calabria 2/2020 che dovranno essere seguiti in sede di martellata:
  291. - lasciare parte del legno morto di varie dimensioni sia in piedi che a terra ad esclusione delle zone dove vi sono rischi di incendi e di diffusione di agenti patogeni (art. 19 Reg. 2/2020);
  292. - conservare alberi, vecchi e deperienti, ad invecchiamento indefinito (art. 20 Reg. 2/2020) che presentano microhabitat (cavità e fessure nel tronco, rami morti di grandi dimensioni, epifite, polipori, ecc. (Kraus et al. 2016, Marziliano et al. 2021, Larsen et al. 2022) che favoriscono la presenza di una grande quantità di specie in quanto offrono zone di riparo, di riproduzione, di svernamento e di nutrizione. A tal riguardo si potranno:
  293. - scegliere gli alberi di scarso valore commerciale ma di più alto valore ecologico;
  294. - rilasciare alberi vivi di grandi dimensioni (con diametro > 80 cm) perché raccolgono più microhabitat e sono di maggiore valore estetico;
  295. - mantenere un buon rapporto tra ambienti aperti e chiusi per consentire la presenza di specie con esigenze ecologiche diverse;
  296. - conservare fasce boscate di 10 m dal bordo dei corsi e specchi d’acqua (art. 25 Reg. 2/2020).
  297. Il tasso di prelievo della massa legnosa sarà moderato (10-15% in volume) in modo da privilegiare gli interessi biocolturali. Per consentire una sostenibilità economica delle operazioni bisogna calibrare la superficie di taglio in modo da ottenere lotti di circa 1000 m3.
  298. Criteri selvicolturali
  299. Questi criteri si applicano alle “tipologie funzionali” cioè a quelle in grado di svolgere i processi vitali e di assicurare i servizi ecosistemici (in termini di produzione legnosa, protezione del suolo, capacità rigenerativa, fissazione dell’anidrite carbonica).
  300. Si applicano nelle Zone C e D dei Parchi e al di fuori delle aree protette.
  301. Per le fustaie il trattamento di riferimento è il “taglio colturale” secondo quanto previsto dal Regolamento 2/2020 (art. 40 comma 6), condotto con “modalità tali da assicurare la rinnovazione e la perpetuazione del bosco, senza comprometterne le potenzialità evolutive, favorendo la biodiversità e assicurando la conservazione del suolo”. Ciò nonostante, a causa della vacuità del termine “taglio colturale”, è opportuno aggiungere alcune specifiche operative. I punti cardine da rispettare saranno quelli: a) di assicurare una copertura continua; b) di favorire il bosco misto a prevalenza di latifoglie (laddove possibile) e la ri novazione naturale e di mantenere (laddove possibile) una maggiore articolazione strutturale del soprassuolo; c) nel conserva e la fertilità dei suoli e quindi i livelli della produttività legnosa; d) di migliorare la resistenza e la resilienza del sop assuolo nei confronti dei vari eventi disastrosi (tempeste, incendi, attacchi di funghi e insetti).
  302. Il prelievo legnoso è calcolato (dalla normativa regionale in vigore) in funzione della provvigione esistente in rapporto percentuale a quella minimale, ed è compreso tra il 10 e il 25%. Il prelievo legnoso è consentito solo se la provvigione presente è superiore del 20% rispetto a quella minimale. A titolo di riferimento si deve tener conto, in sede di martellata, che il prelievo deve riguardare gli alberi di valore commerciale senza per questo impoverire il popolamento sul piano biologico. In pratica il prelievo deve essere del 20-25% della massa legnosa esistente, valore di riferimento per il bosco di abete e faggio. Mentre per il pino la soglia massima può essere anche del 30%. Prelievi superiori al 30% della massa possono innescare processi irreversibili circa la funzionalità ecologica dei popolamenti almeno nel breve periodo. Il periodo di ritorno del taglio colturale è di almeno 10 anni.
  303. Va da sé che, per la corretta applicazione di questo sistema colturale, occorre il contributo dei progettisti, dei direttori dei lavori, delle imprese boschive e degli organi di controllo, per evitare abusi.
  304. I tradizionali “tagli a scelta” che affondano nella tradizione della selvicoltura calabrese, soprattutto privata, non possono essere più presi in considerazioni per non avallare procedure irrazionali e abusi: in particolare sono da evitare i “tagli a scelta commerciale” che si limitano al prelievo delle piante migliori senza eseguire alcuna colturalità del bosco.
  305. I “tagli successivi” che hanno dato buoni risultati nelle faggete per la produzione di legname di qualità, richiedono una pianificazione degli interventi sul lungo periodo che in questo momento non può essere garantito né nelle proprietà pubbliche, né tantomeno in quelle private.
  306. I “tagli a raso” nelle fustaie, di per sé esclusi, sono sempre giustificati nei boschi interessati da disturbi di natura biotica o abiotica.
  307. Il governo a ceduo è una opzione ineluttabile in presenza di esigenze economico-sociali. Per i boschi cedui oltre ai tagli a raso con rilascio di matricine, verrà favorito il ceduo composto nei boschi di querce caducifoglie. Merita una considerazione richiamare il caso dei cedui cosiddetti “invecchiati” o che hanno superato il turno minimo di ceduazione per i connessi rischi di contenziosi in materia di violazione della normativa paesaggistico-ambientale.
  308. Secondo l’art. 32 del Regolamento della Regione Calabria 2/2020:
  309. - È vietata la ceduazione dei boschi di cui al comma 1, che hanno superato l’età di 50 anni, ad esclusione degli eucalipti, della robinia, dei salici e del nocciolo.
  310. - Per i cedui posti in situazioni particolari, che hanno oltrepassato 2 volte il turno, fatti salvi gli interventi sui popolamenti di castagno, la valutazione sulla continuazione della forma di governo a ceduo o l’avviamento all’alto fusto è stabilito in base alle caratteristiche stazionali e delle specie, da valutare caso per caso previa autorizzazione del dipartimento competen e in materia di foreste e forestazione sulla base di idoneo progetto redatto da un dottore agronomo e forestale.
  311. - Nei popolamenti di castagno che non hanno oltrepassato l’età di 48 anni, pari al doppio del turno medio di 24 anni, si può eseguire la ceduazione.
  312. Sul piano biologico il castagno si caratterizza per “la longevità, l’elevata e quasi inesauribile capacità pollonifera delle ceppaie (il cui apparato radicale si ricostituisce a ogni ceduazione) (Manetti et al. 2017). Ciò consente di precisare che, nel caso dei cedui di castagno, va considerato “taglio colturale”, alla luce della normativa della Regione Calabria, la ceduazione fino all’età di 48 anni, ossia fino a 2t e che quindi non ci sono i presupposti tecnico-giuridici per la denuncia di illeciti da parte delle Autorità competenti.
  313. L’avviamento dei cedui alla fustaia è l’opzione che si pone per i boschi che hanno superato i 50 anni (con le dovute eccezioni): essa è consigliata nelle aree protette, ma è attuabile solo laddove lo consentono le condizioni biostrutturali del sistema suolo-soprassuolo. Nei soprassuoli transitori i tagli di rinnovazione, che si effettuano quando è stata superata la provvigione minimale, consistono in tagli colturali in modo da ottenere strutture diversificate.
  314. Criterio di restauro forestale
  315. Gli elementi innovativi contenuti in questo studio sulle tipologie forestali della Calabria consentono di rispondere alla sfida mondiale del restauro delle foreste degradate del XXI secolo. Del resto, in Calabria, lo stato di degrado del territorio è stato ampiamente documentato; ad esso ha fatto seguito una poderosa azione di rimboschimento per la difesa del suolo (Iovino e Nicolaci 2016), in parte vanificata dagli incendi, dal pascolo incontrollato e dalla mancanza di cure colturali. Azienda Calabria Verde (2020) affronta il tema dei boschi degradati impegnando molte delle risorse disponibili.
  316. Questi criteri si applicano alle “tipologie non più funzionali” ossia ai boschi che non sono più in grado di svolgere i processi vitali e di assicurare i servizi ecosistemici (perdita della capacità di rinnovarsi, insufficiente produzione legnosa e difesa del suolo). In tal modo è possibile ottimizzare le scelte di gestione, ossia escludere le “tipologie non più funzionali” dagli interventi selvicolturali e, di riflesso, inserirle in programmi di restauro forestale.
  317. Per questo viene proposta una definizione di bosco degradato: quello in cui si evidenziano fenomeni di degenerazione e regressione rispetto alla massima funzionalità ecologica potenziale e dalla mancanza della capacità di produrre beni e servizi (Mercurio 2016).
  318. Ai fini di un primo approccio i caratteri identificativi dei boschi degradati possono essere quelli con un grado di copertura inferiore al 20%, con assenza di orizzonti organici del suolo, quelli oggetto di attacchi di patogeni o di pascolo intenso, oppure quelli distrutti da incendi o da eventi meteorici. Nel breve periodo potranno essere resi disponibili i dati FISE - the Forest Information System for Europe (https://forest.eea.europa.eu/) il sistema di informazione da cui si potranno dedurre anche le situazioni di degrado.
  319. I boschi degradati (a seguito di una definizione più precisa e normata e di una mappatura a scala regionale), devono essere esclusi da qualsiasi utilizzo (taglio, pascolo e transito del bestiame, attività turistico-ricreative). In essi vengono prevenuti i fattori di disturbo, e sono oggetto di restauro forestale, inteso come un insieme di misure di tipo passivo e attivo, volte a ripristinare nel tempo la funzionalità e la resilienza dei sistemi forestali.
  320. Il restauro forestale ha per riferimento la “vegetazione naturale potenziale attuale” sensu Biondi (2011): il tipo di vegetazione che rappresenta lo stadio più avanzato di una successione seriale all’interno di una data area biogeografica. Ossia un modello di naturalità (stadi tardo-successionali), un punto di arrivo finale. In tal modo è possibile intraprendere il restauro partendo da alcune specie chiave. Il modello di riferimento viene inteso non come un dato assoluto, ma una semplice “informazione”, perché non è ipotizzabile sapere quale sia stata “la vegetazione originaria certa” prima dell’intervento dell’uomo in epoca storica, né quali saranno le dinamiche evolutive tra decine di anni, tenendo conto di possibili disturbi, ossia di eventi eccezionali e imprevedibili, dei possibili cambiamenti del clima (Vilà-Cabrera et al. 2018), anche se, nel breve e medio periodo avranno effetti pratici poco rilevanti. Il modello di riferimento è pertanto uno strumento operativo e orientativo, altrimenti non si può progettare, mettere in cantiere e ottenere finanziamenti. Il restauro non è una azione rigida ma sempre adattativa, per questo si parla oggi di Adaptive Restoration.
  321. Se del resto si facesse riferimento al concetto di “capacità di autorganizzazione dei sistemi” in senso stretto, si potrebbero favorire modelli non desiderati dall’uomo come quelli di specie esotiche invasive (casistica che si potrebbe verificare ad esempio nei rimboschimenti costieri).
  322. Il restauro forestale viene mutuato e disarticolato secondo quanto proposto da John Stanturf (2005):
  323. Rehabilitation (rinaturalizzazione), riguarda il restauro di una composizione specifica desiderata, della struttura e di processi di un ecosistema forestale degradato ma che è ancora presente. Questa attività consiste, nel caso delle aree protette, nell’indirizzare gli ecosistemi degradati o a ridotta naturalità verso condizioni di elevata naturalità. Ma questa attività interessa anche i boschi di origine artificiale come la trasformazione dei rimboschimenti di conifere o di latifoglie esotiche (eucalipti) in popolamenti di latifoglie autoctone.
  324. Reconstruction (ricostituzione), si riferisce alla creazione su ex terreni agricoli o pascoli di un nuovo sistema forestale mediante specie autoctone. È questo lo spazio del “rimboschimento” inteso in senso lato. Infatti per “Rimboschimento” si intende il piantare un insieme di alberi per vari scopi: difesa del suolo, fissazione della CO2, produzione legnosa. Mentre per “Restau o” si intende il piantare alberi (e arbusti) per innescare un progressivo sviluppo di relazioni tra i vari componenti del sistema, con l’obiettivo di creare un sistema complesso in “equilibrio dinamico”.
  325. Reclamation (comprende le operazioni di bonifica, ma si può parlare anche di fitorimedio, ecc.), riguarda ambienti molto degradati privi di vegetazione, come quelli delle aree estrattive, urbanizzate, ex siti militari o inquinati.
  326. Replacement (prevede una possibile sostituzione della vegetazione nel tempo), significa creare nuove foreste su ex coltivi, a che mediante specie esotiche e “nuove” entità specifiche, che poi nel tempo possono essere “naturalizzate”. Un percorso che parte da una piantagione di alberi per ricostruire, se opportuno, un sistema forestale complesso.
  327. Gli interventi pratici di restauro forestale di tipo attivo più comuni riguardano:
  328. - il reintegro della vegetazione negli spazi aperti mediante semine, piantagioni, propagginature, ecc. Anche mediante tecniche innovative di lavorazione del suolo per le zone aride della Calabria come la savannization (Ginsberg 2007), ossia lavorazioni localizzate in corrispondenza delle curve di livello con interdistanze variabili da 8 a 20 m, o le lavorazioni a microbacini: piccole trincee larghe 80-100 cm e profonde 60-80 cm aperte, in modo discontinuo, lungo le curve di livello;
  329. - l’avviamento all’alto fusto dei boschi cedui (con il metodo dell’invecchiamento);
  330. - il rilascio di alberi comunque vitali per favorire la dispersione del seme attraverso la fauna selvatica;
  331. - la conservazione delle specie arbustive pioniere (ginestreti, ginepreti) quali nuclei per il reinsediamento (naturale o artificiale) della vegetazione arborea.
  332. Per i boschi degradati vengono indicate, per le varie tipologie, le specie più adatte, non solo quelle arboree ma anche arbustive, per gli “interventi di ricucitura” più puntuali.
  333. In sede pianificatoria territoriale è necessario stabilire delle priorità non essendo possibile nel breve periodo una azione immediata su vaste aree. Le priorità riguardano:
  334. - le aree protette;
  335. - le situazioni di degrado dove vi sono rischi per le persone e le infrastrutture;
  336. - le tipologie di particolare attenzione naturalistica come le “faggete senza suolo” ossia senza orizzonti organici, poggianti su litosuoli (Mercurio 2012, 2018);
  337. - i boschi bruciati o danneggiati da eventi di natura biotica e abiotica.
  338. Categoria: Faggete
  339. Sottocategoria: Faggete microterme
  340. ● Faggeta microterma tipica
  341. − Variante con abete bianco
  342. − Sottotipo a silene
  343. Sottocategoria: Faggete macroterme
  344. ● Faggeta macroterma oceanica
  345. − Sottotipo con agrifoglio
  346. − Sottotipo con aglio orsino
  347. − Variante con abete bianco
  348. − Variante con ontano napoletano
  349. − Variante con acero di monte
  350. − Variante con acero di Lobelius e tasso
  351. − Variante con acero napoletano
  352. ● Faggeta macroterma
  353. − Variante con abete bianco
  354. Categoria: Abetine
  355. ● Abetina pura
  356. − Variante con faggio
  357. − Variante con rovere meridionale
  358. − Variante con pino laricio
  359. − Variante con castagno
  360. ● Abetina pura cacuminale
  361. − Variante con faggio
  362. − Variante con rovere meridionale
  363. − Variante con pino laricio
  364. Categoria: Pinete Oro-mediterranee
  365. ● Pinete di pino loricato
  366. − Variante con ginepro nano
  367. − Variante con sorbo greco
  368. ● Pinete di pino nero
  369. ● Pinete di pino laricio
  370. − Variante con faggio
  371. − Variante con rovere
  372. − Variante con cerro
  373. Categoria: Castagneti
  374. ● Castagneto montano
  375. − Variante con abete bianco
  376. − Variante con faggio
  377. − Variante con ontano napoletano
  378. ● Castagneto submontano
  379. − Variante con leccio
  380. − Variante con querce caducifoglie
  381. ● Castagneto da frutto
  382. Categoria: Querceti caducifogli
  383. ● Querceti di farnetto
  384. − Variante con leccio
  385. − Variante con acero napoletano
  386. − Variante con cerro
  387. − Variante con carpini
  388. ● Querceti di rovere meridionale
  389. − Variante con pino laricio
  390. − Variante con faggio
  391. ● Querceti di roverella termofili
  392. − Sottotipo a erica arborea
  393. − Sottotipo a rosa sempreverde
  394. − Variante con olivastro
  395. − Variante con acero trilobo
  396. − Variante con sughera
  397. ● Querceti di roverella mesofili
  398. − Variante con leccio
  399. ● Querceti di cerro termofili
  400. − Variante con sughera
  401. ● Querceti di cerro mesofili
  402. − Variante con acero di Lobelius
  403. Categoria: Querceti sempreverdi
  404. ● Leccete termofile
  405. − Sottotipo a erica arborea
  406. − Variante con lentisco e olivastro
  407. − Variante con sughera
  408. ● Leccete mesofile
  409. − Variante con farnetto
  410. − Variante con orniello
  411. − Variante con carpino nero
  412. ● Sugherete
  413. − Variante con leccio
  414. − Variante con roverella
  415. − Variante con cerro
  416. Categoria: Pinete mediterranee
  417. ● Pinete naturali di pino d’Aleppo
  418. Categoria: Macchie e Arbusteti mediterranei
  419. ● Macchia a lentisco
  420. ● Macchia alta a ginepro turbinato
  421. ● Macchia ad euforbia arborea
  422. ● Macchia ad erica arborea
  423. ● Arbusteti a ginestra odorosa
  424. Categoria: Arbusteti Temperati
  425. ● Arbusteti silicicoli a ginestra dei carbonai
  426. ● Arbusteti calcicoli a prugnolo e biancospino
  427. Categoria: Formazioni boschive igrofile
  428. ● Formazioni ripariali di ontano nero
  429. ● Formazioni ripariali di ontano nero e ontano napoletano
  430. ● Formazioni ripariali di salice bianco
  431. ● Formazioni ripariali di pioppo nero
  432. ● Formazioni ripariali di pioppo bianco
  433. ● Formazioni di olmo campestre
  434. ● Formazioni ripariali di platano orientale
  435. ● Formazioni planiziali di frassino ossifillo e farnia
  436. ● Formazioni ripariali di tamerici
  437. Categoria: Altri boschi caducifogli
  438. ● Formazioni di acero napoletano
  439. ● Formazioni di ontano napoletano
  440. − Variante con faggio
  441. − Variante con castagno
  442. ● Formazioni di acero montano
  443. − Variante con carpino nero
  444. ● Formazioni di carpino nero
  445. − Variante con acero napoletano
  446. − Variante con tiglio
  447. ● Formazioni di pioppo tremolo
  448. ● Formazioni di nocciolo
  449. ● Formazioni di frassino ossifillo
  450. − Variante con acero napoletano
  451. − Variante con tiglio e nocciolo
  452. Categoria: Rimboschimenti di conifere
  453. ● Rimboschimenti di pino marittimo
  454. ● Rimboschimenti di pino domestico
  455. ● Rimboschimenti di cipresso
  456. ● Rimboschimenti di pino d’Aleppo
  457. ● Rimboschimenti di pino laricio
  458. ● Rimboschimenti di pino loricato
  459. ● Rimboschimenti di abete bianco
  460. ● Rimboschimenti di douglasia
  461. ● Rimboschimenti di pino radiato e altri pini alloctoni
  462. ● Rimboschimenti delle dune
  463. Categoria: Rimboschimenti di latifoglie
  464. ● Rimboschimenti di castagno
  465. ● Rimboschimenti di ontano napoletano
  466. ● Rimboschimenti di pioppo tremolo
  467. ● Piantagioni di pioppi ibridi
  468. ● Piantagioni di latifoglie a legname pregiato
  469. ● Rimboschimenti di eucalipti
  470. Boschi di specie alloctone invasive
  471. ● Boschi di robinia
  472. ● Boscaglie di ailanto
  473. ● Boscaglie di acacia
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  554. PARTE SECONDA
  555. Nella categoria delle faggete sono state incluse le formazioni a prevalenza di faggio cui si associano altre latifoglie e l'abete bianco (Spampinato 2003a, b). Sono formazioni spesso gravate da intenso sfruttamento per il pascolo, asportazione di lettiera, il legnatico e tagli irrazionali che hanno prodotto una larga superficie degradata (Hofmann 1956, 1991, Mercurio 2012).
  556. L'ampia diffusione delle faggete nella fascia montana da 900-1000 fino a quasi 2000 m ha consigliato la suddivisione in due so tocategorie: faggete microterme e faggete macroterme. Le faggete microterme si sviluppano ad una quota superiore ai 1400 m; questa è presente soprattutto in Aspromonte, Sila e Pollino, in minor misura è presente anche in altri sistemi montuosi della regione. Le faggete macroterme sono le più diffuse in quanto occupano la fascia montana inferiore ai 1400 m.
  557. Categoria: Faggete
  558. Sottocategoria: Faggete microterme
  559. ● Faggeta microterma tipica
  560. − Variante con abete bianco
  561. − Sottotipo a silene
  562. Sottocategoria: Faggete macroterme
  563. ● Faggeta macroterma oceanica
  564. − Sottotipo con agrifoglio
  565. − Sottotipo con aglio orsino
  566. − Variante con abete bianco
  567. − Variante con ontano napoletano
  568. − Variante con acero di monte
  569. − Variante con acero di Lobelius e tasso
  570. − Variante con acero napoletano
  571. ● Faggeta macroterma
  572. − Variante con abete bianco
  573. Questa tipologia occupa le quote più elevate del Massiccio del Pollino, Sila e Aspromonte sia su substrati calcarei (Pollino) che silicei (graniti, gneiss, filladi, micascisti, flysch). Dal Passo dello Scalone (che segna il punto di demarcazione tra l’Appennino lucano e quello calabrese) si snoda attraverso la Catena Costiera, lungo il Massiccio Silano, le Serre fino ad arrivare all’Aspromonte (Cutini e Di Pietro 2006).
  574. Dal punto di vista altitudinale questa tipologia arriva fino a circa 1950 m nel Pollino; al di sopra della faggeta si sviluppa o le pinete di pino loricato e le praterie di altitudine. In Sila arriva fino alla sommità di Monte Botte Donato (1929 m). In Aspromonte si riscontra, nei versanti tirrenici da 1400 m, nei versanti ionici sopra i 1500 m fino alle cime più alte (Montalto 1955 m) (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003).
  575. /
  576. Faggete microterme (Catena del Pollino)
  577. Boschi in cui predomina il faggio con poche altre specie arboree compreso l’abete bianco. Lo strato arbustivo è assente o scarsamente rappresentato e formato da giovani individui di faggio e abete bianco. Nello strato erbaceo è presente un contingente di specie nemorali tipiche di questa tipologia di faggeta come Campanula trichocalycina (= Asyneuma trichocalycina), Orthylia secunda, Calamintha grandiflora, Silene vulgaris subsp. commutata. In alcune aree degradate del Pollino si hanno situazioni di transizione in cui nella faggeta si trovano individui di pino loricato.
  578. Queste faggete sono legate ad aree con macrobioclima temperato, localizzandosi preferenzialmente nella fascia supratemperata superiore umida o iperumida.
  579. Dal punto di vista fitosociologico la faggeta microterma è da riferire al Ranunculo brutii-Fagetum sylvaticae Bonin 1967 (= Campanulo trichocalycinae-Fagetum Gentile 1970).
  580. Strato arboreo: Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina.
  581. Stato erbaceo: Campanula trichocalycina (=Asyneuma trichocalycinum), Ranunculus brutius.
  582. Sono faggete utilizzate con tagli a scelta o spesso in abbandono colturale.
  583. Variante con abete bianco
  584. L’elemento ecologico differenziale di questa variante sono sia i fattori termico-udometrici, sia quelli pedologici. L’abete vegeta su suoli abbastanza superficiali, nelle esposizioni calde, soggette a sbalzi termici più accentuati e negli ambienti caratterizzati da una certa continentalità di versante, contesti ambientali meno adatti per il faggio. In Aspromonte si riscontra nelle zone sommitali fra i 1500-1800 m.
  585. Sottotipo a silene commutata
  586. Sono boschi cacuminali dove è frequente Silene vulgaris subsp. commutata, spesso degradati, costituiti da individui di faggio contorti e tozzi di bassa statura (< 4m). Si alternano gruppi densi di polloni ad ampie radure soggette a fenomeni erosivi; in media il grado di copertura del suolo è del 50-60%. La prolungata persistenza della neve, le gelate tardive e i venti forti rappresentano i fattori limitanti l’attività vegetativa del faggio che condizionano una possibile evoluzione. In Aspromonte si riscontra dai 1800 m fino ai limiti della vegetazione arborea (1955 m), soltanto in aree cacuminali, su suoli poco profondi, ricchi di scheletro e poveri di sostanza organica, talvolta su rocce affioranti. Questa variante cacuminale è presente anche sul Pollino.
  587. La faggeta è una formazione stabile nel tempo: il taglio, il pascolo e altre azioni di disturbo antropico ne determinano la sostituzione sui versanti con suoli superficiali e roccia affiorante con pascoli a dominanza di piccole camefite con antemide calabrese (Anthemis cretica subsp. calabrica) e da cespuglieti a ginepro emisferico (Juniperus communis subsp. hemisphaerica), me tre nelle aree con suoli profondi la faggeta viene sostituita da pascoli mesofili a dominanza di graminacee del genere Festuca tra cui Festuca circumediterranea.
  588. La faggeta cacuminale può essere considerata uno stato durevole bloccato nella sua evoluzione da condizionamenti edafoclimatici.
  589. Nella zona A dei Parchi Nazionali (Riserva Integrale) sono esclusi gli interventi colturali di qualsiasi natura.
  590. Le faggete in zone acclivi o di alta quota, vista la loro prevalente funzione protettiva, sono da lasciare alla evoluzione naturale, almeno nel breve-medio periodo. Va valutato però se sia possibile mantenere l'alternanza di spazi aperti, anche al pascolo, e di zone boscate che oltre ad aumentare i livelli di biodiversità, risulta di elevato pregio estetico. Le zone ecotonali di alto significato ecologico, contribuiscono a facilitare la vita della fauna selvatica ed in particolare dell'avifauna.
  591. L’obiettivo degli interventi selvicolturali è quello di assicurare un uso conservativo del bosco e quindi non tanto di ridurre i prelievi (che devono avere comunque una sostenibilità economica) quanto di accrescere il valore ecologico del popolamento (sostenibilità ecologica). Nelle faggete bisogna conservare il corteggio floristico delle specie endemiche e nemorali, ossia con gli interventi non si deve “aprire” il bosco per non alterarne la biodiversità.
  592. Nelle fustaie e nei cedui invecchiati di oltre 60 anni si possono eseguire tagli colturali con un prelievo massimo del 15% in volume: il prelievo verrà comunque applicato in base all’entità della provvigione, assicurando dopo il taglio un livello di provvigione minimale > 350 m3 ad ettaro. Bisogna rilasciare gli alberi vivi di maggiori dimensioni (> 80 cm), anche tozzi, disformi, deperienti, con cavità, ecc. che presentano microhabitat per uccelli, roditori, ecc. e che hanno un valore ecologico. Allo stesso modo va rilasciata la necromassa in piedi e a terra ai fini del mantenimento e dell'incremento della fertilità e della diversità biologica, da calibrare a seconda delle situazioni e non in base a rigidi schemi numerici.
  593. L’attività selvicolturale è prevista in una fascia al di sotto dei 50-100 m del limite di vegetazione e dei crinali. Occorre valutare se le condizioni ambientali (morfologia, spessore e fertilità del suolo) potranno sostenere una fustaia, o se sia conveniente lasciare alla libera evoluzione oppure se proseguire con le ceduazioni limitatamente al taglio a sterzo.
  594. Laddove possibile è da favorire la ricostituzione della fustaia di faggio e la mescolanza con l’abete bianco al di sotto delle zone sommitali.
  595. Nei cedui di oltre 50 anni si potrà procedere con i tagli di avviamento all'alto fusto (diradamenti misti) in modo da contene e il prelievo entro il 20% in volume con cadenza decennale, cercando di orientare la faggeta verso una struttura pluristratificata per assicurarne una maggiore resilienza. A tale riguardo la comparsa di specie indicatrici (Galium odoratum, Cardamine sp., ecc.) potrebbe essere di valido aiuto nell’individuare condizioni pedologiche e micro-ambientali favorevoli alla fustaia. In ogni caso si dovranno rilasciare le piante di abete e liberare i nuclei di rinnovazione di abete. Quando il soprassuolo ha raggiunto 80-90 anni si potranno eseguire i tagli di rinnovazione che consisteranno nel taglio colturale con prelievi del 25% in volume. Prima di effettuare i tagli di rinnovazione è assolutamente necessario sospendere il transito e la sosta del bestiame.
  596. Laddove necessario, si possono eseguire semplici sfollamenti-diradamenti (pari al 20-30% in numero di piante), allo scopo di assicurare la stabilità meccanica e di favorire l’evoluzione del popolamento.
  597. Nelle fustaie che hanno superato i 60 anni si possono eseguire tagli colturali con una cadenza decennale, con un prelievo massimo del 25% in volume; il prelievo verrà comunque applicato in base all’entità della provvigione, assicurando dopo il taglio un livello di provvigione minimale > 350 m3 ad ettaro.
  598. Oggetto di attenzione sono le faggete ancora con un grado di copertura elevato ma con assenza di orizzonti organici del suolo, a roccia affiorante (dovuto al passaggio e alla sosta degli animali al pascolo, alla rimozione della lettiera ecc.). Stante la criticità della situazione, per evitare fenomeni di dissesto idrogeologico, sono necessarie azioni di tipo “passivo”. Sono cioè da escludere gli interventi selvicolturali e qualsiasi altra forma di uso, in quanto lo scopo primario è quello di consentire l’accumulo di sostanza organica e quindi favorire l’evoluzione del suolo.
  599. Per le faggete degradate, ma ancora sufficientemente dense (40-50% del grado di copertura), si può intervenire con rinfoltime ti sia mediante piantagione (faggio assieme a sorbi e aceri) sia mediante propagginatura, vietando il transito dei bovini e la fruizione ricreativa (Mercurio 2010, 2012, 2018). In questi contesti infraperti sono da salvaguardare e valorizzare i nuclei di ginepro emisferico che rappresentano importanti centri di ridiffusione del faggio e di altre specie per via naturale.
  600. Una particolare cura va posta alle zone interessate da fenomeni di erosione e di compattazione del suolo. In questi casi l’ape tura di nuove strade, la sosta degli animali e la fruizione turistica vanno regolamentate o escluse.
  601. Nelle zone aperte o erose si deve ricorrere all’impianto di nuclei di pino nero, pino laricio o di pino loricato per favorire il ritorno graduale delle latifoglie.
  602. Fagus sylvatica, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Acer pseudoplatanus, Acer platanoides, Pinus nigra subsp. calabrica, Pinus leucodermis, Abies alba subsp. apennina, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Juniperus communis subsp. hemisphaerica.
  603. /
  604. Faggeta microterma cacuminale (Montalto, Aspromonte)
  605. Nel Pollino questa tipologia occupa una fascia altimetrica compresa tra (900) 1200 e 1400 m su calcari e dolomie. In alto queste faggete sfumano in quelle microterme a campanula, mentre in basso entrano in contatto con le leccete, gli orno-ostrieti e i querceti caducifogli. Sulle rocce affioranti e sulle rupi della Valle dell’Argentino sono sostituite dal pino loricato e dal pi o nero (Maiorca e Spampinato 1999, Mercurio et al. 2007, Scarfò et al. 2008).
  606. In Sila, le faggete si sviluppano sui versanti più freschi e umidi dai 1100 m fino ad entrare in contatto con le faggete micro erme. Il faggio si mescola di frequente al pino laricio (Iovino et al. 2017) e in piccole aree della Sila Grande e della Sila Piccola all’abete bianco (Ciancio et al. 1985) e all’ontano napoletano. Il bosco misto faggio-abete era la tipologia forestale che caratterizzava il paesaggio montano della Sila prima dell’inizio della deforestazione iniziata da Bruzi e Romani.
  607. Nella Catena Costiera il faggio scende anche a quote basse, in genere da (850-900) 1000 m fino a 1400 m e si consocia con ace o napoletano, cerro e tigli.
  608. Nelle Serre la totalità delle faggete macroterme è compresa tra 900 (1000) e 1400 m su graniti, scisti granatiferi, gneiss biotitici (Mercurio e Spampinato 2006).
  609. Nella Presila catanzarese la faggeta macroterma oceanica occupa una fascia altimetrica compresa tra (820) 900 e 1400 m su scisti filladici, scisti verdi, serpentini. In alto giungono fino alla sommità dei rilievi, mentre in basso entrano in contatto con le cerrete e gli ontaneti (o i castagneti quali cenosi di sostituzione delle formazioni precedenti) (Maiorca et al. 2003, 2006, Mercurio et al. 2009a).
  610. In Aspromonte si riscontra nella parte tirrenica ad una quota compresa tra (900) 1100 e 1400 m. Qui il faggio trova condizioni ecologiche ottimali a causa di precipitazioni elevate (1800-2000 mm annui) che vengono ulteriormente incrementate dalle “piogge occulte”, dovute alle masse di aria umida provenienti dal Mar Tirreno. Per le inversioni termiche che si verificano nelle numerose vallate tirreniche, o lungo i versanti delle vallate protette dai venti, questi soprassuoli scendono anche a quote più basse, attorno ai 700 m (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003).
  611. Lo strato arboreo è dominato nettamente dal faggio, sporadica è la presenza di altre specie arboree quali abete bianco appenni ico (Abies alba subsp. apennina) o acero di monte (Acer pseudoplatanus), e in particolari condizioni edafiche l’ontano napoletano (Alnus cordata). Lo strato arbustivo è rappresentato da alcune specie sempreverdi quali Ilex aquifolium, Daphne laureola, Ruscus aculeatus.
  612. Sono faggete altamente produttive con alberi di buona forma, spesso di notevoli dimensioni, che superano i 30 m, spesso in passato di forti utilizzazioni e degradate (Hofmann 1991, Mercurio 2012).
  613. Nello strato arboreo sono possibili dei mutamenti legati soprattutto alla variabilità delle condizioni ecologiche microstazionali. Così nelle stazioni dove la geomorfologia consente condizioni climatiche con maggior grado di oceanicità è possibile rinvenire il tasso (Taxus baccata), mentre nelle stazioni più umide, l’ontano napoletano (Alnus cordata).
  614. Dal punto di vista fitosociologico queste faggete sono riferibili all’Anemono apenninae-Fagetum sylvaticae (Gentile 1969) Brullo 1984 (=Aquifolio-Fagetum Gentile 1969), associazione distribuita sui sistemi montuosi dell’Italia meridionale e della Sicilia settentrionale. Le faggete con una maggiore mesofilia, rispetto all’Anemono apenninae-Fagetum sylvaticae, insediate su suoli profondi e freschi, caratterizzate dalla presenza dell’acero di Lobelius (Acer cappadocicum subsp. lobelii) sono invece riferibili all’Acero lobelii-Fagetum Aita et al. 1984 em. Ubaldi et al. 1987, associazione presente sui rilievi calcareo-dolomitici della Calabria settentrionale (Maiorca e Spampinato 1999) oltre che in Basilicata (Aita et al. 1984) fino all’Abruzzo (Pirone et al. 2005).
  615. Strato arboreo: Fagus sylvatica, Acer pseudoplatanus.
  616. Strato arboreo sottoposto: Ilex aquifolium, Taxus baccata.
  617. Strato arbustivo: Daphne laureola.
  618. Strato erbaceo: Anemone apennina, Geranium versicolor, Lamium flexuosum subsp. pubescens, Doronicum orientale, Scilla bifolia.
  619. Boschi ordinariamente governati a ceduo e a fustaia: ceduo semplice matricinato, tagli di avviamento all'alto fusto, tagli successivi, taglio a scelta e tagli modulari (Mercurio 2012).
  620. Sottotipo ad agrifoglio
  621. Molto frequente soprattutto nelle Serre e nei contesti di maggiore oceanicità del clima.
  622. Sottotipo ad aglio orsino
  623. Boschi circoscritti ai suoli più fertili e profondi del M. Mancuso e delle Serre.
  624. Variante con abete bianco
  625. Rispetto al tipo si ha una attenuazione dei caratteri di oceanicità, con suoli meno evoluti. Sono faggete riferite all’Anemono apenninae-Fagetum sylvaticae (Gentile 1969) Brullo1983 abietosum albae. Nelle Serre si localizzano tra 900 e 1400 m. In Aspromonte si riscontrano a 1200-1500 m, in prevalenza nei versanti tirrenici con esposizioni di Nord-Nord Ovest.
  626. Variante con ontano napoletano
  627. Localizzata nei versanti settentrionali acclivi, sui suoli a maggiore disponibilità idrica, della Catena Costiera e Pollino.
  628. Variante con acero di monte
  629. Localizzata nelle zone che hanno subito disturbi (taglio e pascolo) importanti nella Catena Costiera e Pollino.
  630. Variante con acero di Lobelius e tasso
  631. Sono le faggete con una maggiore mesofilia rispetto all’Anemono apenninae-Fagetum sylvaticae, insediate su suoli profondi e freschi a reazione neutra in aree con bioclima supratemperato iperumido, riferibili all’Acero lobelii-Fagetum Aita et al. 1984 em. Ubaldi et al 1987. Sono presenti nella Catena Costiera e Pollino. Il tasso (Taxus baccata) è ancora presente in Calabria (Catena Costiera, Pollino, Serre, ecc.) nelle faggete oggetto di utilizzazioni.
  632. Variante con acero napoletano
  633. Abbastanza frequente nella Catena Costiera e sul versante occidentale del Pollino.
  634. /
  635. Faggeta macroterma oceanica con agrifoglio (Serre)
  636. La faggeta macroterma oceanica può essere considerata una formazione stabile di tipo climatofilo che in particolari condizioni edafiche, più favorevoli all'abete, evolve verso il bosco misto faggio-abete. Sui suoli acidi o sub acidi viene sostituita, in conseguenza del taglio e dell’incendio, da arbusteti a ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius) e con il perdurare del disturo dalla vegetazione erbacea a felce aquilina (Pteridiun aquilinum). L'innesco di fenomeni di erosione dei suoli di natura cristallina determina la sostituzione delle cenosi forestali con i cespuglieti a ginestra ghiandolosa della Calabria (Adenocarpus brutius). L'intensificarsi dei processi di erosione e l’affioramento del substrato roccioso, favorisce l'insediamento della vegetazione camefitica con camomilla calabrese (Anthemis calabrica). Su substrati calcarei subentrano invece i pascoli a graminacee con Phleum ambiguum e Bromus erectus, che in corrispondenza delle aree pianeggianti con maggiore disponibilità idrica, sono sostituiti dai pascoli mesofili con Arrhenatherum elatius.
  637. Nella ricostituzione della faggeta, sui substrati di natura cristallina dell’Aspromonte e della Sila, gioca un importante ruolo il pino laricio (Pinus calabrica Hort. ex Gordon = Pinus nigra J.F. Arnold subsp. calabrica (Delam. ex Loudon) A.E. Murray), specie pioniera in grado di colonizzare rapidamente soprattutto i versanti acclivi e ben esposti.
  638. Nella zona A dei Parchi Nazionali (Riserva Integrale) sono esclusi gli interventi colturali di qualsiasi natura.
  639. Anche in altre situazioni sono opportuni criteri di gestione che prevedano l’esclusione di qualsiasi intervento selvicolturale e di pascolo. Ad esempio nel Pollino alle quote più elevate e in pendenze accentuate, dove la faggeta svolge una funzione essenzialmente protettiva, e nelle faggete disformi con fusti policormici di grandi dimensioni di particolare pregio estetico. La stessa procedura è da applicare anche nei cedui che hanno superato i 50 anni, ma con altezza media < 8 m, come quelli in prossimità dei crinali e su suoli superficiali e nei casi in cui vi sono evidenti pericoli di dissesto idrogeologico.
  640. L’obiettivo degli interventi selvicolturali nella Zona B dei Parchi è quello di assicurare un uso conservativo del bosco e qui di non tanto di ridurre i prelievi (che devono avere comunque una sostenibilità economica) quanto di accrescere il valore ecologico dei boschi (sostenibilità ecologica). Nelle fustaie e nei cedui invecchiati (>60 anni) si possono eseguire i tagli colturali con un prelievo massimo del 15% in volume; il prelievo sarà comunque in funzione della provvigione esistente, assicurando, dopo il taglio, una provvigione minimale > 350 m3 ad ettaro. Vanno rilasciati gli alberi vivi di maggiori dimensioni (> 80 cm), anche tozzi, disformi, deperienti, con cavità, ecc. che presentano microhabitat per uccelli, roditori, ecc. e sono di alto pregio estetico ed ecologico. Allo stesso modo va rilasciata la necromassa in piedi e a terra ai fini del mantenimento e dell'incremento della fertilità e della diversità biologica, semmai circoscritta a zone specifiche.
  641. L’analisi della vegetazione può fornire una valida indicazione su come raffinare e diversificare l’intensità degli interventi, parametro fondamentale per la conservazione della faggeta. Se nel sottobosco vi è la presenza di specie nemorali quali: Oxalis acetosella, Euphorbia meuselii, Sanicula europaea, ecc., tipiche di una copertura chiusa, l’intensità delle utilizzazioni può essere fino al 15% in volume. Diversamente, se sono presenti specie eliofile tipiche degli orli e dei mantelli forestali quali: Fragaria vesca, Pteridium aquilinum, Rubus hirtus, Cytisus scoparius, ecc., bisogna effettuare interventi più cauti dell’ordine del 10% in volume; se queste specie sono particolarmente abbondanti è consigliabile non intervenire, in modo da permettere al soprassuolo di chiudere la copertura e di frenare l’involuzione del suolo già in atto.
  642. Un caso particolare sono le faggete con tasso (Angelini et al. 2016). In Calabria, a differenza di altre regioni, il tasso è in regressione perché ancora avversato dai pastori.
  643. Per favorire la conservazione del tasso, Piovesan et al. (2002) propongono i seguenti interventi:
  644. - protezione dal pascolo con recinzione dei nuclei di rinnovazione di tasso esistenti;
  645. - controllo delle popolazioni di ungulati;
  646. - divieto di taglio di parte e/o della pianta intera di tasso;
  647. - diradamento o sfollamento dei nuclei di faggio più densi, eliminazione parziale dei soggetti più grandi di faggio dando luogo a piccole buche (di 300-400 m2 in numero massimo di 1 ad ettaro) creando, quindi, condizioni favorevoli per la rinnovazione naturale non solo del faggio ma anche del tasso.
  648. Considerato il numero ridotto degli individui della popolazione di tasso che può determinare una riduzione della variabilità genetica, si può ipotizzare di reintrodurre il tasso con soggetti provenienti dalle stesse popolazioni locali.
  649. La faggeta macroterma oceanica si presta a una gestione intensiva (sostenibilità economica) per la sua ubicazione in zone ottimali e per la capacità di resilienza.
  650. Il governo a ceduo ha una ragione di essere laddove consente di ricavare le risorse fondamentali per l’economia locale, sia pe la legna da ardere, sia per il carbone. Questa forma di governo è da limitare ai cedui a regime posti in condizioni ottimali. Il trattamento è il taglio raso con rilascio di 60-70 matricine ad ettaro non superiori a 2 turni (24 anni), distribuite a gruppi. L’estensione delle tagliate deve essere inferiore a 10 ettari da contenere < a 5 ettari nel caso di pendenze maggiori del 30%. Tra le altre misure da prendere per la salvaguardia del ceduo si deve sempre considerare il rilascio di un tirasucchio per ogni ceppaia e il divieto di pascolo nei primi anni (Mercurio 2018).
  651. Nei cedui che hanno superato i 50 anni, sufficientemente densi (1000-1500 ceppaie a ettaro) e ben sviluppati in altezza, in p esenza di specie indici, quali: Galium odoratum, Sanicula europaea, ecc., su suolo profondo e su pendenze moderate, è opportuno orientarsi verso la conversione in fustaia. Il metodo prevede diradamenti misti, in modo da contenere il prelievo sul 15-25% di area basimetrica, da ripetere ogni 10 anni con la stessa intensità.
  652. Nei soprassuoli transitori, dove sono iniziati da tempo gli interventi di diradamento per l’avviamento all’alto fusto dell’età di 80 anni ed oltre, il taglio di conversione vero e proprio consiste o nel taglio di preparazione-taglio di sementazione con la serie dei tagli successivi se l’obiettivo è una fustaia coetanea (Mercurio 2018) o nel taglio colturale volto a prelevare il 20-25% in volume, rilasciando una provvigione minimale > 350 m3 ad ettaro.
  653. Il trattamento a tagli successivi è senz’altro da preferire nelle zone ottimali del faggio per ottenere produzioni di qualità. Tuttavia i punti critici per una tale scelta colturale sono quelli di dover assicurare la continuità di gestione, senza interruzioni, per tutta la sequenza dei tagli che si protrae per almeno 100 anni, di tener conto in prospettiva degli effetti dei cambiamenti climatici che si potrebbero verificare in arco di tempo così lungo. Per cui tenendo conto del trattamento passato delle faggete calabresi (Hofmann 1956, Mercurio 2012) che ha determinato strutture quanto mai variabili quanto difficili da definire, è da preferire nelle fustaie a struttura multistratificata di oltre 60 anni, che rappresentano la maggior parte delle faggete calabresi, anche con abete bianco, il taglio colturale, ossia l’asportazione delle piante con fusti di qualità (diametro >40 cm) ma non oltre i 70 cm, agli sfollamenti e diradamenti nei nuclei più densi, all’apertura di piccole buche (200 m2). Il prelievo ad ettaro, da ripetersi con cadenza decennale, non dovrebbe superare il 25% in volume (comunque da calibrare in funzione della provvigione esistente) in modo da mantenere, dopo il taglio, una provvigione minimale > di 350 m3.
  654. Nei popolamenti a struttura coetanea di origine gamica che hanno superato i 30 anni e fino a un’età di 60 anni i diradamenti non dovranno asportare oltre il 20% di area basimetrica ad intervalli di 10 anni.
  655. L’attenzione si focalizza sulle faggete degradate, cioè senza orizzonti pedologici organici, che si trovano alle quote più elevate e in pendenze accentuate nel Pollino, Aspromonte e Monte Mancuso. Lo scopo è quello di riattivare la funzionalità ecologica dei sistemi forestali.
  656. Gli interventi possono riguardare: a) la ricostituzione degli orizzonti organici del suolo attraverso la sospensione di qualsiasi intervento colturale e del transito e della sosta del bestiame, per favorire l’accumulo di lettiera e di necromassa, miglio are le proprietà del suolo, in particolare della sostanza organica e del carbonio organico, e creare le condizioni per il riavvio dei processi dinamici del bosco. b) In presenza di situazioni pedologiche più favorevoli anche se distribuite a macchia di leopardo, con un grado di copertura <70%, si possono eseguire sottopiantagioni di faggio o di specie della stessa serie dinamica (Bernardo et al. 2010, Mercurio 2018).
  657. Fagus sylvatica, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Acer pseudoplatanus, Acer platanoides, Acer cappadocicum subsp. lobelii, Acer neapolitanum, Taxus baccata, Pinus nigra subsp. calabrica, Abies alba subsp. apennina, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Juniperus communis subsp. hemisphaerica, Alnus cordata, Cytisus scoparius, Ilex aquifolium, Malus sylvestris, Pyrus pyraster.
  658. Questa tipologia è limitata al versante meridionale e orientale dell’Aspromonte a quote comprese tra 1000 e 1500 m (Brullo et al. 2001, Spampinato et al. 2008).
  659. Nello strato arboreo domina nettamente il faggio cui si accompagna talvolta l’abete. È presente uno strato arbustivo (senza agrifoglio) nelle stazioni meno disturbate. Lo strato erbaceo è composto da un numero maggiore di specie rispetto alle faggete microterme.
  660. Questo tipo di faggeta è legata a stazioni con bioclima supratemperato umido-iperumido, occupa stazioni con precipitazioni medie annue superiori a 1200 mm. Predilige suoli di natura silicea, più o meno acidi, freschi e profondi che si originano su vari substrati cristallini (gneiss, scisti, ecc.). I suoli sono molto evoluti, profondi, ricchi di sostanza organica e sono riferibili ai Haplic Pheozem (Muscolo e Sidari 1999).
  661. Queste faggete sono inquadrate nel Galio hirsuti-Fagetum sylvaticae Brullo, Scelsi & Spampinato 2001 e sostituiscono l’Anemono apennine-Fagetum sylvaticae sui versanti aspromontani caratterizzati da un minor grado di oceanicità.
  662. Strato arboreo: Fagus sylvatica.
  663. Strato erbaceo: Galium rotundifolium var. hirsutum.
  664. Nell’Aspromonte sono frequenti popolamenti con struttura bi-stratificata in cui persistono le piante del vecchio ciclo nello s rato superiore mentre lo strato inferiore costituito è formato da una giovane e densa perticaia derivante da tagli di avviamento all’alto fusto. Oggi non sono più ordinariamente gestiti.
  665. Variante con abete bianco
  666. Si rinviene su suoli meno profondi rispetto a quelli del tipo, che favoriscono l'insediamento dell'abete bianco grazie ad una minore copertura del faggio (Brullo e Spampinato 1999a).
  667. Si tratta di soprassuoli monostratificati a prevalenza di faggio di origine agamica con abete a piccoli gruppi. Spesso l’abete bianco mostra segni evidenti di deperimento a causa dell’età avanzata.
  668. Formazione stabile di tipo climatofilo, o di zone di contatto più favorevoli all'abete, in evoluzione verso il bosco misto faggio-abete.
  669. Nei cedui in abbandono di oltre 50 anni con una densità di almeno 1000-1500 ceppaie ad ettaro si possono prevedere tagli di avviamento all’alto fusto, cioè diradamenti pari al 15-25% di area basimetrica da ripetersi ogni 10 anni.
  670. Nelle fustaie di oltre 60 anni si possono eseguire tagli colturali con un prelievo massimo del 15% in volume, assicurando un livello di provvigione minimale > 350 m3 ad ettaro. Vanno rilasciati gli alberi vivi di maggiori dimensioni (> 80 cm), anche tozzi, disformi, deperienti, con cavità, ecc. che presentano microhabitat per molti organismi (uccelli, roditori, ecc.) e sono di alto pregio estetico ed ecologico. Allo stesso modo va rilasciata la necromassa in piedi e a terra ai fini del mantenimento e dell'incremento della fertilità e della diversità biologica, da calibrare in funzione delle diverse situazioni e non di rigidi schemi numerici. In questo caso la sostenibilità ecologica prevale su quella economica.
  671. Nei cedui invecchiati di oltre 50 anni occorre effettuare interventi di diradamento (misti e moderati) per la conversione all’alto fusto, con un prelievo inferiore al 20-25% in volume e una cadenza decennale. Nei soprassuoli transitori si procede con tagli colturali con un prelievo in volume non superiore al 20-25%. Contestualmente bisogna liberare i gruppi di rinnovazione di aete.
  672. Il trattamento di riferimento delle fustaie di oltre 60 anni è il taglio colturale, ossia l’asportazione delle piante con fusti di qualità (diametro >40 cm) ma non oltre gli 80 cm, gli sfollamenti e i diradamenti nei nuclei più densi, l’apertura di piccole buche (100-200 m2). Il prelievo ad ettaro, da ripetersi con cadenza decennale, non dovrebbe superare il 25% in volume in modo da mantenere una provvigione minimale > di 350 m3 dopo il taglio.
  673. Le faggete degradate sono quelle anche con un grado di copertura elevato ma senza orizzonti organici del suolo. Gli interventi possono riguardare: a) la ricostituzione degli orizzonti organici del suolo, attraverso la sospensione di qualsiasi forma di coltivazione, del transito e della sosta del bestiame. b) In presenza di situazioni pedologiche più favorevoli anche se distribuite a macchia di leopardo, con un grado di copertura <70%, si possono eseguire sottopiantagioni di faggio o di specie della stessa serie dinamica (Bernardo et al. 2010, Mercurio 2018). Impianto a gruppi di 30-40 soggetti di abete bianco di provenienza locale con sesto di impianto che non segue uno schema rigido, ma sfrutta le migliori condizioni microstazionali.
  674. Fagus sylvatica, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Acer pseudoplatanus, Acer platanoides, Taxus baccata, Pinus nigra subsp. calabrica, Abies alba subsp. apennina, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Juniperus communis subsp. hemisphaerica, Alnus cordata, Cytisus scoparius, Ilex aquifolium, Malus sylvestris, Pyrus pyraster.
  675. La presenza dell'abete bianco sui rilievi della Calabria è frammentata. La maggiore frequenza si ha nelle Serre, nell’Aspromon e e nella Sila piccola.
  676. Le popolazioni di abete bianco dell’Appennino meridionale presentano differenze morfologiche ed ecologiche che hanno permesso di individuare una peculiare sottospecie (Abies alba subsp. apennina), preconizzata da Giacobbe (1949, 1950) e descritta da Brullo et al. (2001).
  677. In questa categoria vengono presi in esame solo i popolamenti di origine naturale anche se non sempre è facile distinguere le ormazioni naturali a causa dei numerosi rimboschimenti.
  678. Categoria: Abetine
  679. ● Abetina pura
  680. − Variante con faggio
  681. − Variante con rovere meridionale
  682. − Variante con pino laricio
  683. − Variante con castagno
  684. ● Abetina pura cacuminale
  685. − Variante con faggio
  686. − Variante con rovere meridionale
  687. − Variante con pino laricio
  688. In Aspromonte l’abetina pura si riscontra, seppure in maniera frammentata, nel versante tirrenico da 1100 m fino a 1800 m, men re è presente con maggiore frequenza nei versanti ionici da 1500 a 1800 m nelle vallate prevalentemente esposte a nord (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003).
  689. Nelle Serre le abetine si localizzano ad una altitudine tra 900 e 1400 m (Ciancio e Menguzzato 1979, Ciancio et al. 1981, 1985, Mercurio e Spampinato 2006). L’esempio più significativo di un bosco vetusto di abete è presente nel bosco di Archiforo presso Serra San Bruno (VV).
  690. Nella Sila, in particolare nel Gariglione (Sila Piccola), l’abete bianco occupa in prevalenza le esposizioni a Nord da 900 a 700 (Ciancio et al. 1985).
  691. L’abete bianco si può rinvenire in purezza o associato al faggio, alla rovere meridionale, al castagno e al pino laricio (in Aspromonte e in minor misura in Sila). Sono boschi di abete bianco di origine naturale che hanno una struttura monoplana se in purezza o una struttura bistratificata ossia con abete bianco nello strato superiore che può condividere con pino laricio o faggio e uno strato inferiore con faggio o castagno. Nel sottobosco sono presenti varie specie nemorali tra cui la monotropa (Monot opa hypopitys), una piccola ericacea sapro-micotrofica priva di clorofilla che si nutre grazie alla micorriza con le ife fungi e, tipica dei boschi di conifere dei territori freddi e temperato-freddi dell'Eurasia. Questo tipo di abetine sono riferite al Monotropo-Abietetum apenninae Brullo, Scelsi & Spampinato 2001, associazione tipica dei rilievi cristallini dell’Appennino calaro, localizzata sui versanti ripidi esposti prevalentemente a settentrione all’interno della fascia bioclimatica supratemperata umida o iperumida occupata dai boschi di faggio. Caratterizzano questo tipo forestale un corteggio floristico di specie nemorali, tra cui Monotropa hypopitis, che permette di inquadrarlo nel Geranio versicoloris-Fagion sylvaticae, alleanza della classe Querco robori-Fagetea sylvaticae che riunisce le formazioni forestali mesofile dell’Appennino meridionale.
  692. /
  693. Abetina pura (Bosco di Archiforo, Serre)
  694. Strato arboreo: Abies alba subsp. apennina, Fagus sylvatica, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa.
  695. Strato arbustivo: Ilex aquifolium.
  696. Strato erbaceo: Monotropa hypopitis, Epipactis aspromontana, Blechnum spicant, Pyrola minor, Galium odoratum, Silene sicula.
  697. Taglio a “scelta” senza alcun criterio colturale.
  698. Variante con faggio
  699. Variante con rovere meridionale
  700. Variante con pino laricio
  701. Variante con castagno
  702. L'abetina pura può essere considerata come un particolare edafoclimax, cioè una formazione durevole localizzata nei versanti acclivi con esposizioni fresche su suoli poco evoluti originati da rocce cristalline a reazione acida o subacida. Questo tipo forestale è localizzato all’interno della fascia della faggeta con cui stabilisce contatti catenali.
  703. L'obiettivo prioritario è la conservazione della biodiversità e nello specifico dell’abete bianco calabrese per la sua importa za genetica, fitogeografica, paesaggistica e produttiva (Kramer 1984, Raddi et al. 1990, Brullo et al. 2001, Hansen e Larsen 204) che presenta un'elevata diversità genetica nonostante le dimensioni ridotte della popolazione e l'isolamento geografico.
  704. Nella zona A dei Parchi Nazionali (Riserva Integrale) sono esclusi gli interventi colturali di qualsiasi natura, dove viene perseguita la preservazione dei popolamenti.
  705. Spesso la scelta di gestione nelle aree protette si orienta verso il “non intervento”, ma tale opzione non sempre è coerente con la tutela e il miglioramento della biodiversità richiesti dalla Direttiva 92/43/CEE. Infatti, come mettono in evidenza Santini e Martinelli (1991), gli interventi selvicolturali possono essere necessari per favorire la rinnovazione e lo sviluppo delle specie tutelate ed in particolare l’abete bianco autoctono.
  706. L’obiettivo degli interventi selvicolturali nelle zone B dei Parchi è quello di assicurare un uso conservativo del bosco e qui di di accrescere il valore ecologico dei boschi.
  707. Si possono eseguire i tagli colturali con un prelievo del 10-15% in volume, considerando che spesso la provvigione nei boschi calabresi, e segnatamente nelle Serre, è superiore a 500 m3 (Plutino et al. 2005, Scarfò 2010), assicurando, dopo il taglio, un livello di provvigione minimale > 350 m3 ad ettaro. Il tempo di ritorno è di circa 10 anni.
  708. Sono da rilasciare, ai fini della sostenibilità ecologica, gli alberi vivi di maggiori dimensioni (> 80 cm), anche disformi, deperienti, con cavità, polipori, ecc. di alto valore ecologico e di minore interesse commerciale, ossia quelli che presentano microhabitat utilizzati da uccelli e roditori, e che sono di alto pregio estetico. Allo stesso modo è da rilasciare la necromassa in piedi e a terra ai fini del mantenimento e dell'incremento della fertilità e della diversità biologica.
  709. Riguarda tutti i popolamenti con abete, compresi quelli nelle zone C e D delle aree protette. La peculiarità dell’abete bianco è quella di rinnovarsi facilmente in Calabria (Ciancio et al. 1985, Mercurio e Spampinato 2006, Mercurio e Mercurio 2008, Mercurio 2019a).
  710. Si possono eseguire tagli colturali con un prelievo del 20-25% in volume, assicurando, dopo il taglio, un livello di provvigio e minimale > 350 m3 ad ettaro. Il tempo di ritorno è di circa 10 anni. La colturalità deve essere intesa anche con interventi di sfollamento-diradamento dei nuclei di abete densi.
  711. Nelle strutture monoplane di abete ma anche nei boschi misti con faggio, l’apertura di piccole buche 200-300 m2 nelle esposizioni più umide (per diminuire fino a 50 m2 in quelle più aride) è efficace per favorire l’insediamento di gruppi di rinnovazione di abete e di faggio (Ciancio et al. 1985, Albanesi et al. 2008, Muscolo et al. 2007b, 2010).
  712. Si applicano alle abetine pure o miste degradate, con un grado di copertura inferiore al 70%, semplificate nella struttura e con livelli pedologici alterati. Il primo passo, per ridare funzionalità ecologica, è il controllo dei fattori di disturbo, e nello specifico il pascolo, dal momento che piantine di abete sono molto penalizzate.
  713. Il restauro riguarda in primo luogo le situazioni di degrado nei parchi e riserve o dei Siti Natura 2000 (Habitat prioritari 9510*, 9220*).
  714. Può essere valutata la piantagione a gruppi di provenienza locale di abete bianco o nei luoghi aperti si possono creare in via preliminare gruppi di leguminose arboree.
  715. Famiglietti et al. (1997) suggeriscono, sotto la copertura di individui di faggio, di eseguire un sommovimento della lettiera, seminare l’abete e ricoprire i semi con la lettiera stessa.
  716. Nel caso di suoli con difficoltà di drenaggio, i popolamenti puri di abete devono essere sostituiti con popolamenti misti data l’alta frequenza di Heterobasidion sp.pl.
  717. Abies alba subsp. apennina, Fagus sylvatica, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Acer pseudoplatanus, Tilia platyphyllos subsp. pseudorubra, Pinus nigra subsp. calabrica, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Juniperus communis subsp. hemisphaerica, Alnus cordata, Ilex aquifolium, Castanea sativa, Malus sylvestris, Pyrus pyraster.
  718. Occupa superfici molto limitate tra 1600 e 1800 m, soprattutto sul versante meridionale e occidentale dell’Aspromonte, su graniti e gneiss, nelle zone cacuminali battute dai venti o su dossi dove le pendenze tendono ad assumere valori elevati (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003).
  719. /
  720. Abetina cacuminale (Aspromonte)
  721. Popolamenti di abete bianco radi con un basso strato arbustivo di ginepro emisferico. Nello strato erbaceo si rinvengono specie provenienti dagli attigui pascoli a camefite. Sono formazioni frammentate, disomogenee per struttura e copertura dove talvolta compaiono faggio, rovere meridionale, pino laricio.
  722. Le abetine cacuminali sono inquadrate nell’associazione Junipero hemisphaericae-Abietetum apenninae Brullo, Scelsi & Spampinato 2001 (Brullo et al. 2001, Spampinato e Biondi 2009) descritta per il terriorio aspromontano.
  723. Strato arboreo: Abies alba subsp. apennina, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Pinus nigra subsp. calabrica.
  724. Strato arbustivo: Juniperus communis subsp. hemisphaerica.
  725. Strato erbaceo: Anthemis calabrica, Armeria aspromontana, Festuca circummediterranea, Centaurea poltiana, Helianthemum nummula ium.
  726. In sostanziale abbandono colturale.
  727. Variante con faggio
  728. Variante con rovere meridionale
  729. Variante con pino laricio
  730. Questa tipologia rappresenta una formazione a determinismo edafico (edafoclimax) che non ha possibilità di evoluzione verso cenosi forestali a maggiore complessità strutturale. L’eccessivo pascolamento e l’incendio favoriscono i pascoli a dominanza di piccole camefite e di emicriptofite, spesso endemiche della classe Rumici-Astragaletea siculi (Brullo et al. 2005) a discapito della rinnovazione di abete.
  731. Tra le misure possibili bisogna prevedere l’esclusione di qualsiasi uso (selvicolturale, pascolivo, fruitivo) per un arco di empo limitato, monitorando nel contempo la dinamica evolutiva della vegetazione.
  732. Non è giustificata nessuna attività selvicolturale in quanto non sarebbe sostenibile dal punto di vista economico data la scarsa consistenza provvigionale di questi popolamenti.
  733. Nelle zone degradate sul piano strutturale e pedologico, la strategia è quella di reintrodurre l’abete di provenienza locale nei nuclei di ginepro emisferico. In particolare, curando l’impianto di abete nelle zone marginali dei cespugli di ginepro emisferico, mentre nelle aree aperte con vegetazione erbacea è preferibile la piantagione di ginepro per accelerare le dinamiche evolutive naturali.
  734. Abies alba subsp. apennina, Fagus sylvatica, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Pinus nigra subsp. calabrica, Que cus petraea subsp. austrotyrrhenica, Juniperus communis subsp. hemisphaerica.
  735. /
  736. Rinnovazione di abete bianco all’interno di un cespuglio di ginepro emisferico
  737. Comprende le pinete naturali di pino loricato (Pinus heldreichii subsp. leucodermis (Antoine) E. Murray = Pinus leucodermis Antoine), di pino nero (Pinus nigra Arn. subsp. nigra) e di pino laricio (Pinus nigra J.F. Arnold subsp. calabrica (Loud.) E.Murray = Pinus nigra J.F. Arnold subsp. laricio Poiret var. calabrica Delamare), tutte localizzata nella fascia montana.
  738. Categoria: Pinete oro-mediterranee
  739. ● Pinete di pino loricato
  740. − Variante con ginepro nano
  741. − Variante con sorbo greco
  742. ● Pinete di pino nero
  743. ● Pinete di pino laricio
  744. − Variante con faggio
  745. − Variante con rovere
  746. − Variante con cerro
  747. Nell’Appennino calabro-lucano il pino loricato (Pinus heldreichii Christ. subsp. leucodermis (Antoine) E. Murray) è distribuito in quattro gruppi di vegetazione ubicati nel piano sub-montano e montano: il gruppo La Spina Zàccana in Lucania, quello della Montea in Calabria, quello del massiccio del Pollino in territorio calabro-lucano e quello del Palanuda, anch’esso in territo io calabrese (Avolio 1984). Nel gruppo del Palanuda, il pino loricato occupa le stazioni più vicine al mare (Golfo della Serra, Orsomarso) e raggiunge le quote più basse in Italia, 530 m (Avolio 1996). Il pino loricato vegeta tra 530 e 2240 m con la massima concentrazione tra 1400 e 1500 m (Avolio 1984, 1996) nelle esposizioni calde di ovest e sud-ovest.
  748. Le formazioni di pino loricato, nella Valle dell’Argentino, vegetano su versanti acclivi, in modo discontinuo e frazionato, a quote comprese tra 500 e 1400 m (Pennacchini e Bonin 1975, Maiorca e Spampinato 1999, Mercurio et al. 2007).
  749. La pineta di pino loricato si trova su dolomie, calcari dolomitici e flysch marnoso-arenacei in una fascia compresa fra la lecceta a orniello e carpino nero in basso, la faggeta e la fascia orotemperata in alto.
  750. /
  751. Pinete di alta quota di pino loricato (Catena del Pollino)
  752. Il pino loricato tende a formare popolamenti talora monospecifici anche se aperti e disformi, con uno strato sottostante di specie arbustive esigenti di luce quali: Sorbus graeca, Cotoneaster nebrodensis, Juniperus communis subsp. nana.
  753. Nelle strutture biplane il pino loricato si trova nel piano dominante mentre in quello dominato l’orniello, il carpino nero e l’acero ottuso e più raramente il leccio. In taluni contesti possono mescolarsi varie latifoglie quali: faggio, acero ottuso, sorbo montano, carpino nero, orniello e leccio (Avolio e Berti 1987, Avolio 1996).
  754. Le pinete di pino loricato sono da riferire a due associazioni distinte sotto il profilo floristico ed ecologico: il Pino leucodermis-Juniperetum alpinae Stanisci 1997 e il Sorbo graecae-Pinetum leucodermis Maiorca & Spampinato 1999 (Spampinato 2009a).
  755. La pineta di pino loricato con ginepro nano (Pino leucodermis-Juniperetum alpinae) è una pineta rada con individui di pino lo icato distanziati e uno strato arbustivo dominato dal ginepro alpino (Juniperus communis subsp. nana). Questa pineta è localizzata tra 1800 e 2200 m sui versanti rupestri di natura calcareo-dolomitica con suoli poco evoluti, decalcificati, a pH sub acido o neutro, caratterizzati da un bioclima orotemperato e forma spesso un mosaico con le praterie di alta quota a sesleria del Seslerio nitidae-Brometum erecti.
  756. La pineta di pino loricato con sorbo greco (Sorbo graecae-Pinetum leucodermis Maiorca & Spampinato 1999) è nota per l’alta valle del fiume Argentino. Si distingue per la sua struttura di bosco aperto dove al pino loricato si accompagnano l’orniello (Fraxinus ornus), carpino nero (Ostrya carpinifolia) e più sporadicamente il faggio (Fagus sylvatica). Nello strato arbustivo è presente tra l’altro il sorbo greco (Sorbus greca), localizzato nella fascia montana tra 1000 e 1600 m in aree a bioclima temperato con termotipo supratemperato.
  757. Strato arboreo: Pinus heldreichii subsp. leucodermis, Sorbus graeca.
  758. Strato arbustivo: Juniperus communis subsp. nana, J. communis subsp. hemisphaerica, Daphne oleoides.
  759. Non ordinariamente gestita.
  760. Variante con ginepro nano
  761. Variante con sorbo greco
  762. La pineta di pino loricato con ginepro nano è una formazione climax della fascia altomontana collegata con i cespuglieti a ginepro alpino e le praterie di altitudine a sesleria dei macereti (Spampinato 2003a, b).
  763. La pineta a pino loricato con sorbo greco rappresenta invece un particolare edafoclimax (Maiorca e Spampinato 1999), legato a versanti molto acclivi della fascia montana inferiore e submontana che non consentono l’evoluzione del suolo. In condizioni ambientali più favorevoli, laddove è possibile l’evoluzione del suolo, questa pineta assume un ruolo di stadio nella serie dinamica del faggio.
  764. Il pino loricato è specie molto importante per il riavvio delle dinamiche forestali. Mostra le migliori capacità di colonizzazione in aree aperte su suoli erosi e a roccia affiorante di natura calcarea o dolomitica delle quote medio basse (Avolio 1984), nella faggeta percorsa dal fuoco (Avolio 1996). Alle quote più elevate le pinete di P. leucodermis mostrano invece bassi tassi di rinnovazione. Infatti la facoltà germinativa del seme è maggiore alle quote inferiori (Borghetti et al. 1986).
  765. Specie in grado di superare il deficit idrico estivo della Catena del Pollino grazie alle correnti umide provenienti dal Mar Tirreno e, in condizioni ottimali durante il periodo estivo, il pino loricato mostra una pronunciata attività fotosintetica e una capacità di adattarsi alla alta irradianza (Guerrieri et al. 2008).
  766. Si possono evidenziare tre aspetti: a) formazioni sostanzialmente stabili localizzate in aree scoscese con roccia affiorante, dove il pino loricato diventa la specie dominante grazie a particolari adattamenti eco-fisiologici; b) formazioni in espansione in aree aperte, nei suoli erosi e a roccia affiorante, dove il pino loricato mostra la sua capacità colonizzatrice; c) formazioni in regresso nei suoli evoluti dove il pino viene sostituito progressivamente da specie più esigenti come carpino nero, orniello, faggio (Mercurio et al. 2007, Scarfò et al. 2008).
  767. Specie longeva, Avolio (1996) segnala individui di 850-900 anni, Biondi e Visani (1993) di 1000 anni e Piovesan et al. (2018) hanno rilevato un individuo di 1230 anni. Guerrieri et al. (2008) hanno messo in evidenza, in piante ultrasecolari, una notevole potenzialità fotosintetica ad elevati livelli di flusso radiante.
  768. Innanzitutto bisogna migliorare il rapporto uomo-bosco come pascolo e tagli abusivi o irrazionali. L’ubicazione delle pinete o di gruppi di individui in zone scoscese e di alta quota, il significato ecologico e dendrologico del pino consigliano la preservazione assoluta, escludendo qualsiasi intervento colturale o di altro uso e il monitoraggio della dinamica evolutiva.
  769. Interventi puntuali con lo scopo di favorire le piante migliori, assicurare la rinnovazione naturale di per sé abbondante (Avolio 1984) e consentire di dare continuità e ampliare l’area di vegetazione del pino loricato.
  770. Nelle aree degradate della faggeta e degli ostrieti si può prevedere l’introduzione del pino loricato a piccoli gruppi in modo da fungere da centri di ridiffusione. È il pino che può trovare impiego sui substrati calcareo-dolomitici al di sopra dell’area di vegetazione del pino nero s.l. (Allegri 1954).
  771. Pinus heldreichii subsp. leucodermis, Sorbus graeca, Ostrya carpinifolia, Juniperus communis subsp. nana, Juniperus communis subsp. hemisphaerica.
  772. Il pino nero in senso stretto (Pinus nigra J.F. Arnold subsp. nigra) è presente allo stato spontaneo solo nei Monti di Orsoma so (Pollino meridionale) (Giacobbe 1933, Pennacchini e Bonin 1975, Bonin 1978, Maiorca e Spampinato 1994, 1999, Mercurio et al. 2007, Scarfò et al. 2008).
  773. L’areale del pino nero nella Valle dell’Argentino si sovrappone a quello del pino loricato da 600 (800-1000) a 1400 m.
  774. Il pino nero colonizza siti rupicoli e inaccessibili, su suolo di natura calcareo-dolomitico, primitivo dove, per il rifornime to idrico, beneficia delle correnti di aria umida provenienti dal mare Tirreno.
  775. In popolamenti disformi, aperti, dove lo strato arboreo è dominato dal pino nero, in situazioni di maggiore umidità possono essere presenti il carpino nero e l’orniello e negli ambienti più xerici il pino loricato e il leccio.
  776. Dal punto di vista fitosociologico questa tipologia è inquadrata nel Genisto sericeae-Pinetum nigrae Pennacchini e Bonin 1975 (Bonin 1978; Spampinato 2009b).
  777. Strato arboreo: Pinus nigra subsp. nigra.
  778. Strato arbustivo: Genista sericea subsp. pollinensis, Chamaecytisus spinescens.
  779. Sono popolamenti non ordinariamente gestiti.
  780. Nessuna.
  781. Pignatti (1998) fa notare che si tratta di una formazione stabile senza possibilità di evoluzione a causa della pedogenesi bloccata, localizzata in ambienti rupestri, dove prende contatto catenale con i boschi misti di Ostrya carpinifolia.
  782. L’ubicazione delle pinete a pino nero in zone scoscese, il significato ecologico e dendrologico del pino, consigliano la prese vazione assoluta, escludendo qualsiasi uso e intervento colturale e il monitoraggio della dinamica evolutiva.
  783. Non si prevedono interventi specifici, se non tagli colturali per casi particolari.
  784. Nei boschi degradati di latifoglie o in aree aperte e scoscese su substrati calcareo-dolomitici, si può prevedere l’introduzio e del pino nero a piccoli gruppi in modo da fungere da centri di ridiffusione.
  785. Pinus nigra subsp. nigra, Pinus heldreichii subsp. leucodermis, Sorbus graeca, Ostrya carpinifolia, Genista sericea subsp. pollinensis, Chamaecytisus spinescens.
  786. Il pino laricio (Pinus nigra J.F. Arnold subsp. calabrica (Loud.) E.Murray = Pinus nigra J.F. Arnold subsp. laricio Poiret var. calabrica Delamare), talora chiamato pino calabro o pino nero calabrese, è un endemismo sottospecifico del pino nero (Spampinato 2003a, b, c) e ha il suo areale naturale che si estende dalla Calabria alla Sicilia (Etna).
  787. In Sila si trova da (900) 1100 m fino a 1500 (1700) m (Ciancio 1971, AA.VV. 2008). La Sila ospita la maggior parte dell’intera popolazione di pino laricio in Calabria. La grande espansione del pino nell’altipiano silano, dopo il periodo Boreale, viene attribuita all’intensa erosione del suolo causata dalla deforestazione praticata dai Bruzi (tra il primo e il secondo millennio a.C.) per poter creare pascoli e terreni da destinare ad usi agricoli, e in seguito da parte dei Romani. Altri periodi di espansione del pino sono segnalati nel XII- XIII secolo, nel XV-XVI secolo, e dopo il XVIII secolo in conseguenza di intensi fenomeni erosivi connessi all’intenso sfruttamento agricolo e pastorale del suolo (Dimase et al. 1996). A 1420 m si trova il Bosco vetusto di Fallistro (Giganti della Sila).
  788. Dall’altro lato studi palinologici sostengono la presenza massiva di Pinus anche in epoche in cui l’azione umana era ininfluen e sulla vegetazione (Ferrarini e Padula 1969). Ciò potrebbe convalidare le affermazioni di Giacomini e Fenaroli (1958) secondo le quali le pinete rappresenterebbero una sorta di climax edafico che tende verso il climax della faggeta, ma che a causa di una evoluzione troppo lenta sono da considerare come formazioni permanenti.
  789. Allo stesso modo Bernardo et al. (2010), Brullo et al. (2001) e Gangale e Uzunov (2013) sostengono che le pinete sono stabili e frequenti nei terreni in forte pendenza e in quelli aridi e superficiali, mentre nei suoli profondi ed evoluti le pinete verrebbero sostituite dalle faggete.
  790. In Aspromonte i popolamenti di pino laricio si estendono soprattutto sul versante meridionale fra 1200 e 1600 m di quota, ma localmente, nelle valli e nelle esposizioni a Nord, possono scendere al di sotto dei 1100 m, mentre sui versanti esposti a Sud possono salire fino a 1700 m (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003, La Fauci et al. 2006).
  791. Le pinete si localizzano soprattutto su scisti e gneiss biotitici, più raramente, sul versante meridionale, si localizzano su conglomerati e sabbie generalmente poco consolidate (facilmente disgregabili ed a permeabilità elevata) o su rocce plutoniche (graniti, granodioriti, etc.) alle quote più elevate (Menguzzato 1994). Le intense utilizzazioni del passato, il pascolo, e soprattutto il fuoco, hanno favorito l’espansione del pino: in alto verso la faggeta, in basso nelle aree di vegetazione di rovere, roverella s.l. e localmente del leccio.
  792. Le pinete possono presentarsi pure o miste con faggio, cerro, rovere meridionale, abete bianco, acero montano, pioppo tremolo (Caminiti et al. 2003, Avolio 2003a).
  793. Dal punto di vista fitosociologico Bonin (1978), Brullo et al. (2001), Bernardo et al. (2010), Spampinato et al. (2008), i quadrano queste pinete nell’Hypochoerido-Pinetum calabricae. Si tratta di pinete naturali con il pino laricio che domina lo strato arboreo, aperto e rado, mentre lo strato arbustivo è caratterizzato da specie eliofile quali ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius), ginestra alata (Chamaespartium sagittale) e citiso trifloro (Cytisus villosus). Nello strato erbaceo si rinvengono, oltre a costolina levigata (Hypochaeris laevigata) che caratterizza l’associazione, diverse altre specie quali Euphorbia meuselii, Luzula sicula, Festuca trichophylla subsp. asperifolia.
  794. /
  795. Rinnovazione nelle buche del pino laricio (Sila)
  796. Strato arboreo: Pinus nigra subsp. calabrica, Fagus sylvatica, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica.
  797. Strato arbustivo: Cytisus scoparius, Cytisus villosus, Chamaespartium sagittale.
  798. Strato erbaceo: Hypochaeris laevigata, Euphorbia meuselii, Luzula sicula, Festuca trichophylla subsp. asperifolia.
  799. Le pinete di pino laricio venivano tradizionalmente trattate con il taglio a schiumarola consistente nell’apertura nel soprassuolo di buche circolari di 400 - 500 m2 (De Philippis 1948, Anzillotti 1950) fino a 700-1250 m2 (Meschini e Longhi 1955).
  800. Altri trattamenti selvicolturali erano: taglio a raso, taglio a raso con riserve, taglio a raso a gruppi (Carullo 1931, Giacobbe 1937, Anzillotti 1950, Meschini e Longhi 1955). Il turno variava da 100 a 150 anni. Fu proposto anche il taglio a strisce, in quanto considerato uno dei metodi più appropriati per le specie pioniere esigenti luce (Carullo 1931, Giacobbe 1937, Anzillotti 1950, Meschini e Longhi 1955) nelle pinete demaniali della Sila ma senza un ampio riscontro. Il Piano Attuativo di Forestazione di Azienda Calabria Verde (2020) riporta che si applica il taglio a raso su piccole strisce rettangolari di 200-300 m2 e il taglio "a schiumarola”, cioé un taglio a buche di piccole dimensioni (400-900 m2).
  801. Nelle proprietà private è stato largamente applicato il taglio a scelta sia per pedali che a gruppi ad intervalli di 15-20 anni in relazione alle richieste del mercato (Ciancio et al. 2004a, Ciancio et al. 2006, Menguzzato 2013).
  802. Variante con faggio
  803. Rappresenta la massima evoluzione dei boschi di pino laricio in Aspromonte e in Sila dai 1400 ai 1650 m.
  804. Variante con rovere
  805. In Aspromonte questa tipologia è circoscritta a quote tra 1000 e 1250 m sui versanti dove le pendenze medie possono superare il 75-80%.
  806. Variante con cerro
  807. Si rinviene sulla Sila tra 1000 e 1250 m sui versanti mediamente acclivi all’interno della fascia potenzialmente occupata dalle cerrete. Il cerro entra nella composizione nelle pinete di laricio spesso edificando strutture biplane; la presenza del cerro nello strato dominato indica una dinamica di sostituzione della pineta verso la cerreta.
  808. Le pinete di pino laricio vanno considerate come un particolare edafoclimax legato a versanti in cui la pedogenesi è rallentata o impedita da fattori quali l’accentuata inclinazione. In condizioni ambientali più favorevoli che permettono l’evoluzione del suolo, la pineta assume un ruolo costruttivo verso la foresta climacica del faggio e rappresenta uno stadio della serie della aggeta (Spampinato 2003b) o della cerreta.
  809. Riesce a disseminare anche ad età avanzata, assicurando una rinnovazione in massa. Ciò consente su suoli minerali e non evoluti e allo scoperto o in seguito a disturbi (incendio e pascolo reiterato), la conservazione della pineta pura (edafoclimax).
  810. Nelle situazioni migliori la successione dinamica si orienta verso la faggeta, ossia, come afferma Gentile (1969), in assenza di eventi importanti: “il pino contribuisce alla sua distruzione”. Più in particolare, in Aspromonte specie nemorali come Daphne laureola, Orthilia secunda e Viola reichenbachiana, riscontrate al di sopra dei 1450 m, sottolineano la tendenza evolutiva ve so la faggeta, mentre numerose altre specie come ad esempio Armeria aspromontana, Thymus longicaulis, Phleum ambiguum, indicano i contatti dell’Hypochoerido-Pinetum calabricae con le associazioni dei pascoli, comunità con cui le pinete edafoclimaciche prendono contatto catenale.
  811. La tendenza evolutiva naturale è la ricostituzione della faggeta nelle parti più alte e del querceto di cerro come in Sila (Ciancio et al. 2012).
  812. Le utilizzazioni irrazionali, associate ad un pascolo eccessivo e agli incendi, hanno favorito una specie più rustica come il pino laricio rispetto alle querce caducifoglie.
  813. I flussi migratori degli anni ‘60-‘70 del secolo scorso e il conseguente parziale abbandono delle pratiche agricole e del pascolo, hanno determinato l’aumento della superficie del pino laricio. Secondo Nicolaci et al. (2014) i popolamenti di pino laricio della Sila hanno visto un aumento del 38% tra il 1935 e il 2006, parte del quale (65%) è però dovuto ai rimboschimenti posti a quote inferiori a 1400 m e il resto alla espansione naturale nelle faggete, castagneti e altre formazioni di latifoglie.
  814. Il pino laricio è una specie molto longeva, 350 anni secondo alcuni rilievi di Avolio e Ciancio (1985), ma senz’altro ben maggiore.
  815. L’indirizzo prevalente è di mantenere, soprattutto in Sila, la pineta pura per il valore paesaggistico e culturale.
  816. Nelle pinete adulte monoplane, su suoli generalmente ben evoluti e profondi è verosimile che, in tempi relativamente brevi, la pineta sia destinata ad evolversi verso la faggeta. Se si vuole conservare la pineta occorre creare le condizioni ecologiche idonee per rinnovare il pino.
  817. A tal riguardo potrà essere applicato un trattamento di basso impatto ambientale come il taglio a buche (Mercurio 2010). In questo caso specifico il diametro medio delle buche sarà pari a 0,75-1 volte l'altezza delle piante circostanti (Menguzzato 1994). Gli interventi saranno distanziati nel tempo (5-10 anni), in modo da ridurre l’impatto visivo e soprattutto per costituire un paesaggio articolato con un profilo stratificato.
  818. Esperienze condotte mediante l’applicazione del taglio a buche in Calabria hanno messo in evidenza che le dimensioni ottimali delle buche per favorire la rinnovazione naturale del pino laricio dovrebbe essere >800 m2 (Gugliotta et al. 2006, Bagnato et al. 2012a, Muscolo et al. 2014).
  819. L'insediamento e l'affermazione della rinnovazione è facilitata dalle scarificazioni prodotte dall’eventuale strascico dei tro chi. Se l’affermazione della rinnovazione è ostacolata dallo strato erbaceo, si può rendere opportuna una leggera lavorazione del terreno.
  820. L’importanza di rilasciare gli alberi monumentali per le caratteristiche storiche ed estetiche è ampiamente condivisa soprattu to nelle aree protette: potranno essere rilasciati i soggetti di maggiori dimensioni soprattutto lungo le strade.
  821. Nelle pinete giovani ad elevata densità sono indispensabili i diradamenti per aumentare la resistenza meccanica, la difesa sanitaria e migliorare lo stato idrico (Compostella e Iovino 1999). Si praticheranno diradamenti selettivi dal basso e misti, di forte intensità (30-40% in numero delle piante) con il primo intervento, in seguito si procederà con intensità graduata in rapporto alla risposta del popolamento all'intervento precedente.
  822. L’obiettivo è di mantenere una struttura complessa a più piani. Oltre al taglio a buche, è stato suggerito il “taglio a scelta a piccoli gruppi” che prevede l’eliminazione di 2-3 grandi alberi, creando vuoti di superficie non superiore a 80-100 m2, rilasciando una provvigione minimale superiore a 200-250 m3 ad ettaro (Ciancio et al. 2004a, Ciancio et al. 2006, 2010, Iovino et al. 2017). Nelle pinete di oltre 60 anni sono più diffusi i tagli colturali con prelievi fino al 30% della massa sempre nel rispetto dei livelli minimi di provvigione.
  823. La pineta va mantenuta dove riveste importanza paesaggistica e nelle aree naturali sue proprie. Tuttavia sono da prevedere interventi volti ad accelerare le dinamiche evolutive delle pinete verso formazioni più mature quali faggete e querceti di rovere o di cerro.
  824. Restauro della faggeta
  825. Va perseguito nelle pinete biplane dove il faggio occupa in maniera massiccia il piano dominato; l’intervento dovrà assecondare la successione naturale rimuovendo gradualmente il pino. Dove il faggio è stato governato a ceduo e vi sono condizioni adeguate, occorre procedere con i tagli di avviamento all'alto fusto. Per favorire la ricostituzione della faggeta è necessario, laddove il grado di evoluzione del suolo lo consente, rimuovere le cause che hanno favorito l’affermazione del pino rispetto al faggio, ovvero mantenere una copertura del suolo adeguata e far cessare il pascolo. Tali interventi si configureranno in una eliminazione graduale del pino.
  826. Restauro del querceto
  827. Per i boschi misti di pino e rovere meridionale che assumono spesso l’aspetto del pascolo alberato è necessaria una serie di i terventi: difendere la rinnovazione naturale di rovere dal pascolo e quindi mantenere parte dello strato arbustivo (ginepro emisferico) che esercita un’azione di protezione; eventuale impianto artificiale di rovere con distribuzione casuale a gruppi in aree aperte; graduale smantellamento del pino; escludere dal taglio tutte le piante adulte di rovere per favorire un’eventuale disseminazione naturale.
  828. Per quanto riguarda il restauro delle pinete degradate e a bassa densità, si prospetta la piantagione di gruppi di specie della stessa serie dinamica con funzione di disseminazione e di innesco dei processi evolutivi verso la vegetazione naturale potenziale della zona.
  829. Pinus nigra subsp. calabrica, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Quercus cerris, Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apen ina, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Cytisus scoparius, Cytisus villosus, Chamaespartium sagittale, Juniperus communis subsp. hemisphaerica, Juniperus communis subsp. nana, Ostrya carpinifolia, Populus tremula, Malus sylvestris, Rosa canina, Pyrus pyraster.
  830. /
  831. Rinnovazione di faggio all’interno di un impianto di pino laricio.
  832. I boschi di castagno (Castanea sativa Mill.) rappresentano una formazione molto diffusa e caratterizzante il paesaggio della Calabria particolarmente nella Catena Costiera, Presila, Serre Vibonesi, Aspromonte (Arcidiaco et al. 2006, Iovino et al. 2017).
  833. Il castagno è stato diffuso dall'uomo, analogamente a quanto è avvenuto in tutta la penisola, per l'importanza economica, mediante la trasformazione della vegetazione originaria (cenosi di sostituzione) di querceti caducifogli e leccete a bassa quota, e, di faggete in alto. Si distinguono i boschi (cedui) destinati alla produzione legnosa dai castagneti da frutto (fustaie) di oltre 50 anni di età.
  834. Categoria: Castagneti
  835. ● Castagneto montano
  836. − Variante con abete bianco
  837. − Variante con faggio
  838. − Variante con ontano napoletano
  839. ● Castagneto submontano
  840. − Variante con leccio
  841. − Variante con querce caducifoglie
  842. ● Castagneto da frutto
  843. Il castagneto montano si colloca su tutti i sistemi montuosi della regione ai limiti superiori di vegetazione del castagno tra 1000 e 1300 m (Iovino et al. 2017), su scisti biotitici, sabbie e conglomerati, graniti, filladi, gneiss.
  844. Fisionomicamente questi popolamenti si presentano su uno o due piani, in quest’ultimo caso, il piano superiore è rappresentato dalle matricine e quello inferiore dai polloni.
  845. L'inquadramento fitosociologico dei castagneti è problematico in quanto si tratta di formazioni di origine antropica, non è quindi possibile riferirli ad una specifica associazione. Il corteggio floristico che li accompagna risente però delle cenosi che hanno sostituito: in particolare nel castagneto montano sono ben rappresentate le specie nemorali dei Fagetalia sylvaticae ripo tate tra le specie indicatrici.
  846. /
  847. Castagneti mesofili a contatto con la faggeta (Catena Costiera)
  848. Strato arboreo: Castanea sativa.
  849. Strato arbustivo: Cytisus villosus, Rubus hirtus.
  850. Strato erbaceo: Brachypodium sylvaticum, Euphorbia meuselii, Geranium versicolor, Sanicula europaea, Viola reichenbachiana.
  851. Il castagneto montano è ordinariamente governato a ceduo. Il trattamento è il taglio a raso con rilascio di 80-100 matricine ad ettaro di I e II turno.
  852. Negli ultimi decenni si è assistito ad un allungamento fisiologico dei turni legato ad esigenze di mercato e di manodopera (Avolio 1998, Mercurio e Spampinato 2006, Mercurio et al. 2009a). I turni oscillano da (10) 12-15 fino a 30 anni (Ciancio et al. 2004b, Iovino et al. 2017).
  853. In alcuni casi i cedui non sono più a regime e/o sono abbandonati da oltre 40 anni. Si nota una certa frequenza del cancro cor icale e del mal dell'inchiostro.
  854. Variante con abete bianco
  855. Variante con faggio
  856. Variante con ontano napoletano
  857. Il pascolo e la frequentazione antropica favoriscono le specie ruderali e nitrofile come Pteridium aquilinum, Urtica dioica, Rumex sanguineus, Chaerophyllum temulum, che testimoniano di una situazione di degrado del bosco.
  858. La tendenza evolutiva del castagneto montano è, in assenza di disturbi, verso le formazioni originarie: faggeta o popolamenti misti abete-faggio. Mentre con le ceduazioni, il rapido sviluppo dei polloni soffoca le specie concorrenti. Quindi la permanenza di questi consorzi è legata ai costanti interventi di ceduazione e alla capacità concorrenziale del castagno che impedisce l'afermazione di altre specie arboree.
  859. Il castagno è specie molto longeva con una capacità pollonifera quasi inesauribile, il cui apparato radicale si ricostituisce a ogni ceduazione (Giannini et al. 2014, Manetti et al. 2017).
  860. Nei cedui abbandonati merita attenzione la quantità di necromassa che può rendere problematica qualsiasi forma di gestione e di incendi ad alta magnitudine. La Fauci e Mercurio (2008) riportano valori di 21 m3 ad ettaro per cedui di 40 anni e di 50 m3 per quelli di 45 anni, mentre Marziliano et al. (2013) nei cedui di 50 anni hanno riscontrato valori di 23 m3 ad ettaro e ancor più elevata nei cedui di 25 anni, circa 69 m3.
  861. All’interno delle aree protette si dovrà valutare se vi sono le condizioni per mantenere il governo a ceduo o se, per condizio i sociali ed ecologiche, è opportuno favorire l’evoluzione verso la vegetazione naturale potenziale. Nella Zona B dei Parchi se si vuole applicare una sostenibilità ecologica al governo a ceduo occorre limitare la superficie e la contiguità tra le taglia e soprattutto nelle aree in forte pendenza (> 30%) su substrati facilmente erodibili, rilasciare anche piante diverse da quelle di castagno e segnatamente anche alcuni soggetti ad accrescimento indefinito. Congrue fasce di rispetto devono essere mantenu e lungo i corsi d’acqua, i crinali e le strade. Il rilascio dei residui della lavorazione sul terreno (compatibilmente con la difesa antincendio e della diffusione di malattie) è sempre opportuno ai fini della conservazione della difesa del suolo.
  862. L’ “avviamento a fustaia” non costituisce di per sé una misura a carattere conservazionistico: infatti, nel caso del castagno, si tratta di un semplice allungamento di turno di un ceduo dal momento che la rinnovazione sarà sempre agamica.
  863. Nel caso dei cedui a regime gli obiettivi della gestione si configurano nel mantenimento del governo a ceduo per l'importanza economico-sociale che ancora rivestono, per la facilità di autoperpetuazione della specie e di gestione. Nei cedui che hanno superato i 40-50 anni, posti in condizioni pedologiche favorevoli, si può riavviare il regime dei tagli, senza dover temere per la ripresa agamica (Giudici e Zingg 2005). Secondo la normativa forestale calabrese (Reg. 2/2020 art. 32 comma 7) è ammessa la ceduazione nei popolamenti di castagno che non hanno oltrepassato 48 anni, pari al doppio del turno medio di 24 anni: la sosteniilità economica prevale su quella ecologica.
  864. La scelta della durata del turno deve tener conto di vari aspetti: densità delle ceppaie, difesa e conservazione della fertili à del suolo, aumento dello stoccaggio del carbonio, dinamica dell’incremento legnoso, impatto sull’ambiente, incidenza delle fitopatie; ma in maniera preminente dipende dal tipo di proprietà e dall’andamento del mercato degli assortimenti.
  865. Attualmente vi è richiesta di materiale per paleria (opere di difesa del suolo, vigneti, sostegni di piante ornamentali e di prodotti orticoli, chiudende) ed è crescente la richiesta di materiale per travature che trova collocazione soprattutto nel centro-nord del Paese. Il materiale di piccole dimensioni viene impiegato per la carbonificazione e ora più di frequente viene triturato per usi energetici.
  866. I turni di riferimento sono di: 12-15; 16-18; 20-25; 25-30; 30-40 anni. Oltre i 40-50 anni il castagno mostra segni di disseccamento, compaiono i marciumi e aumenta l’incidenza della cipollatura. I primi due turni interessano le proprietà private e gli altri quelle pubbliche per ottenere materiale di maggiori dimensioni (Avolio 1987b, 1998, Amorini e Manetti 1997, 2002, Manetti et al. 2017). Con queste sequenze colturali si prevedono sfollamenti e uno o due diradamenti fino al taglio finale: un taglio a raso anche con rilascio di matricine di I e II turno, in ragione di 30 o 50 ad ettaro quando la pendenza supera di 50%.
  867. Oltre all’epoca di taglio consuetudinaria si può prevedere (in teoria) anche un taglio condotto tutto l’anno con limitazione ai mesi estivi (Ciancio e Menguzzato 1985, Avolio et al. 1994).
  868. Una buona gestione dovrebbe attenuare gli impatti sull’ambiente delle tagliate, attraverso: il contenimento delle superfici di taglio (<10 ettari e non oltrepassare i 5 ettari con pendenze superiori del 30%) rispettando un lasso temporale di 3 anni, periodo in cui si annullano gli effetti delle ceduazioni sulla erosione del suolo (Garfì et al. 2006). Il rilascio di fasce di rispetto lungo le strade, i crinali, i corsi d'acqua e gli impluvi e di specie sporadiche e a legname pregiato. Il pascolo va sempre escluso nei primi anni dopo la ceduazione. Il rilascio dei residui della lavorazione sul terreno (compatibilmente con la difesa antincendio e della diffusione di malattie) è sempre opportuno ai fini della conservazione della difesa del suolo.
  869. Nel caso di penetrazione dell’abete bianco (tipico delle Serre) può essere favorita la mescolanza a gruppi con l'abete per diversificare la produzione legnosa: in questo caso, l’abete va aiutato a vincere la concorrenza del castagno.
  870. Nelle zone marginali per il castagno, dove si assiste alla penetrazione del faggio nel bosco di castagno, si può favorire l’evoluzione verso il ritorno della vegetazione originaria.
  871. Nel caso di incendi è sufficiente la succisione delle ceppaie per ricostituire il bosco di castagno.
  872. Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Cytisus villosus, Cytisus scoparius, Malus sylvestris, Pyrus pyraster.
  873. Il limite altimetrico inferiore di vegetazione del castagno varia in funzione delle condizioni igrometriche.
  874. In Aspromonte i limiti sono nel versante tirrenico da (200) 400 fino a 1000-1100 m, e, da 800 a 1300 m in quello ionico (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002). Nelle Serre da 600-700 m fino a 900-1000 m (Mercurio e Spampinato 2006, Iovino et al. 2017). Nella Catena Costiera il castagno raggiunge 1000-1100 m. Nella Presila il castagno si trova oltre i 500 m fino a 1000 m (Arcidiaco et al. 2006). Nella Catena del Mancuso-Reventino da 600 a 1000 m (Arcidiaco et al. 2006, Mercurio et al. 2009a). Sui versanti occidentali della Sila, i castagneti si estendono da 650 e fino a 1050 m e su quelli orientali da 900 a 1200 m (Iovino et al. 2017).
  875. Sono popolamenti con uno o due piani al variare dell’età e della presenza o meno di matricine.
  876. Il castagneto submontano deriva dalla sostituzione del leccio o di querce caducifoglie: oltre a queste specie si associa anche all’acero napoletano.
  877. Questi castagneti si localizzano su scisti biotitici, sabbie e conglomerati, graniti, filladi, gneiss, arenarie, soprattutto nella fascia mesomediterranea su superfici poco o mediamente acclivi con suoli profondi, acidi o sub acidi, a tessitura prevalentemente franco-sabbiosa.
  878. Da un punto di vista fitosociologico questi castagneti non sono riferibili ad una specifica associazione in quanto si tratta di impianti artificiali. Il corteggio floristico risente delle peculiari condizioni ecologiche e delle cenosi di sostituzione: esso risulta caratterizzato dalla prevalenza di specie nemorali termofile o meso-termofile caratteristiche dei Quercetea ilicis riportate tra le specie indicatrici.
  879. Strato arboreo: Castanea sativa.
  880. Strato arbustivo: Erica arborea, Phillyrea latifolia, Quercus ilex.
  881. Strato erbaceo: Luzula forsteri, Poa sylvicola, Ruscus aculeatus, Viola alba subsp. dehnhardtii, Teucrium siculum.
  882. Il castagneto submontano è ordinariamente governato a ceduo. Il trattamento più diffuso è il taglio a raso con o senza rilascio di matricine di 1 e 2 turni. I turni oscillano da (10) 12-15 a 18-20 anni, ma nelle proprietà demaniali sono anche maggiori e talvolta si osservano soprassuoli di oltre 40 anni in abbandono. Ancora si esegue (come nelle Serre) la modellatura della ceppaia a “chierica di monaco”. Gli sfollamenti sulla ceppaia sono abbastanza diffusi, il taglio viene eseguito: a) a livello di ceppaia se il materiale ricavato è costituito da paletti per recinzione e per il sostegno delle colture orticole, fascina e carbone; oppure b) “alla provenzale” ossia a petto d’uomo (evidentemente per ridurre i costi dell’intervento), al 2-3° anno, rilasciando 2-3 polloni per ceppaia quando non vi sono condizioni economiche favorevoli.
  883. Variante con leccio
  884. Variante con querce caducifoglie
  885. La stabilità di questi consorzi è legata ai costanti interventi di ceduazione e alla capacità concorrenziale del castagno che impedisce l'affermazione di altre specie arboree. L’abbandono delle pratiche colturali favorisce le specie della vegetazione naturale potenziale: nelle Serre e nell’Aspromonte si inserisce soprattutto il leccio e le specie del ciclo di Quercus pubescens, mentre nella Catena Costiera è stato osservato l’acero ottuso.
  886. Il cambiamento climatico produce alle quote più basse e nei versanti più aridi condizioni di stress che aumentano la frequenza delle affezioni patologiche.
  887. All’interno delle aree protette si dovrà valutare se vi sono le condizioni per mantenere la coltura del castagno e segnatamente del governo a ceduo o se, per condizioni sociali ed ecologiche, è opportuno favorire l’evoluzione verso la vegetazione naturale potenziale. Nella Zona B dei Parchi se si vuole applicare una sostenibilità ecologica al governo a ceduo occorre limitare la superficie e la contiguità tra le tagliate soprattutto nelle aree in forte pendenza (> 30%), su substrati facilmente erodibili, rilasciare anche piante diverse da quelle di castagno e anche alcuni soggetti ad accrescimento indefinito. Congrue fasce di rispetto devono essere mantenute lungo i corsi d’acqua, i crinali e le strade. Il rilascio dei residui della lavorazione sul terreno (compatibilmente con la difesa antincendio e della diffusione di malattie) è sempre opportuno ai fini della conservazione della difesa del suolo.
  888. Non costituisce di per sé una misura a carattere conservazionistico l’ “avviamento a fustaia”, in quanto, per il castagno, si ratta di un semplice allungamento di turno di un ceduo dal momento che la rinnovazione sarà sempre agamica.
  889. Nel caso dei cedui a regime gli obiettivi della gestione si configurano nel mantenimento del governo a ceduo per l'importanza economico-sociale che ancora rivestono, per la facilità di autoperpetuazione della specie e di gestione. Nei cedui che hanno superato i 40-50 anni, posti in condizioni pedologiche favorevoli, si può riavviare il regime dei tagli, senza dover temere per la ripresa agamica (Giudici e Zingg 2005). Secondo la normativa forestale calabrese (Reg 2/2020 art. 32 comma 7) è ammessa la ceduazione nei popolamenti di castagno che non hanno oltrepassato 48 anni, pari al doppio del turno medio di 24 anni. La sostenibilità economica prevale su quella ecologica.
  890. La scelta della durata del turno deve tener conto di vari aspetti: densità delle ceppaie, difesa e conservazione della fertili à del suolo, aumento dello stoccaggio del carbonio, dinamica dell’incremento legnoso, impatto sull’ambiente, incidenza delle fitopatie; ma in maniera preminente dipende dal tipo di proprietà e dall’andamento del mercato degli assortimenti.
  891. Attualmente vi è richiesta di materiale per paleria (opere di difesa del suolo, vigneti, sostegni di piante ornamentali e di prodotti orticoli, chiudende) ed è crescente la richiesta di materiale per travature che trova collocazione soprattutto nel centro-nord del Paese. Il materiale di piccole dimensioni viene impiegato per la carbonificazione e ora più di frequente viene triturato per usi energetici.
  892. I turni di riferimento sono di: 12-15; 16-18; 20-25; 25-30; 30-40 anni. Oltre i 40-50 anni nel castagno si notano segni di disseccamento, compaiono i marciumi e aumenta l’incidenza della cipollatura. I primi due turni interessano le proprietà private e gli altri quelle pubbliche per ottenere materiale di maggiori dimensioni (Avolio 1987b, 1998, Amorini e Manetti 1997, 2002, Manetti et al. 2017). Con queste sequenze colturali si prevedono sfollamenti e uno o due diradamenti fino al taglio finale: un taglio a raso anche con rilascio di matricine di I e II turno, in ragione di 30 o 50 ad ettaro quando la pendenza supera il 50%.
  893. Una buona gestione dovrebbe attenuare gli impatti sull’ambiente delle tagliate attraverso: il contenimento delle superfici di aglio (<10 ettari e non oltrepassare i 5 ettari con pendenze superiori al 30%) rispettando un lasso temporale di 3 anni, periodo in cui si annullano gli effetti delle ceduazioni sulla erosione del suolo (Garfì et al. 2006). Il rilascio di fasce di rispetto lungo le strade, i crinali, i corsi d'acqua e gli impluvi e di specie sporadiche e a legname pregiato. Il pascolo va sempre escluso nei primi anni dopo la ceduazione. Il rilascio dei residui della lavorazione sul terreno (compatibilmente con la difesa antincendio e della diffusione di malattie) è sempre opportuno ai fini della conservazione della difesa del suolo.
  894. Nel caso dei boschi di castagno con alta frequenza di cancro corticale (diversamente da quanto indicato all’art. 45 delle PMPF 2012), è sempre bene rilasciare le matricine in quanto possono contenere forme ipovirulente che contribuiscono a devitalizzare la malattia.
  895. Nelle zone in forte pendenza (> 30%) e dove il terreno è più instabile si verifica spesso il crollo-ribaltamento delle ceppaie. Infatti nei cedui invecchiati si crea uno squilibrio tra il sistema radicale che non è in grado di rinnovarsi e la elevata biomassa epigea che in occasioni di eventi meteorologici importanti determina il crollo-ribaltamento (Fonti et al. 2006). In questi casi si possono riprendere le ceduazioni o “ricucire” le zone aperte con piantagioni di leccio, querce caducifoglie e aceri.⤀
  896. Nei cedui abbandonati, posti in zone disagiate o su suoli con scarsa disponibilità idrica, dove si è già avviata la fase di reinserimento delle latifoglie (caso del leccio) o molto attaccati dalle varie fitopatie, si può favorire l'evoluzione verso le formazioni autoctone (leccio, querce caducifoglie).
  897. Nel caso di incendi è sufficiente la riceppatura delle ceppaie per ricostituire il bosco di castagno.
  898. Anche se si dovrà riconsiderare nel tempo che gli effetti dei cambiamenti climatici (inaridimento del clima e aumento delle temperature) potranno spostare l’area di vegetazione del castagno verso l’alto.
  899. Quercus virgiliana, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus ilex, Quercus congesta, Acer neapolitanum, Cytisus scoparius, Alnus cordata, Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Prunus avium, Malus sylvestris, Pyrus pyraster, Arbutus unedo.
  900. I castagneti da frutto si trovano prevalentemente nelle zone migliori e pianeggianti, in maggior misura alle quote più basse dell’area di vegetazione del castagno.
  901. Il castagneto da frutto è diffuso in Aspromonte fino ad una quota di 1200 m nel versante meridionale e di 800-900 m in quello occidentale su scisti, sabbie e conglomerati pleistocenici granitici. Nelle Serre si trovano da 650 a 950 m su graniti. Nel Reventino i castagneti da frutto sono frequenti tra 700 e 1200 m su scisti filladici, graniti, serpentini, su suoli profondi, e cos ituiscono cenosi di sostituzione di cerrete, ontaneti e faggete e talora anche di querceti di roverella s.l. (Mercurio et al. 009a). Nella Catena Costiera si trovano tra 400 e 950 m e nella Sila occidentale tra 600 e 1000 m. Nella Sila Greca i castagne i da frutto occupano suoli decarbonati (Bonin e Gamisan 1976) tra 800 e 1100 m.
  902. Le cultivar da frutto più diffuse sono, oltre alla "Inserta”: “Curcia”, “Mamma”, “Rusellara”, “Sarastrittara”, destinate alla essiccazione e alla produzione di farine (Avolio 1987a, Avolio e Clerici 2000, Bellini e Borrelli 2016).
  903. I castagneti da frutto sono formazioni specializzate, monoplane con la fisionomia di alto fusto di oltre 50 anni. In Aspromonte i castagni da frutto coltivati sugli altopiani sono inseriti in seminativi o pascoli creando un peculiare assetto paesaggistico.
  904. Queste formazioni non sono inquadrabili dal punto di vista fitosociologico in quanto di natura artificiale, con la componente erbacea fortemente influenzata dall’attività antropica e costituita da un eterogeneo corteggio di specie nitrofilo-ruderali.
  905. Castanea sativa. Oltre al castagno non esistono specie indicatrici particolari, in quanto si tratta di cenosi colturali individuate su base fisionomica.
  906. Sono popolamenti finalizzati alla produzione di frutto; le distanze d'impianto sono comprese tra 8 x 8 m (150 piante/ettaro) e 10 x 10 m (100 piante ad ettaro). Il castagneto viene tradizionalmente lavorato in Aspromonte e assume l'aspetto di una coltura frutticola: in alcuni casi si eseguono colture agrarie intercalari tanto da divenire sistemi agroforestali.
  907. Molti di questi castagneti sono stati abbandonati di recente, ma in parte vengono ancora coltivati con potature, reinnesti e ripuliture dello strato arbustivo attorno alle piante.
  908. Nessuna.
  909. Sono formazioni a carattere artificiale la cui l'evoluzione è bloccata dall'intervento colturale da parte dell’uomo. Laddove i castagneti vengono abbandonati, l’evoluzione è verso la lecceta nelle aree a bioclima mediterraneo, mentre nelle zone più umide tirreniche con bioclima temperato si ha l’ingresso di ontano napoletano che struttura una formazione preforestale e successivamente di altre latifoglie mesofile quali il cerro e specie del ciclo di Quercus pubescens (Maiorca et al. 2003; 2006).
  910. Il castagneto da frutto assume un valore economico e paesaggistico e di testimonianze colturali storico-tradizionali. La sua conservazione esula da valutazioni ecologiche (biodiversità). Inoltre, quando incluso nell'ambito di altre formazioni forestali, può costituire un elemento per la difesa antincendio.
  911. I castagneti monumentali vanno salvaguardati oltre che per le dimensioni, per la conservazione di testimonianze colturali storico-tradizionali e in quanto costituiscono microhabitat per molte specie di insetti minacciati (Parisi et al. 2020) e di uccelli.
  912. Dove i castagneti da frutto assumono ancora un alto significato economico dovrebbero essere valorizzati. Gli interventi dovran o prevedere il miglioramento della tecnica colturale: esecuzione di potature di mantenimento e di riforma (Bonous 2014), controllo delle condizioni fitosanitarie. Sostituendo le piante in declino con l’innesto dei nuovi polloni con cultivar pregiate locali (Avolio 1998, Castellottti e Doria 2016, Bellini e Borrelli 2016) per migliorare il prodotto sul piano qualitativo. Una particolare attenzione dovrà essere data alla lotta al cinipide galligeno del castagno laddove è stato lanciato l’antagonista attraverso una tecnica colturale mirata.
  913. Nel caso di castagneti da frutto abbandonati o degradati ma ancora di interesse economico o storico-culturale, le tecniche di icostituzione del castagneto da frutto, soprattutto all’interno delle aree protette, sono volte a mantenere la coltivazione tradizionale e con le stesse cultivar locali. Diversamente nel caso di castagneti posti al limite dell’optimum vegetativo e affetti da più patologie, si può agevolare la evoluzione verso la vegetazione potenziale naturale (Maltoni e Paci 2001).
  914. Castanea sativa, Quercus virgiliana, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus ilex, Acer neapolitanum, Sorbus domestica, Cytisus scoparius, Alnus cordata, Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Prunus avium, Malus sylvestris, Pyrus pyraster, Arbutus unedo.
  915. /
  916. Castagno monumentale presso Costantino (Aspromonte)
  917. Comprende le formazioni forestali dominate da querce caducifoglie che svolgono un notevole ruolo nella vegetazione forestale calabrese in termini di superfici occupate e di rilevanza economica. In questo gruppo rientrano i querceti del ciclo di Quercus pubescens, le roverelle, all’interno del quale sono state individuate varie entità diversamente inquadrate sotto il profilo tassonomico (Brullo et al. 1999, Pignatti 2017a, b, 2018, Pignatti et al. 2019, Musarella et al. 2018, Di Pietro et al. 2020). Ai fini della gestione forestale l’esatta distinzione tassonomica delle varie specie all’interno di questo complesso gruppo non è significativa. L’unica eccezione è stata fatta per le due querce del ciclo della roverella: Quercus virgiliana e Quercus congesta che mostrano una diversa ecologia localizzandosi la prima nella fascia collinare e basso montana e la seconda in quella montana.
  918. Categoria: Querceti caducifogli
  919. ● Querceti di farnetto
  920. − Variante con leccio
  921. − Variante con acero napoletano
  922. − Variante con cerro
  923. − Variante con carpini
  924. ● Querceti di rovere meridionale
  925. − Variante con pino laricio
  926. − Variante con faggio
  927. ● Querceti di roverella termofili
  928. − Sottotipo a erica
  929. − Sottotipo a rosa sempreverde
  930. − Variante con olivastro
  931. − Variante con acero trilobo
  932. − Variante con sughera
  933. ● Querceti di roverella mesofili
  934. − Variante con leccio
  935. ● Querceti di cerro termofili
  936. − Variante con sughera
  937. ● Querceti di cerro mesofili
  938. − Variante con acero di Lobelius
  939. /
  940. Foglie e ghiande di Quercus virgiliana
  941. /
  942. Querceti di cerro mesofili nella riserva naturale Valli Cupe.
  943. Fascia submontana e montana inferiore (da 600-700 a 1110-1200 m) sui versanti ionici, poco o mediamente acclivi, dall’Aspromo te al Pollino. Nella Sila Greca il farnetto è misto a cerro fino a 1200 m su graniti e filladi, mentre a quote sui 700-800 m tende a diventare dominante (Bonin e Gamisans 1976, Avolio 1994, Scelsi e Spampinato 1996, AA.VV. 2008).
  944. Un bosco isolato di farnetto e cerro (Bosco di Mavigliano, Cosenza) si trova a 296 m di quota su conglomerati sabbiosi e argille grigio-scure (Maiorca e Puntillo 2009).
  945. Nelle Serre il farnetto è presente esclusivamente nel versante orientale (ionico) da (550) 700 fino a 1100 m dove entra in contatto con il faggio su graniti (sabbione delle Serre) (Mercurio e Spampinato 2006).
  946. In Aspromonte, dai 600 ai 1100-1200 m, il farnetto entra in contatto con il leccio, altre querce caducifoglie e il faggio, su silts, arenarie micacee e conglomerati di rocce cristalline cementati; scisti, quarzoso biotitici e quarzoso feldspatici; arenarie quarzose brune con intercalazioni di siltiti e argille (Avolio 1994, Cameriere et al. 2003, Spampinato et al. 2008).
  947. /
  948. Foglie e ghiande di Quercus frainetto
  949. Fisionomicamente si tratta di boschi a dominanza di farnetto con presenza sporadica di acero napoletano, sorbo domestico, leccio, faggio, cerro, castagno, roverella s.l. e orniello.
  950. Lo strato arbustivo è caratterizzato dalla prevalenza di Cytisus villosus, Rubus hirtus ed Erica arborea. In quello erbaceo be rappresentate sono diverse specie nemorali tra cui Euphorbia meuselii e Poa sylvicola. Sono inquadrati nel Cytiso villosi-Quercetum frainetto Scelsi & Spampinato 1996, cenosi forestale che si insedia su suoli bruni acidi, profondi ed evoluti, originati da substrati di natura silicea metamorfici (filladi, scisti, gneiss), graniti e da substrati sedimentari di natura arenacea o conglomeratica. Il bioclima è di tipo supramediterraneo, con ombrotipo umido.
  951. Strato arboreo: Quercus frainetto, Quercus pubescens s.l.
  952. Strato arbustivo: Erica arborea, Cytisus villosus.
  953. Strato erbaceo: Euphorbia meuselii, Poa sylvicola, Clinopodium vulgare subsp. arundanum.
  954. Nei boschi di farnetto sono stati applicati i tagli successivi senza effettuare lo “sgombero” finale per far disseminare le piante e praticare il pascolo. Frequenti i tagli a scelta, mentre nei cedui ha prevalso il taglio a raso con rilascio di matricine. Diffuso, soprattutto in Aspromonte, il pascolo ovi-caprino e bovino, svolto durante tutto l'anno, anche con carichi elevati, che incide sulla rinnovazione e sulla biodiversità della cenosi forestale.
  955. Variante con leccio
  956. Nelle Serre e in Aspromonte questa variante si osserva a quote inferiori rispetto al bosco di farnetto tipico: quando aumenta la temperatura e diminuiscono le disponibilità idriche subentra il leccio che si avvantaggia rispetto al farnetto.
  957. Variante con acero napoletano
  958. Nelle Serre nel versante ionico man mano che ci si sposta verso le esposzioni settentrionali e con l’aumento della pendenza, l’acero napoletano da subordinato diventa dominante.
  959. Variante con cerro
  960. Meno frequente, presente nella Presila.
  961. Variante con carpini
  962. Nella Presila in modo sporadico.
  963. I boschi di farnetto costituiscono formazioni stabili di tipo climatofilo della fascia altocollinare e sub montana.
  964. Formazioni regressive nella Sila Greca sono rappresentate da boschi di Carpinus orientalis con residui di farnetto e cerro (Bonin e Gamisans 1976).
  965. Il degrado della formazione forestale a causa di incendi e pascolo ne determina la sostituzione con formazioni arbustive a Erica arborea e Cytisus scoparius.
  966. Nei boschi misti di farnetto e leccio, se non vengono più utilizzati, tende a dominare il farnetto e il leccio diviene minoritario.
  967. È da favorire il governo a fustaia nei popolamenti puri applicando il taglio colturale, data la frequente complessità strutturale. In questo contesto vanno rilasciati i soggetti di maggiori dimensioni e quelli di interesse ecologico con cavità, rami secchi, ecc. Il controllo del pascolo (riduzione del carico, rotazione) è la condizione necessaria per assicurare lo sviluppo della rinnovazione naturale e la conservazione di questi soprassuoli.
  968. Nelle fustaie di farnetto con abbondante presenza di leccio nel piano dominato bisogna avere l’accortezza di eliminare gradualmente parte delle piante di farnetto che non sono più in grado di disseminare, di diradare il leccio per favorire la rinnovazione naturale di farnetto, la più penalizzata dal pascolo.
  969. Nei cedui in abbandono occorre procedere con i tagli di avviamento all’alto fusto verso strutture multistratificate.
  970. Nei cedui ancora a regime all’interno delle aree protette è opportuno limitare l’estensione delle tagliate (<10 ettari o < 5 ettari per pendenze superiori al 30%) e adottare accorgimenti (distribuzione delle matricine, conformazione dei limiti delle tagliate alle linee naturali, rilascio di fasce a contatto di zone sensibili, ecc.) per ridurre gli impatti ecologici.
  971. Nelle stazioni più difficili o dove l'evoluzione è bloccata va esclusa qualsiasi forma di intervento (taglio e pascolo).
  972. Nei cedui di farnetto a regime in zone ben servite da strade e in buone condizioni ecologiche si può proseguire con il taglio a raso e rilascio di 50-80 matricine ad ettaro di 2 classi cronologiche con turni di 18-20 anni.
  973. Nei boschi di farnetto a partecipazione di leccio nel piano sottostante (fustaia sopra ceduo) gli interventi possono configurarsi nel: a) taglio parziale nel soprassuolo dominante di farnetto (soprattutto le piante deperienti, non più in grado di assicurare la disseminazione); b) diradamento dei polloni di leccio allo scopo di favorire lo sviluppo della rinnovazione di farnet o già esistente. Oppure si può procedere con il trattamento a ceduo matricinato con matricine di farnetto pari a 50-80 ad ettaro di 2 classi cronologiche e con il turno del leccio di 25 anni.
  974. Tuttavia la selvicoltura del farnetto si dovrebbe orientare verso l’alto fusto per valorizzare il legname.
  975. Nelle fustaie a prevalenza di farnetto a struttura complessa e articolata in più strati, ossia micropopolamenti giustapposti aventi ciascuno età e dimensioni diverse (Agrimi et al. 1991, Ciancio et al. 1995), il trattamento di riferimento è il taglio colturale, che consiste nell’eliminare le piante senescenti e nel diradare i gruppi più giovani per favorire l'insediamento e lo sviluppo della rinnovazione di farnetto. La provvigione minimale di riferimento è di 250 m3 ad ettaro. Il prelievo verrà applicato in base all’entità della provvigione, a titolo di riferimento pari a un valore massimo del 25% della massa presente. Il pascolo va sempre escluso in quanto rappresenta la condizione necessaria per assicurare lo sviluppo della rinnovazione.
  976. Nei boschi degradatati con ridotta densità del soprasuolo e scomparsa degli orizzonti organici del suolo si procede alla piantagione a “isole” delle specie della stessa serie dinamica dei querceti di farnetto, escludendo ogni altra forma di utilizzo, compreso il pascolo.
  977. Quercus frainetto, Quercus ilex, Quercus cerris, Fraxinus ornus, Castanea sativa, Sorbus domestica, Acer neapolitanum, Ostrya carpinifolia, Erica arborea, Cytisus villosus, Daphne laureola, Ilex aquifolium.
  978. Nelle Serre la rovere meridionale (Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica) costituisce popolamenti di limitata estensione, su graniti, granodioriti, esclusivamente nel versante ionico, tra 800 e 1500 m, e interessa una fascia compresa tra la faggeta e i querceti a dominanza di Q. pubescens s.l., di Q. frainetto o di leccio (Mercurio e Spampinato 2006).
  979. In Sila si rinviene in modo frammentato all’interno della fascia della faggeta termofila.
  980. In Aspromonte la rovere meridionale si trova su gneiss, scisti quarziferi, graniti fino da 1400 a 1700 m (Modica 2001, Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Spampinato et al. 2008). Attualmente sono rimasti popolamenti di superficie limitata all’interno delle faggete, nuclei o singoli individui vetusti in zone a forte pendenza o in tratti scoscesi.
  981. /
  982. Querceti di rovere meridionale pascolati (Aspromonte)
  983. Nelle Serre la fisionomia è quella delle fustaie abbastanza dense a dominanza di rovere meridionale alla quale si associano in via subordinata faggio, leccio, acero napoletano, sorbo domestico, carpino nero, quercia congesta.
  984. In Aspromonte, alla rovere si associa faggio, pino laricio, acero napoletano, leccio. Ma qui la fisionomia prevalente è quella dei pascoli arborati, oggetto di intenso sfruttamento per il pascolo. I querceti di rovere si localizzano nella fascia montana tra 800-900 e 1300-1400 m, caratterizzata da un bioclima temperato.
  985. Dal punto di vista fitosociologico i querceti di rovere meridionale sono inquadrati nell’Aristolochio luteae-Quercetum austroi alicae Brullo et al. 1999 corr. Brullo et al. 2001, associazione descritta per l’Aspromonte, presente anche sulle Serre.
  986. Strato arboreo: Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Pinus nigra subsp. calabrica, Fagus sylvatica, Acer neapolitanum.
  987. Strato arbustivo: Daphne laureola.
  988. Strato erbaceo: Euphorbia meuselii, Aristolochia lutea.
  989. Trattandosi di piccoli popolamenti si praticano interventi sporadici: tagli a scelta, spesso sono adibiti al pascolo brado.
  990. Variante con faggio
  991. Localizzata su suoli più profondi e più evoluti, a contatto con il faggio, la rovere diviene minoritaria.
  992. Variante con pino laricio
  993. Su suoli aridi, superficiali e poco evoluti.
  994. In Aspromonte l'evoluzione verso la ricostituzione del bosco di rovere non sembra possibile nei tratti dove gli orizzonti supe iori del suolo sono scomparsi a causa dell’erosione, del pascolo e dei tagli intensi del passato. Si osserva la rinnovazione della rovere all’interno dei cespugli di ginepro emisferico che la protegge dal morso del bestiame e crea dei suoli più ricchi in humus rispetto ai pascoli circostanti.
  995. Dalla degradazione del querceto si generano felceti a felce aquilina dell’Asphodelo macrocarpi-Pteridietum aquilini e i pascoli camefitici pulvinati con Armeria aspromontana dell'Armerio-Asperuletum scabrae.
  996. La rovere meridionale riveste un elevato valore naturalistico, genetico e di alto pregio tecnologico del legname (Mercurio 2016, 2020) e pertanto va conservata e ridiffusa nella sua area ottimale di vegetazione.
  997. Il sistema di gestione va distinto in base alla funzionalità dei popolamenti:
  998. - nelle fustaie a bassa densità (< 60%) si deve escludere il pascolo e lasciare nel breve-medio periodo all’evoluzione naturale per ricostituire il patrimonio organico del suolo;
  999. - nelle fustaie meglio conservate a densità normale, dove è presente una differenziazione in termini diametrici e ipsometrici, si possono eseguire interventi colturali puntuali tesi a favorire i soggetti migliori quindi la disseminazione e la rinnovazione naturale. Se sono oggetto di pascolamento si possono creare isole recintate dove si possa sviluppare la rinnovazione naturale che verranno aperte al pascolo una volta che la rinnovazione si sarà affermata.
  1000. Un’attenzione particolare va rivolta alla conservazione degli alberi vetusti (diametri di 70-90 /145-200 cm e altezza di 12/17 m) come nel Parco Nazionale dell’Aspromonte.
  1001. L’obiettivo è di valorizzare il legno di rovere, escludendo il governo a ceduo, e favorendo l’alto fusto. In questi casi si applicherà il taglio colturale (come nei popolamenti funzionali delle Serre). La provvigione minimale di riferimento è di 250 m3 ad ettaro. Il prelievo, applicato in base all’entità della provvigione, è dell’ordine del 20%. Il pascolo va sempre escluso in quanto rappresenta la condizione necessaria per assicurare lo sviluppo della rinnovazione.
  1002. Nei popolamenti degradati occorrerà eliminare le cause di disturbo, in primo luogo il pascolo, escludere dal taglio tutte le piante di rovere per favorire la disseminazione naturale.
  1003. Nei tratti a scarsa densità (< 30%) si deve procedere alla piantagione di rovere esclusivamente di provenienza locale (e con specie arboree complementari come aceri, meli, peri, sorbi) con distribuzione casuale a gruppi dove il suolo è meglio conservato, oppure reintrodurre la rovere all’interno del ginepro emisferico. Nelle situazioni di degrado estremo, si possono impiegare le specie delle fasi iniziali della stessa serie dinamica dei querceti di rovere o lo stesso pino laricio, per creare i presupposti ecologici per il ritorno spontaneo della rovere. Valutando comunque in questi casi se l’esclusione di qualsiasi forma di in ervento (Mercurio 2016, 2020) non sia la soluzione migliore.
  1004. Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Pinus nigra subsp. calabrica, Acer neapolitanum, Cytisus scoparius, Daphne laureola, Juniperus communis subsp. hemisphaerica, Malus sylvestris, Rosa canina, Pyrus pyraster.
  1005. La roverella (Quercus virgiliana), occupa la fascia collinare e montana inferiore, dove contende lo spazio ecologico al leccio. Brullo et al. (1999) evidenziano come Q. virgiliana, in passato assimilata con le altre querce del ciclo di Q. pubescens, sia una specie termofila che struttura diverse formazioni forestali localizzate nella fascia mesomediterranea e più marginalmente in quella termomediterranea.
  1006. In Sila si rinviene diffusamente in tutta la fascia ionica (Bernardo et al. 2010).
  1007. Nel Pollino e aree circostanti su substrati di natura calcarea-dolomitica, Q. virgiliana vegeta da 200 a 700 m (Mercurio et al. 2007).
  1008. Nelle Serre, nel versante tirrenico (Valle del Mesima) i querceti termofili si trovano su substrati arenacei da 250-300 m fino a 700 m dove vengono sostituiti dal leccio. Nel versante ionico si collocano su graniti tra 550 e 1050 m (Mercurio e Spampina o 2006).
  1009. Nel Mancuso-Reventino i querceti termofili occupano la fascia basale compresa tra 25 e 600 m, al di sotto di quella dei querce i di cerro. In particolare sui substrati di natura scistosa prevalgono alle quote più basse fino a 500-600 m e nei versanti più soleggiati i querceti a dominanza di Q. virgiliana con sughera, leccio e, nello strato arbustivo, erica arborea, citiso triflo o, alaterno, alloro, mirto, corbezzolo, lentisco e fillirea. La composizione dello strato arbustivo è tuttavia condizionata, oltre che dal trattamento, dal fuoco e dal pascolo (Mercurio et al. 2009a).
  1010. In Aspromonte è diffusa su tutti i versanti dal livello del mare fino a 500-600 m (Brullo et al. 2001, Spampinato et al. 2008), è particolarmente diffusa sui versanti orientali dove ancora oggi la raccolta ghianda, usata per l’allevamento dei suini, occupa un ruolo di un certo interesse economico.
  1011. Le formazioni a dominanza di roverella (specie del ciclo di Quercus pubescens), spesso associate con acero napoletano, acero rilobo, sughera e leccio, sono molto eterogenee sotto il profilo floristico ed ecologico. Sono, infatti, distinte diverse associazioni vegetali differenziate in relazione al substrato e alle caratteristiche bioclimatiche.
  1012. Nella fascia submontana del Pollino occidentale su suoli di natura calcareo-dolomitica sono presenti i querceti di Quercus pubescens s.s. alla quale si associano con ruolo subordinato Quercus cerris, Ostrya carpinifolia, Fraxinus ornus e Carpinus orientalis. Si tratta di boschi riferibili al Roso sempervirentis-Quercetum pubescentis Biondi 1986 (Mercurio et al. 2007).
  1013. Sui substrati di natura silicea, acidi, di Aspromonte e Serre, sono presenti con distribuzione discontinua sia sul versante ti renico a quote inferiori a 400 m sia su quello ionico meridionale fino a 900 m, i querceti all’Erico-Quercetum virgilianae Brullo e Marcenò 1985.
  1014. A bassa quota, fino a circa 500 m in ambito termo-mesomediterraneo su substati a reazione neutro-basica quali conglomerati o calcareniti, sono presenti le formazioni dell’Oleo sylvestri-Quercetum virgilianae Brullo 1984, molto frammentate e degradate.
  1015. Infine sul versante ionico meridionale dell’Aspromonte intorno ai 500 m, su affioramenti di rocce calcaree si rinviene il bosco a roverella s.l. e acero minore, riferibile all’Aceri monspessulani-Quercetum virgilianae Brullo, Scelsi & Spampinato 2001 (B ullo et al. 2001).
  1016. Strato arboreo: Quercus pubescens s.l., Acer monspessulanum, Quercus ilex.
  1017. Strato arbustivo: Olea europaea subsp. oleaster, Erica arborea, Pistacia lentiscus, Cytisus villosus, Rosa sempervirens.
  1018. Strato erbaceo: Arisarum vulgare, Euphorbia characias, Cyclamen hederifolium, Carex distachya.
  1019. Ceduo matricinato nei popolamenti misti, taglio a scelta nelle fustaie adibite al pascolo.
  1020. Sottotipo a rosa sempreverde
  1021. Querceti della fascia mesomediterranea su substrati calcarei della Calabria nord occidentale.
  1022. Sottotipo a erica arborea
  1023. Querceti della fascia meso mediterranea su substrati acidi.
  1024. Variante con olivastro
  1025. Querceti della fascia termo-mesomediterranea su substrati neutro basici.
  1026. Variante con acero trilobo
  1027. Querceti della fascia termo-mesomediterranea su substrati neutro basici del versante ionico.
  1028. Variante con sughera
  1029. Querceti dei substrati acidi dove la sughera può “strutturare” il soprassuolo.
  1030. Tipologia ecologicamente stabile, spesso interessata da incendi e pascolo intensivo che ne determinano la progressiva degradazione e sostituzione con formazioni di macchia a erica arborea e sparzio infestante e, in seguito a incendi reiterati, con i cespuglieti a Spartium junceum per giungere alle praterie steppiche ad Ampelodesmos mauritanicus.
  1031. Queste formazioni, spesso di ridotta estensione in conseguenza delle trasformazioni antropiche del territorio a fini agricoli o pastorali, ma di importanza paesaggistica e naturalistica, vanno conservate con interventi a carattere colturale, escludendo il pascolo, o lasciate all’evoluzione naturale. In ogni caso vanno salvaguardati i soggetti monumentali (diametri > 80 cm) o di valore ecologico con cavità, rami morti, ecc.
  1032. La sughera va sempre esclusa dal taglio.
  1033. I querceti a dominanza di roverella s.l. con carpino nero, orniello, acero ottuso, farnetto possono essere governati a ceduo con taglio a raso e rilascio di 50-80 matricine ad ettaro di 2 classi cronologiche e turni di 18-20 anni.
  1034. Nei boschi già governati a ceduo si dovrebbe cercare di applicare il ceduo composto che riassume le esigenze della produzione di ghianda e di legna da ardere, e, a causa della diversificazione strutturale e compositiva, favorisce la conservazione di habitat per molteplici specie vegetali e animali (Ciancio e Nocentini 2004, Mercurio 2020). La matricinatura dovrà essere costitui a da almeno 120 soggetti ad ettaro di cui 60-70 dell’età del turno del ceduo (allievi) e 50-60 ripartite fra le classi di età multiple del turno in ordine decrescente rispetto all’età stessa. Il turno è di 18-20 anni. Il pascolo potrà essere consentito solo dopo 4-6 anni dalla ceduazione.
  1035. Nel caso di fustaie che abbiano ancora un prevalente interesse per la produzione di ghianda, il modello di riferimento può essere la “fustaia rada da pascolo” costituita da soggetti di grandi dimensioni (70-100 ad ettaro) che consente di esaltare la produzione di ghianda e di erba; le azioni selvicolturali si possono articolare nel taglio graduale di quei soggetti deperienti che non sono più in grado di produrre seme, nella riduzione parziale del sottobosco arbustivo che ostacola il transito del bestiame. Si possono creare isole recintate dove si possa sviluppare la rinnovazione naturale che verranno aperte al pascolo una volta che la rinnovazione si sarà affermata. Il pascolo dovrà essere attentamente regolamentato come carico e come rotazione.
  1036. Nelle zone degradate (anche da incendi) ma ancora sufficientemente dense, occorre favorire la ricostituzione del querceto termofilo che si può attuare con la tramarratura delle ceppaie delle piante compromesse (Gambi e Proietti Placidi 1991) e l’allevamento successivo dei migliori polloni.
  1037. Nelle zone a bassa densità (< 30%) si possono realizzare piantagioni a “isole” delle specie della stessa serie dinamica che, grazie agli uccelli, possono svolgere la funzione di centri di diffusione. Il pascolo deve essere sempre escluso.
  1038. Quercus virgiliana, Quercus ilex, Fraxinus ornus, Quercus dalechampii, Quercus virgiliana, Arbutus unedo, Acer monspessulanum, Erica arborea, Celtis australis, Daphne gnidium, Lonicera etrusca, Lonicera implexa, Phillyrea latifolia, Rosa sempervirens, Teucrium flavum, Teline monspessulana, Viburnum tinus.
  1039. Sono i querceti a dominanza di Quercus congesta nettamente più mesofila di Q. virgiliana che occupano substrati acidi (arenarie, graniti, gneiss) da 800 a 1000 m nel Pollino, nelle Serre e in Aspromonte (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002, Mercurio et al. 2007, Mercurio e Spampinato 2006, Spampinato et al. 2008).
  1040. In Sila si estendono prevalentemente nel settore occidentale da 550 fino a 650 m, mentre in quello orientale rivestono limitate superfici da 850 a 1150 m.
  1041. Boschetti monospecifici o con altre latifoglie termo-mesofile (sorbo, orniello, leccio).
  1042. Il bosco di quercia congesta caratterizzato da arabetta maggiore (Pseudoturritis turrita) è inquadrato nell’Arabido-Quercetum congestae Brullo e Marcenò 1985.
  1043. Il bosco a quercia congesta con erica arborea dei substrati prettamente acidi è inquadrato nell’Erico arboreae-Quercetum congestae Brullo, Scelsi, Spampinato 2001.
  1044. Strato arboreo: Quercus congesta, Fraxinus ornus, Sorbus domestica.
  1045. Strato arbustivo: Erica arborea, Cytisus villosus, Sorbus torminalis.
  1046. Strato erbaceo: Brachypodium sylvaticum, Geum urbanum, Pseudoturritis turrita.
  1047. Governo a ceduo più o meno irregolare, taglio a scelta nei boschi di alto fusto pascolati.
  1048. Variante con leccio
  1049. Formazioni interessate da fenomeni di regressione a causa del pascolo e dell’incendio. In Aspromonte vaste superfici occupate da questa formazione a roverella sono state disboscate per far posto a coltivazioni agricole o a impianti artificiali quali i castagneti che si avvantaggiano dei suoli profondi e poco acclivi o pianeggianti, contrariamente alle leccete che si sono meglio conservate in quanto localizzate su superfici più acclivi con suoli meno evoluti (Brullo et al. 1999).
  1050. Queste formazioni, spesso di ridotta estensione in conseguenza delle trasformazioni antropiche del territorio a fini agricoli o pastorali, ma di importanza paesaggistica e naturalistica, vanno conservate con interventi a carattere colturale, escludendo il pascolo, o lasciate alla loro evoluzione naturale. In ogni caso vanno salvaguardati i soggetti monumentali (diametri > 80 cm) o di valore ecologico con cavità, rami morti, ecc.
  1051. I querceti a dominanza di roverella possono essere governati a ceduo con taglio a raso e rilascio di 50- 80 matricine ad ettaro di 2 classi cronologiche e turni di 18-20 anni.
  1052. Nei boschi già governati a ceduo si dovrebbe cercare di applicare il ceduo composto che riassume le esigenze della produzione di ghianda e di legna da ardere, e, a causa della diversificazione strutturale e compositiva, favorisce la conservazione di habitat per molteplici specie vegetali e animali (Ciancio e Nocentini 2004, Mercurio 2020). La matricinatura dovrà essere costitui a da 120 soggetti ad ettaro di cui 60-70 dell’età del turno del ceduo (allievi) e 50-60 ripartite fra le classi di età multiple del turno in ordine decrescente rispetto all’età stessa. Il turno è di 18-20 anni. Il pascolo potrà essere consentito solo dopo 4-6 anni dalla ceduazione.
  1053. Nel caso di fustaie che abbiano ancora un prevalente interesse per la produzione di ghianda il modello di riferimento può esse e la “fustaia rada da pascolo” costituita da soggetti di grandi dimensioni (70-100 ad ettaro) che consente di esaltare la produzione di ghianda e di erba; le azioni selvicolturali si possono articolare nel taglio graduale di quei soggetti deperienti che non sono più in grado di produrre seme, nella riduzione parziale del sottobosco arbustivo che ostacola il transito del bestiame. Si possono creare isole recintate dove si possa sviluppare la rinnovazione naturale che verranno aperte al pascolo una volta che la rinnovazione si sarà affermata. Il pascolo dovrà essere attentamente regolamentato come carico e come rotazione.
  1054. Nelle zone degradate ancora sufficientemente dense, occorre favorire la ricostituzione del querceto che si può attuare con la ramarratura delle ceppaie delle piante compromesse (Gambi e Proietti Placidi 1991) e l’allevamento successivo dei migliori polloni.
  1055. Nelle zone a bassa densità (< 30%) si possono realizzare piantagioni a “isole” delle specie della stessa serie dinamica che g azie agli uccelli possono svolgere la funzione di centri di diffusione. Il pascolo deve essere sempre escluso.
  1056. Quercus congesta, Quercus dalechampii, Sorbus domestica, Sorbus torminalis, Castanea sativa, Acer neapolitanum, Ostrya carpiniolia, Fraxinus ornus, Cytisus villosus, Erica arborea, Ilex aquifolium, Malus sylvestris, Crataegus monogyna, Erica arborea, Rosa canina, Pyrus pyraster.
  1057. Le cerrete termofile si trovavano da (400) 500 fino a 800 (900) m. Nella Catena Costiera il cerro scende nelle valli strette fino a pochi km dal mare (Mercurio et al. 2007). Nel Lametino e nella catena del Mancuso-Reventino i limiti inferiori sono di (400) 600 m su scisti filladici, scisti e gneiss, graniti, serpentini, depositi alluvionali (Maiorca et al. 2006, Mercurio et al. 2009a).
  1058. /
  1059. Cerrete termofile (Valle del Fiume Amato)
  1060. Formazioni dominate dal cerro con sottobosco di erica arborea, talvolta anche di altre sclerofille. Frequente la partecipazione subordinata di orniello, leccio, sughera, castagno, cerro-sughera e sorbo domestico. Si tratta di cerrete termofile e acidofile distribuite nella fascia mesomediteranea umida o iperumida e riferite all’Erico arboreae-Quercetum cerridis Arrigoni, Mazzanti & Ricceri 1990.
  1061. Strato arboreo: Quercus cerris.
  1062. Strato arbustivo: Erica arborea, Rosa sempervirens.
  1063. Strato erbaceo: Teucrium siculum.
  1064. Nei cedui è frequente il taglio raso con rilascio di matricine, nelle fustaie prevale il taglio a scelta.
  1065. Variante con sughera
  1066. Si distingue per l’abbondanza di sughera. Si localizza nella zona di transizione con le sugherete e si arricchisce anche della presenza del cerro-sughera (Quercus x crenata), ibrido naturale tra cerro e sughera: piuttosto raro nelle foreste calabresi. Questa variante è localizzata lungo il versante tirrenico Cosentino fino al Lametino.
  1067. Le cerrete sono formazioni ecologicamente stabili (Pignatti 1998). Gli stadi di degradazione della cerreta sono gli arbusteti di ginestra dei carbonai e i felceti di felce aquilina. Se questi non sono ulteriormente disturbati, si insedia l’ontano napoletano e successivamente il cerro.
  1068. Nei cedui ancora a regime all’interno delle aree protette è opportuno limitare l’estensione delle tagliate (<10 ettari o < 5 ettari per pendenze superiori al 30%) e adottare accorgimenti (distribuzione delle matricine, conformazione dei limiti delle tagliate alle linee naturali, rilascio di fasce a contatto di zone sensibili, ecc.) per ridurre gli impatti estetici e ecologici.
  1069. Nelle stazioni più degradate va esclusa qualsiasi forma di intervento (taglio e pascolo).
  1070. Nelle aree protette e in particolar modo dove rivestono un’importanza sul piano ambientale-paesaggistico, si deve favorire la conversione dei cedui in fustaia. Il metodo di avviamento consiste nel diradamento delle ceppaie del ceduo “invecchiato” rispetto all’età minima prevista (da ¼ a ½ del turno) con un intervento di tipo basso o misto che seleziona i migliori soggetti per costituire una struttura monoplana a densità sufficientemente elevata (1500-2500 piante ad ettaro), segue dopo 10-15 anni un diradamento per perfezionare l’assetto strutturale del soprassuolo e poi altri diradamenti (3-4) alla distanza di 15-20 anni fino ad arrivare ai tagli di rinnovazione (taglio di conversione vero e proprio) (Mercurio 2020) applicando in seguito le forme di gestione previste per le fustaie.
  1071. I boschi misti vanno conservati per quanto possibile nella loro composizione, in particolare le specie sporadiche e di interesse faunistico (es. sorbo domestico, cerro-sughera, ecc.) applicando interventi colturali puntuali per favorire i soggetti di maggior valore biologico.
  1072. I soggetti di grandi dimensioni (> 80 cm) e di interesse ecologico devono essere conservati, in particolar modo quelli di sughera e cerro-sughera.
  1073. Il governo a ceduo è giustificato per la qualità della legna da ardere. La forma di trattamento è il taglio a raso con rilascio di matricine di 1 e 2 turni.
  1074. Il numero di matricine dovrebbe essere di 50-80 ad ettaro. La durata del turno è di 18-20 anni: ciò evita tra l’altro la semplificazione della composizione a scapito delle specie meno efficienti nell’uso delle risorse idriche conservando sempre buoni livelli produttivi (Del Favero 2008).
  1075. Per limitare gli impatti delle tagliate sull’ambiente, le superfici di taglio dovrebbero essere <10 ettari e < 5 ettari se la pendenza è superiore al 30%, la contiguità tra una tagliata e quella successiva dovrebbe essere di almeno 2 anni. Il pascolo va sempre escluso nei primi anni (4-6) dopo la ceduazione. Il rilascio dei residui della lavorazione sul terreno (compatibilmente con la difesa antincendio e della diffusione di malattie) è sempre opportuno ai fini della conservazione del suolo.
  1076. Nelle fustaie pure a struttura tendenzialmente multistratificata di età >60 anni, il trattamento è il taglio colturale. Gli in erventi consistono in tagli parziali delle piante di maggiori dimensioni e diradamenti nei gruppi più giovani per favorire l'insediamento e lo sviluppo della rinnovazione di cerro. Il rilascio di eventuali altre specie arboree presenti permette di arricchire la diversità specifica. Anche l’apertura di piccole buche di 300-700 m2 consente di ottenere facilmente la rinnovazione di cerro (Agrimi et al. 1991, Portoghesi et al. 2005). La provvigione minimale di riferimento è di 250 m3 ad ettaro, il prelievo, applicato in base all’entità della provvigione, è dell’ordine del 20%. Il periodo intercorrente fra un intervento ed il successivo, sarà di 10 anni. Il pascolo deve essere escluso in quanto rappresenta la condizione necessaria per assicurare lo sviluppo della rinnovazione naturale.
  1077. Nei boschi misti al di sotto della provvigione minimale (250 m3 ad ettaro) sono possibili solo diradamenti volti a migliorare la struttura in senso verticale e orizzontale e la qualità dei fusti.
  1078. Nelle zone percorse da incendi per favorire la ricostituzione del bosco di cerro si esegue la tramarratura delle ceppaie delle piante compromesse (Gambi e Proietti Placidi 1991) e l’allevamento successivo dei migliori polloni.
  1079. Nelle zone a bassa densità (< 30%) vanno eseguite piantagioni a “isole” con le specie della stessa serie dinamica che grazie agli uccelli possono svolgere la funzione di centri di diffusione. Il pascolo in questi casi deve essere sempre escluso.
  1080. Quercus cerris, Quercus x crenata, Fraxinus ornus, Sorbus domestica, Castanea sativa, Cytisus villosus, Erica arborea, Rosa sempervirens, Prunus spinosa.
  1081. Le cerrete mesofile sono presenti oltre gli 800 m (Sila, Pollino) ma talvolta si trovano anche a quote più basse come nella Catena Costiera per l’alta umidità che si concentra nelle valli strette. Sono sporadiche sulle Serre e assenti in Aspromonte.
  1082. Nel Mancuso-Reventino arrivano a 1000 (1100) m. Alle quote superiori le cerrete giungono a contatto con la faggeta ad agrifoglio, dove la presenza dell’agrifoglio è favorita da condizioni di maggiore umidità atmosferica.
  1083. Sono cerrete in genere pure, talora con presenza di faggio, ontano napoletano e farnetto, che occupano la fascia montana. Si localizzano in aree a bioclima temperato con termotipo mesotemperato, su suoli acidi o subacidi ricchi nella componente argillosa con buona disponibilità idrica, originati da substrati di natura cristallina, scisti filladici, scisti e gneiss, graniti, serpentini.
  1084. Le comunità forestali acidofile e mesofile di cerro sono state inquadrate nel Lathyro digitati-Quercetum cerridis Bonin & Gamisans 1976, associazione dell’Appennino centro-meridionale, a gravitazione prevalentemente tirrenica.
  1085. Strato arboreo: Quercus cerris, Alnus cordata, Fagus sylvatica, Castanea sativa, Quercus frainetto.
  1086. Strato arbustivo: Ilex aquifolium.
  1087. Strato erbaceo: Lathyrus digitatus, Doronicum orientale, Potentilla micrantha, Festuca heterophylla, Poa sylvicola.
  1088. Nei cedui è frequente il taglio raso con rilascio di matricine, nelle fustaie il taglio a scelta.
  1089. Variante con acero di Lobelius
  1090. È presente nelle zone più fresche e umide della Catena Costiera.
  1091. Le cerrete sono formazioni ecologicamente stabili (Pignatti 1998). Gli stadi di degradazione della cerreta sono gli arbusteti di ginestra dei carbonai e i felceti di felce aquilina.
  1092. Nei cedui ancora a regime all’interno delle aree protette è opportuno limitare l’estensione delle tagliate (<10 ettari o < 5 ettari per pendenze superiori al 30%) e adottare accorgimenti (distribuzione delle matricine, conformazione dei limiti delle tagliate alle linee naturali, rilascio di fasce a contatto di zone sensibili, ecc.) per ridurre gli impatti estetici ed ecologici.
  1093. Nelle stazioni più difficili o dove l'evoluzione è bloccata, va esclusa qualsiasi forma di intervento (taglio e pascolo).
  1094. Nelle aree protette, e in particolar modo dove rivestono un’importanza sul piano ambientale-paesaggistico, si deve favorire la conversione dei cedui in fustaia. Il metodo di avviamento consiste nel diradamento delle ceppaie del ceduo “invecchiato” rispetto all’età minima prevista (da ¼ a ½ del turno) con un intervento di tipo basso o misto che seleziona i migliori soggetti per costituire una struttura monoplana a densità sufficientemente elevata (1500-2500 piante ad ettaro). Segue dopo 10-15 anni un diradamento per perfezionare l’assetto strutturale del soprassuolo e poi altri diradamenti (3-4) alla distanza di 15-20 anni fino ad arrivare ai tagli di rinnovazione (taglio di conversione vero e proprio) (Mercurio 2020), seguendo poi le forme di gestione previste per le fustaie.
  1095. I boschi misti vanno conservati per quanto possibile nella loro composizione, in particolare le specie sporadiche e di interesse faunistico (es. sorbo domestico, cerro-sughera, ecc.) applicando interventi colturali puntuali per favorire i soggetti di maggiore valore biologico.
  1096. I soggetti di grandi dimensioni (> 80 cm) e di interesse ecologico devono essere salvaguardati, in particolar modo quelli di sughera e cerro-sughera.
  1097. Il governo a ceduo è giustificato per la qualità della legna da ardere. La forma di trattamento è il taglio a raso con rilascio di matricine di 1 e 2 turni.
  1098. Il numero di matricine dovrebbe essere di 50-80 ad ettaro. La durata del turno è di 18-20 anni: ciò evita tra l’altro la semplificazione della composizione a scapito delle specie meno efficienti nell’uso delle risorse idriche conservando sempre buoni livelli produttivi (Del Favero 2008).
  1099. Per limitare gli impatti delle tagliate sull’ambiente, le superfici di taglio dovrebbero essere <10 ettari o <5 ettari se la pendenza è superiore al 30%, mentre la contiguità tra una tagliata e quella successiva dovrebbe essere di almeno 2 anni. Il pascolo va sempre escluso nei primi anni (4-6) dopo la ceduazione. Il rilascio dei residui della lavorazione sul terreno (compatibilmente con la difesa antincendio e della diffusione di malattie) è sempre opportuno ai fini della conservazione del suolo.
  1100. Nelle fustaie pure a struttura tendenzialmente multistatificata di età > 60 anni, il trattamento è il taglio colturale. Gli in erventi consistono in tagli parziali delle piante di maggiori dimensioni e diradamenti nei gruppi più giovani per favorire l'insediamento e lo sviluppo della rinnovazione di cerro. Il rilascio di eventuali altre specie arboree presenti permette di arricchire la diversità specifica. Anche l’apertura di piccole buche di 300-700 m2 consente di ottenere facilmente la rinnovazione di cerro (Agrimi et al. 1991, Portoghesi et al. 2005).
  1101. La provvigione minimale di riferimento è di 250 m3 ad ettaro e il prelievo, applicato in base all’entità della provvigione, è dell’ordine del 20%. Il periodo intercorrente fra un intervento ed il successivo sarà di 10 anni. Il pascolo deve essere escluso in quanto rappresenta la condizione necessaria per assicurare lo sviluppo della rinnovazione naturale.
  1102. Nei boschi misti al di sotto della provvigione minimale (250 m3 ad ettaro) sono possibili solo diradamenti volti a migliorare la struttura in senso verticale e orizzontale e la qualità dei fusti.
  1103. Per favorire la ricostituzione del bosco di cerro nelle zone percorse da incendi, si esegue la tramarratura delle ceppaie delle piante compromesse (Gambi e Proietti Placidi 1991) e l’allevamento successivo dei migliori polloni.
  1104. Nelle zone a bassa densità (< 30%) vanno eseguite piantagioni a “isole” con le specie della stessa serie dinamica che, grazie agli uccelli, possono svolgere la funzione di centri di diffusione delle specie impiantate. Il pascolo in questi casi deve essere sempre escluso. Le attività di restauro, partendo da cespuglieti, vanno avviate con l’utilizzo iniziale di specie pioniere come l’ontano napoletano.
  1105. Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus x crenata, Ostrya carpinifolia, Daphne laureola, Sorbus torminalis, Acer campestre, Alnus cordata, Ulmus minor, Cytisus scoparius, Cytisus villosus, Crataegus laevigata, Mespilus germanica.
  1106. Il leccio (Quercus ilex L.) è da sempre considerata la specie principale delle foreste mediterranee, espressione delle situazioni di maggiore evoluzione e a minimo disturbo antropico (Pignatti 1998).
  1107. In Calabria i boschi di leccio occupano un ampio range altitudinale; possono essere distinte leccete termofile e leccete mesofile. L’altitudine non è sempre un fattore discriminante tra le due tipologie (che comunque si può indicare 400-500 m); altri fattori quali l’esposizione, la geomorfologia e la pedologia influenzano condizioni di umidità tanto da modificarne la composizio e floristica.
  1108. Elemento qualificante della categoria sono anche i boschi di sughera (Quercus suber L.), che in Calabria, non sono stati adeguatamente valorizzati anche dal punto della produzione del sughero (Caridi e Iovino 2002, Mercurio e Spampinato 2003, Spampinato et al. 2019a).
  1109. Categoria: Querceti sempreverdi
  1110. ● Leccete termofile
  1111. − Sottotipo a erica
  1112. − Variante con lentisco e olivastro
  1113. − Variante con sughera
  1114. ● Leccete mesofile
  1115. − Variante con farnetto
  1116. − Variante con orniello
  1117. − Variante con carpino nero
  1118. ● Sugherete
  1119. − Variante con leccio
  1120. − Variante con roverella
  1121. − Variante con cerro
  1122. Fascia basale e collinare della regione su vari tipi di substrati (neutro-basici, carbonatici e acidi). Qui vengono comprese le leccete rupicole.
  1123. Boschi di leccio puri o con sporadica presenza di altre specie di querce tra cui Q. pubescens s.l. e Q. suber. Lo strato arbus ivo è ricco di specie termofile della macchia come il lentisco e l’olivastro.
  1124. Le leccete termofile sono diffuse nella fascia a bioclima mediterraneo e in particolare nella fascia termo-mediterranea, dal livello del mare fino a 400-500 m.
  1125. Dal punto di vista fitosociologico sono inquadrate in tre distinte associazioni: Pistacio lentisci-Quercetum ilicis Brullo & Marcenò 1985, localizzata sui substrati neutro-basici soprattutto nella fascia termomediterranea sub-umida; Erico arboreae-Quercetum ilicis Brullo, Di Martino & Marcenò 1977, presente su substrati di natura cristallina a reazione acida e subacida; Erico aroreae-Quercetum ilicis quercetosum suberis Maiorca e Spampinato 2006, ossia la subassociazione che inquadra i boschi misti di leccio e sughera, localizzati su suoli maggiormente acidi rispetto al tipo, favoriti anche dalla maggiore resistenza al fuoco di Quercus suber.
  1126. Strato arboreo: Quercus ilex, Q. suber, Q. pubescens (s.l.).
  1127. Strato arbustivo: Pistacia lentiscus, Olea europaea subsp. oleaster, Erica arborea, Arbutus unedo, Phillyrea latifolia, Viburnum tinus.
  1128. Strato erbaceo: Pulicaria odora, Asplenium onopteris.
  1129. Frequente è il trattamento a ceduo matricinato. In parte queste leccete sono state avviate all’alto fusto, in parte sono in stato di abbandono (a causa della minore richiesta di carbone o perché sono nelle aree protette). Non ci sono esempi di fustaie.
  1130. Sottotipo a erica arborea
  1131. Leccete a forte presenza di erica arborea dei substrati acidi (scisti, gneiss, graniti).
  1132. Variante con lentisco e olivastro
  1133. Leccete localizzate nella fascia termomediterranea subumida su substrati sedimentari a reazione neutro-basica o basica.
  1134. Variante con sughera
  1135. Leccete dei substrati acidi sciolti.
  1136. La lecceta è una formazione stabile di tipo climacico, tipica della fascia a bioclima mediterraneo. Si tratta di formazioni pressoché pure in cui il leccio ha la massima capacità competitiva. Questa specie tollera per lungo tempo bassi livelli radiativi: per questo è capace di rinnovarsi sotto la sua stessa copertura.
  1137. La lecceta ha una elevata resistenza alle avversità (fuoco, pascolo). Tuttavia gli incendi ripetuti e il pascolo continuato favoriscono la regressione della lecceta verso formazioni arbustive che, a seconda del livello di degradazione, possono assumere la fisionomia della macchia alta o bassa con pochi soggetti superstiti di leccio.
  1138. Il passaggio del fuoco nella lecceta favorisce l’affermazione della sughera e, se il fenomeno perdura, si ha una progressiva riduzione della sughera che facilita la formazione della macchia con eriche, cisti, mirto e lentisco (Mercurio e Spampinato 2003) e infine l’insediamento di praterie steppiche con Ampelodesmos mauritanicus, molto diffuse in tutta la regione.
  1139. L’esclusione delle ceduazioni non sempre rappresenta la strategia migliore di conservazione (Mairota et al. 2016), almeno per la maggior parte degli habitat forestali. A tal riguardo, nel caso delle leccete, è meglio bilanciare gli interventi a livello di paesaggio (attraverso una pianificazione) tra avviamento all’alto fusto, ceduazione e libera evoluzione. Infatti nelle leccete termofile non sempre vi sono le condizioni per l’avviamento all’alto fusto.
  1140. Mentre per le leccete rupicole la soluzione più accettabile sul piano ecologico ed economico è di lasciarle alla loro evoluzio e naturale.
  1141. Le piante di leccio e in particolare di sughera di interesse ecologico (con cavità, ecc.) sono da escludere dal taglio. Così come le specie arboree sporadiche.
  1142. Nei cedui a regime, laddove i popolamenti sono funzionali e con una buona densità di ceppaie (>1500 ad ettaro) (Iovino et al. 2017) si potranno valorizzare gli aspetti produttivi, mantenendo il trattamento a ceduo matricinato con 50-80 matricine ad ettaro, con un turno superiore a 25 anni. Limitando la superficie delle tagliate (< 10 ettari, oppure < 5 ettari se la pendenza è maggiore del 40%) e usando altri accorgimenti (matricinatura a gruppi, confini irregolari delle tagliate, ecc.) per ridurre l’impatto estetico dalle strade di interesse turistico (Scarfò et al. 2011).
  1143. Nei cedui in abbandono da oltre 50 anni si può procedere all’avviamento all’alto fusto con il rilascio al primo intervento di polloni per ceppaia con un prelievo dell’ordine del 20% del volume. Gli interventi di diradamento successivi saranno moderati (< 20% del volume). Una volta superata la soglia della provvigione minimale (250 m3 ad ettaro) si procederà con tagli colturali per favorire strutture pluristratificate. L’entità del prelievo sarà commisurata all’eccedenza percentuale rispetto alla provvigione minimale.
  1144. Nelle leccete degradate a bassa densità (< 30%) la piantagione di leccio (o semine senza la lavorazione del suolo) dà maggio i garanzie di successo. Il leccio, infatti, ha una notevole capacità di consolidamento del suolo per il suo apparato radicale fittonante ed esteso, e dà una maggiore garanzia per il futuro per la capacità di ricaccio dopo il passaggio del fuoco e per la minore combustibilità. Per arricchire la biodiversità fin dalle fasi iniziali si possono reimpiantare anche altre specie che si associano alle leccete termofile. I criteri di restauro più recenti tendono a circoscrivere l’impianto dei pini mediterranei solo nei suoli molto erosi e superficiali. La densità di piantagione è di 600-1000 soggetti ad ettaro (3x3 / 4x4 m) (Villar-Salvador et al. 2016). Le pietre e la pacciamatura sono utili per attenuare gli effetti della siccità dei semenzali di leccio (Jiménez et al. 2016) ed evitano costosi interventi di ripulitura attorno alle piante. Per limitare l’erosione del suolo può essere utile integrare con sbarramenti trasversali, semine di specie erbacee e arbustive, ecc. (Mercurio 2021a).
  1145. Nelle leccete bruciate sufficientemente dense (> 1500 ceppaie ad ettaro), è molto efficace la tramarratura, da cui si può ria tivare la vitalità delle ceppaie assecondando l’emissione di polloni proventizi. Intervento da eseguirsi nella stagione successiva all’incendio dopo che è stata rimossa la massa combustibile (potenziale esca di ulteriori incendi), un’operazione necessaria non solo per recuperare la massa legnosa, ma anche per rimuovere dalla vista le immagini del bosco bruciato e annerito. Il rilascio dei residui legnosi arricchisce il suolo di sostanza organica migliorandone le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche e contribuisce a ridurre i rischi di erosione.
  1146. Quercus ilex, Quercus virgiliana, Arbutus unedo, Celtis australis, Cytisus villosus, Myrtus communis, Olea europaea subsp. oleaster, Erica arborea, Lonicera etrusca, Phillyrea latifolia, Pistacia lentiscus, Pistacia terebinthus.
  1147. Nel Pollino le leccete arrivano fino a 950 m (Maiorca e Spampinato 1999, Mercurio et al. 2007).
  1148. Nel versante ionico della Sila i limiti altitudinali vanno da 650-700 a 850-900 m.
  1149. Nelle Serre il leccio si trova nel versante tirrenico da 100 a 500/600 m, nel versante ionico da 200 e circa 1100 m, a contatto diretto con il faggio, su graniti, gneiss, scisti. Al leccio si accompagnano spesso farnetto, roverella, orniello, carpino nero, acero napoletano, castagno, faggio, rovere. Particolarmente negli impluvi si inseriscono con maggiore frequenza acero napole ano e carpino nero (Mercurio e Spampinato 2006).
  1150. Nella Valle dell’Angitola, il leccio si trova tra 100 e 800 m in popolamenti puri o con orniello, carpino nero, roverella e sughera. Nella Valle del Mesima, dove prevalgono substrati sabbiosi fino a quota 600 m si trova la roverella; oltre questa quota si ha la dominanza del leccio che giunge a contatto con il faggio.
  1151. Nella Catena del Mancuso-Reventino il bosco di leccio occupa piccole superfici da 250 a 450 (700) m, e viene sostituito in basso e nei versanti più aridi dai querceti di roverella s.l. e in alto dalle faggete (Maiorca et al. 2006, Mercurio et al. 2009a).
  1152. In Aspromonte i boschi di leccio circondano ad anello tutto il massiccio a quote variabili tra i 400-600 e 900-1100 m. Frequen e è l’interconnessione con il farnetto (Cameriere et al. 2003, Spampinato et al. 2008, Spampinato 2014). Al limite superiore il leccio giunge a contatto con il faggio per il verificarsi di condizioni ambientali favorevoli alle due specie: il faggio scende perché trova favorevoli condizioni idriche, mentre il leccio trova, anche oltre i 1000 m, le condizioni termiche che non ne precludono la vegetazione (Brullo et al. 2001, Mercurio 2002).
  1153. Boschi puri di leccio della fascia altocollinare e submontana, che in zone più fresche si accompagnano a varie latifoglie mesoile. Dal punto di vista strutturale si hanno cedui “invecchiati” monoplani, o biplani come i cedui ancora a regime, dove vi è un piano superiore costituito da matricine e uno inferiore da polloni.
  1154. Queste leccete sono localizzate su vari tipi di substrati in aree a bioclima mediterraneo mesomediterraneo o supramediterraneo collocandosi talora nella fascia mesotemperata limitatamente ai versanti con esposizioni calde.
  1155. Sotto il profilo fitosociologico le leccete mesofile sono state riferite al Teucrio siculi-Quercetum ilicis Gentile 1969 em. B ullo & Marcenò 1985 associazione ampiamente diffusa sui rilievi cristallini di tutta la regione. Le leccete con notevole presenza di latifoglie mesofile (carpino nero, orniello e acero napoletano) sono invece attribuite all’Ostryo-Quercetum ilicis Trinajstic (1965) 1974, associazione nota per la Calabria settentrionale (Maiorca e Spampinato 1999) e per le Serre (Mercurio e Spampinato 2006).
  1156. Strato arboreo: Quercus ilex, Q. pubescens s.l., Q. frainetto, Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Carpinus orientalis, Fraxi us ornus, Acer obtusatum.
  1157. Strato arbustivo: Erica arborea, Cytisus villosus, Hedera helix.
  1158. Strato erbaceo: Teucrium siculum, Clinopodium vulgare subsp. arundanum, Festuca exaltata.
  1159. Il trattamento ricorrente è il ceduo matricinato, con turni che variano da 14-15 fino a 20-25 anni. Vengono rilasciate da 50 matricine per ettaro fino ad oltre 100. La matricinatura è costituita in larga parte da leccio, ma localmente anche da farnetto, roverella, acero napoletano. Frequente è lo stato di abbandono colturale. In taluni casi sono stati effettuati i primi interven i di avviamento all’alto fusto. Un esempio di fustaia storicamente adibita al pascolo è la lecceta di “A Mancusa” in Aspromonte, ora un vero e proprio bosco vetusto.
  1160. /
  1161. Bosco vetusto di leccio (A’Mancusa, Aspromonte)
  1162. Variante con farnetto
  1163. Leccete meso-termofile localizzate nella fascia mesomediterranea umida o iperumida, sui versanti ionici dell’Aspromonte e delle Serre tra 300 e 700 m, mediamente acclivi con suoli a reazione acida o subacida, in genere profondi, derivanti dalla disgregazione di rocce di natura silicea, quali scisti, gneiss e arenarie.
  1164. Variante con orniello
  1165. Leccete dei substrati carbonatici (calcari, dolomie, calcareniti) della fascia mesomediterranea ad ombroclima umido o subumido della Calabria settentrionale.
  1166. Variante con carpino nero
  1167. Occupa i contesti più freschi, come gli impluvi e i ripidi versanti esposti a nord, nei quali hanno un importante ruolo strutturale il carpino nero, l’orniello e l’acero napoletano.
  1168. La lecceta è una formazione stabile di tipo climacico o edafoclimacico. Tuttavia si può degradare verso formazioni arbustive i conseguenza di continue azioni di disturbo. Gli incendi ripetuti e il pascolo incontrollato favoriscono la regressione della lecceta verso formazioni arbustive che, a seconda del livello di degradazione, possono assumere la fisionomia della macchia alta o bassa. La lecceta su substrati acidi viene sostituita da formazioni arbustive a prevalenza di Erica arborea, Cytisus villosus, Cytisus scoparius, Cytisus infestus, con pochi soggetti superstiti di leccio. Gli ulteriori stadi di degradazione sono rappresentati dalle garighe a cisti con Cistus salviifolius e C. monspeliensis e dalle praterie steppiche a tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus).
  1169. In ambienti su suoli profondi, già occupati da leccete, poi trasformati in coltivi e in seguito abbandonati da circa 30 anni, dopo una fase di macchia a erica e sparzio infestante si ricostituisce la lecceta (boschi di neoformazione).
  1170. L’esclusione delle ceduazioni non sempre rappresenta la strategia migliore di conservazione (Mairota et al. 2016) almeno per la maggior parte degli habitat forestali. Nel caso delle leccete è meglio bilanciare gli interventi a livello di paesaggio (att averso una pianificazione) tra avviamento all’alto fusto, ceduazione e libera evoluzione.
  1171. Laddove possibile per motivi economici ed ecologici, è da favorire l’avviamento all’alto fusto delle leccete su suoli profondi e freschi (Gambi 1986). Per evitare di creare popolamenti troppo omogenei, un’alternativa può essere, rispetto al metodo del “rilascio intensivo di allievi”, il metodo della “matricinatura progressiva”. Con questo metodo viene rilasciato un numero crescente (progressivo) di matricine (in realtà polloni meglio conformati) (100-150/200-300) ad ogni utilizzazione del ceduo fino ad ottenere una struttura disetaneiforme. La rinnovazione da seme viene poi favorita applicando un trattamento assimilabile al aglio saltuario s.l. (Ciancio et al. 1983). Infatti, come sostiene Del Favero (2010), grazie all’elevata tolleranza alla copertura del leccio, la conversione al ceduo composto e alla fustaia è “sempre possibile anche attraverso la matricinatura progressiva (sconsigliabile in tutte le altre formazioni)”. Anche Ciancio e Nocentini (2004) prevedono che la conversione del ceduo composto a fustaia disetanea avvenga con il metodo della “matricinatura progressiva”.
  1172. Le piante di leccio di interesse ecologico (con cavità ecc.) sono da escludere dal taglio. Così come le specie arboree sporadiche.
  1173. Nei cedui a regime, laddove i popolamenti sono funzionali e con una buona densità di ceppaie (> 1500 ad ettaro) (Iovino et al. 2017) si potranno valorizzare gli aspetti produttivi, mantenendo il trattamento a ceduo matricinato con 50-80 matricine ad ettaro, con un turno superiore a 25 anni. Limitando la superficie delle tagliate (< 10 ettari, oppure < 5 ettari se la pendenza è maggiore del 40%) e usando altri accorgimenti (matricinatura a gruppi, confini irregolari delle tagliate, ecc.) per ridurre l’impatto estetico dalle strade di interesse turistico (Scarfò et al. 2011).
  1174. Nei cedui in abbandono di oltre 50 anni si può procedere all’avviamento all’alto fusto con il rilascio al primo intervento di polloni per ceppaia con un prelievo del 20% del volume. Gli interventi di diradamento successivi saranno moderati (<20% del volume). Una volta superata la soglia della provvigione minimale (250 m3 ad ettaro) si procederà con tagli colturali per favori e strutture pluristratificate. L’entità del prelievo sarà commisurata all’eccedenza percentuale rispetto alla provvigione minimale.
  1175. Nelle leccete degradate a bassa densità (< 30%) la piantagione di leccio (o semine senza la lavorazione del suolo) dà maggio i garanzie di successo. Infatti il leccio ha una notevole capacità di consolidamento del suolo, per il suo apparato radicale fittonante ed esteso, e dà una maggiore garanzia per il futuro per la capacità di ricaccio dopo il passaggio del fuoco e per la minore combustibilità. Per arricchire la biodiversità fin dalle fasi iniziali si possono reimpiantare anche altre specie che si associano alle leccete mesofile. I criteri di restauro più recenti tendono a circoscrivere l’impianto dei pini mediterranei solo nei suoli molto erosi e superficiali. La densità di piantagione è di 600-1000 soggetti ad ettaro (3x3 / 4x4 m) (Villar-Salvador et al. 2016). Le pietre e la pacciamatura sono utili per attenuare gli effetti della siccità dei semenzali di leccio (Jiménez et al. 2016) ed evitano costosi interventi di ripulitura attorno alle piante. Per limitare l’erosione del suolo può essere utile integrare con sbarramenti trasversali, semine di specie erbacee e arbustive, ecc. (Mercurio 2021a).
  1176. Nelle leccete bruciate sufficientemente dense (> 1500 ceppaie ad ettaro), è molto efficace la tramarratura, da cui si può ria tivare la vitalità delle ceppaie assecondando l’emissione di polloni proventizi. Intervento da eseguirsi nella stagione successiva all’incendio dopo che è stata rimossa la massa combustibile (potenziale esca di ulteriori incendi): un’operazione necessaria non solo per recuperare la massa legnosa ma anche per rimuovere dalla vista le immagini del bosco bruciato e annerito. Il rilascio dei residui legnosi arricchisce il suolo di sostanza organica migliorandone le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche e contribuisce a ridurre i rischi di erosione.
  1177. Quercus ilex, Fraxinus ornus, Quercus dalechampii, Quercus frainetto, Arbutus unedo, Erica arborea, Cytisus villosus, Laurus nobilis, Lonicera etrusca, Lonicera implexa, Pistacia terebinthus, Phillyrea latifolia, Rhamnus alaternus, Viburnum tinus.
  1178. La sughereta è definita dall’art. 54 delle PMPF (2012) quella “porzione di bosco che occupa una superficie minima di 2000 m2 e una densità non inferiore a 30 piante per ettaro nei soprassuoli puri o a prevalenza di sughera”.
  1179. Le sugherete sono presenti in Calabria da 50 m fino a circa 800 m, mostrando nel complesso una distribuzione molto frammentata, sicuramente relitt di una diffusione molto più ampia, come testimoniano i numerosi fitotoponimi (Caridi e Iovino 2002; Spampi ato et al. 2017, 2022). La sughera è diffusa soprattutto nel versante tirrenico su scisti biotitici, graniti, arenarie, conglomerati sabbiosi, per un’area totale di 4328 ettari (Ienco et al. 2020). I nuclei più rilevanti si hanno nel versante tirrenico nella Valle Dell’Angitola e nell’Aspromonte nord-occidentale (Spampinato et al. 2019a, Mercurio 2002, Mercurio e Spampinato 2003).
  1180. /
  1181. Bosco di sughera (Monte Campanaro, Aspromonte)
  1182. Formazioni a fustaia monoplane o biplane dove il piano superiore è costituito da sughere ben sviluppate e quello inferiore da soggetti di origine agamica. Ben rappresentato lo strato arbustivo con numerose specie sclerofille sempreverdi come erica arborea e corbezzolo.
  1183. Alla sughera si associano varie specie arboree al variare delle condizioni di umidità: leccio, cerro, roverella, castagno (Barreca et al. 2010).
  1184. Mercurio e Spampinato (2003) individuano per le sugherete calabresi tre gruppi su base ecologica e floristica che corrispondo o ad altrettante varianti della tipologia forestale:
  1185. - sugherete mesofile, tipiche della fascia bioclimatica meso­mediterranea umida, con precipitazioni medie annue superiori ai 100 mm e temperature medie annue comprese tra 14 e 16 °C. Si riscontrano nella Valle dell’Angitola e sono caratterizzate da un contingente di specie provenienti da formazioni forestali di ambienti più freschi e umidi quali Vinca minor, Buglossoides purpureo-caerulea, Ulmus minor, oltre a Helleborus bocconei subsp. intermedius e Lathyrus venetus. Queste formazioni sono riferite al Helleboro-Quercetum suberis tipico.
  1186. - sugherete meso-termofile, legate ad un bioclima mesomediterraneo sub-umido con precipitazioni medie annue comprese tra 700 e 1000 mm e temperature medie annue comprese tra 14 e 16 °C. Esse vengono attribuite ad una variante a Cytisus villosus dell’Helleboro-Quercetum suberis, che è caratterizzata da un denso strato arbustivo dominato da Erica arborea e Arbutus unedo, specie alle quali si associano Cytisus villosus e Teline monspessulana.
  1187. - sugherete termo-xerofile, localizzate nella fascia costiera a quote comprese tra 50 e 300 m (Valle Fiume Amato), in situazioni ambientali più xeriche rispetto a quelle delle altre sugherete. Sono abbastanza affini alle precedenti ma ne differiscono sotto il profilo floristico per l’assenza delle specie più mesofile e per la presenza di specie tipiche di ambienti caldi e secchi come Myrtus communis, Pistacia lentiscus, Osyris alba, tutte specie frequenti nella macchia costiera della Calabria. Sono attribuite alla variante a Myrtus communis dell'Helleboro-Quercetum suberis.
  1188. Strato arboreo: Quercus suber, Q. ilex, Q. pubescens.
  1189. Strato arbustivo: Erica arborea, Arbutus unedo, Myrtus communis, Pistacia lentiscus.
  1190. Strato erbaceo: Helleborus bocconei subsp. intermedius.
  1191. L’unica forma di trattamento è il taglio a scelta delle piante deperienti o morte. Frequente l’abbandono colturale. Sporadica è l’estrazione del sughero. Barreca et al. (2010) segnalano che la demaschiatura, eseguita in modo non corretto, favorisce il rapido sviluppo di attacchi di patogeni che facilitati delle elevate condizioni di umidità, in poco tempo portano a morte anche piante di grandi dimensioni.
  1192. Variante con leccio
  1193. Variante con roverella
  1194. Variante con cerro
  1195. La posizione della sughera nel dinamismo della vegetazione rimane controversa. Per la maggior parte degli autori è una formazione edafo-climacica su terreni cristallini con suoli acidi, differenziata dalla lecceta (Selvi e Viciani 1999, Brullo et al. 201). Per altri la sughereta costituisce uno stadio nella serie dinamica della lecceta e in assenza di disturbi evolverebbe verso tali formazioni (Di Benedetto et al. 1984, Pignatti 1998) almeno negli ambienti più caldi.
  1196. Mercurio e Spampinato (2003) evidenziano che in Calabria la degradazione delle sugherete per incendi ripetuti determina la lo o sostituzione con formazioni di macchia. È possibile distinguere differenti stadi di degradazione per ciascuna variante di sughereta. In particolare la degradazione delle sugherete mesofile dell'Helleboro-Quercetum suberis determina l'insediamento di cespuglieti mesofili a Rubus ulmifolius e Clematis vitalba; invece dalla degradazione delle sugherete meso-termofile riferite alla variante a Cytisus villosus dell'Helleboro-Quercetum suberis si forma una macchia sclerofilla ad Arbutus unedo ed Erica arborea. Infine, dalla degradazione delle sugherete termofile riferite alla variante a Myrtus communis dell'Helleboro-Quercetum suberis si forma una macchia termo-xerofila a Myrtus communis e Pistacia lentiscus. Se gli incendi sono reiterati le formazioni di macchia sono sostituite dalle praterie steppiche ad Ampelodesmos mauritanicus.
  1197. Il modello colturale di riferimento per conservare la sughereta non sarà l’abbandono e nemmeno i rigidi schemi selvicolturali (bosco coetaneo/bosco disetaneo) (Gambi 1988, 1989) così come vengono proposti in vari Paesi del Mediterraneo. Trattandosi di forme antropogene, richiedono interventi costanti e puntuali da parte dell’uomo, applicando nello specifico delle aree protette forme di gestione che siano rispettose dei canoni naturalistici. Gli interventi sono sempre riconducibili ai tagli colturali con l’estrazione del sughero, così come viene regolato dalla normativa forestale regionale (art. 30 del Reg. 2/2020). La gestione attiva è la premessa per conservare le sugherete e per adottare misure preventive antincendio. Nelle aree protette, oltre alle specie sporadiche, sono da rilasciare tutte le piante arboree e arbustive di interesse ecologico.
  1198. La potenzialità economica delle sugherete richiede una ripresa della coltivazione, puntando l’attenzione sui prodotti di quali à da poter essere eventualmente trasformati localmente e attivare una filiera certificata (Pollastrini et al. 2017, Musolino e al. 2019).
  1199. Il modello colturale va calibrato su boschi a struttura multiplana (piccoli popolamenti monoplani di età e altezza diverse che si ripartiscono nello spazio). Considerando l’elevata densità delle sugherete calabresi, si dovrà prevedere, in una fase inziale di ripresa della coltivazione, l’eliminazione dei soggetti deperienti, malformati e in soprannumero, cercando di ridurre il grado di copertura intorno al 60% (Mercurio e Spampinato 2003). Una tale densità consentirà, oltre a ottimizzare la produzione di sughero, anche una maggiore produzione di ghiande. Il modello colturale prevede: ripuliture parziali delle specie arbustive per favorire l’accesso nelle operazioni di raccolta del sughero e per creare, nello stesso tempo, una protezione per i giovani semenzali e per i soggetti da cui è stato estratto il sughero; sfollamenti sulle ceppaie per selezionare i polloni migliori; potature di formazione, a partire dai 3-6 anni per ottenere, a 20-25 anni, un fusto unico lungo 2.5-3 m, e per favorire lo sviluppo di una ampia chioma e una buona qualità delle plance. Invece, le potature di riforma devono essere eseguite tenendo conto delle necessità delle singole piante. Sarà inoltre indispensabile razionalizzare il pascolo se si vuole favorire la rinnovazione naturale.
  1200. Nelle zone percorse da incendi occorre procedere alla ricostituzione della sughereta che si può attuare con la succisione delle ceppaie delle piante compromesse dal fuoco e l’allevamento successivo dei migliori polloni, integrata con le potature di riforma nelle piante deperienti (Mercurio e Saba 1998, Mercurio 2016).
  1201. Nei boschi a bassa densità (<30%) si deve prevedere il reimpianto della sughera se si vuole privilegiare la produzione di sughero o di specie della stessa serie dinamica se si volessero far prevalere interessi naturalistici.
  1202. Quercus suber, Quercus ilex, Fraxinus ornus, Arbutus unedo, Cytisus villosus, Erica arborea, Genista monspessulana.
  1203. Le uniche pinete mediterranee naturali presenti in regione sono quelle di pino d’Aleppo (Pinus halepensis Mill.) localizzate ell’Alto Jonio cosentino (Spampinato 1990, 2003a, Aramini et al. 2006, D’Ippolito et al. 2007).
  1204. Categoria: Pinete mediterranee
  1205. ● Pinete naturali di pino d’Aleppo
  1206. /
  1207. Cono e foglie di pino d’Aleppo
  1208. Formazioni circoscritte alla Calabria nord-orientale (Fiumara Saracena, Fiumara Avena e versante orientale del Pollino) fino a 200-300 m, su substrati calcarei e di natura silicea.
  1209. /
  1210. Popolamenti naturali di pino d’Aleppo (Fiumara Saracena)
  1211. Popolamenti disformi, aperti di pino d’Aleppo, che consentono la rinnovazione del pino con presenza di stato arbustivo lasso di sclerofille sempreverdi. Sono pinete termo-xerofile legate al bioclima termomediterraneo e/o subumido che prediligono i substrati calcareo-marnosi con suoli neutri o neutrobasici, poco evoluti, ricchi nella componente argillosa, ma si osservano anche su metamorfiti.
  1212. Dal punto di vista fitosociologico le pinete su marne e calcari sono inquadrate nel Pistacio lentisci-Pinetum halepensis De Ma co, Veri & Caneva 1984, mentre quelle su substrati di natura metamorfica a reazione acida o subacida sono riferite all’Erico arboraee-Pinetum halepensis De Marco & Caneva 1984 (Spampinato 2009c).
  1213. Strato arboreo: Pinus halepensis.
  1214. Strato arbustivo: Pistacia lentiscus, Olea europaea subsp. oleaster, Phillyrea latifolia, Juniperus turbinata, Erica arborea.
  1215. Non viene eseguito alcun intervento colturale perché di nessun interesse economico.
  1216. Nessuna
  1217. Sono formazioni edafoclimatofile, durevoli, localizzandosi in specifiche condizioni ambientali dove la pedogenesi è bloccata, su suoli poveri in nutrienti scarsamente evoluti. Grazie alla capacità colonizzatrice del pino d’Aleppo, in aree con suoli erosi o degradati questa pineta può rappresentare uno stadio all’interno della serie dinamica della macchia e della foresta mediterranea.
  1218. Le fasi regressive a causa di incendi e pascolo ne determinano la sostituzione con la gariga a rosmarino (Salvia rosmarinus = Rosmarinus officinalis) e cisti (Cistus creticus e C. monspeliensis) e successivamente con le praterie steppiche a barboncino (Hyparrhenia hirta).
  1219. Nella Fiumara Saracena il pino d’Aleppo partendo dai versanti colonizza anche le alluvioni della fiumara che sono svincolate dalla dinamica fluviale.
  1220. Da lasciare alla evoluzione naturale, ponendo in atto misure antincendio e di pascolo incontrollato.
  1221. Nessuno perché manca l’interesse economico.
  1222. Eliminazione delle possibili ulteriori cause di degrado, lasciare alla loro evoluzione naturale (restauro passivo).
  1223. Pinus halepensis, Pistacia lentiscus, Olea europaea subsp. Oleaster, Juniperus turbinata, Juniperus oxycedrus.
  1224. In questa categoria vengono comprese le formazioni di macchia mediterranea, costituite da sclerofille con leccio assente o subordinato. Macchie diversamente composte: con olivastro (Olea europaea subsp. oleaster), mirto (Myrtus communis), lentisco (Pistacia lentiscus), alaterno (Rhamnus alaternus), sparzio infestante (Cytisus infestus), presenti fino a 600-700 m, mentre quelle a Erica arborea arrivano fino a 1000 m.
  1225. Sono macchie sia primarie, sia secondarie, intese come la risultante di azioni di disturbo ripetute (incendio, pascolo) che hanno alterato la composizione e la struttura della originaria vegetazione forestale, costituita in prevalenza da leccete o da altri querceti mediterranei.
  1226. Il limite superiore della macchia in Calabria si spinge fino a circa 1000 m (Spampinato 2003b) e interessa la fascia a bioclima mediterraneo.
  1227. In questa categoria vengono compresi anche i cespuglieti della fascia collinare e sub-montana caratterizzati dalla ginestra odorosa (Spartium junceum), spesso mista ad ampelodesma, derivanti dai processi di degradazione dei querceti caducifogli, delle leccete e degli ostrieti e di ricolonizzazione di ex coltivi. Queste macchie, che spesso si trovano su suoli ancora abbastanza p ofondi, possono riprendere la loro evoluzione verso formazioni più complesse se si attenuano i fattori di disturbo.
  1228. Molto meno diffuse sono le macchie primarie, localizzate in contesti particolarmente acclivi della fascia a bioclima mediterra eo dove è impedita la pedogenesi.
  1229. /
  1230. Macchia a Euforbia arborea
  1231. Categoria: Macchie e Arbusteti mediterranei
  1232. ● Macchia a lentisco
  1233. ● Macchia alta a ginepro turbinato
  1234. ● Macchia ad euforbia arborea
  1235. ● Macchia ad erica arborea
  1236. ● Arbusteti a ginestra odorosa
  1237. /
  1238. Arbusteti a ginestra odorosa (Spartium junceum) nella Costa Viola
  1239. Le formazioni di macchia a lentisco (Pistacia lentiscus) sono diffuse in tutta la fascia costiera e collinare con bioclima mediterraneo di tipo termo e meso mediterraneo, dal livello del mare fino a circa 500 m, su vari tipi di substrati: graniti, calcari e dolomie, marne e argille (Maiorca e Spampinato 1999, Mercurio e Spampinato 2006, Mercurio et al. 2007, Brullo et. al. 2001).
  1240. Formazioni arbustive sclerofille sempreverdi a dominanza di Pistacia lentiscus cui si accompagnano mirto (Myrtus communis), olivastro (Olea europaea subsp. oleaster), corbezzolo (Arbutus unedo) e varie lianose come la clematide cirrosa (Clematis cirrhosa), la salsapariglia (Smilax aspera), l’asparago pungente (Asparagus acutifolius) ed il caprifoglio mediterraneo (Lonicera implexa).
  1241. La macchia a lentisco viene riferita all’associazione Myrto-Pistacietum lentisci (Molinier (1936) 1954) Riv. Mart. 1975, un ipo di macchia primaria, talora secondaria, che in relazione al disturbo antropico presenta una struttura più o meno arborescente (Maiorca e Spampinato 1999). Essa viene inquadrata nell’alleanza Oleo sylvestris-Ceratonion siliquae che riunisce la vegetazione arbustiva forestale e preforestale a dominanza di sclerofille sempreverdi legate a suoli con reazione neutra o neutro-basica, delle fasce bioclimatiche con termotipo termomediterraneo e mesomediterraneo.
  1242. Myrtus communis, Pistacia lentiscus, Erica multiflora, Olea europaea subsp. oleaster.
  1243. Nessun intervento se non il pascolo.
  1244. Nella Valle dell’Argentino la tendenza evolutiva del Myrto-Pistacietum lentisci è verso i boschi di leccio del Festuco-Quercetum ilicis. Sulle pendici più acclivi con esposizione meridionale la macchia a mirto e lentisco rappresenta una formazione stabile legata a litosuoli dalla pedogenesi bloccata. L’incendio favorisce la semplificazione strutturale e, laddove si innescano fenomeni erosivi, la sostituzione con la gariga a Erica multiflora dell’Erico multiflorae-Salvietum officinalis (Maiorca e Spampinato 1999).
  1245. Da lasciare alla libera evoluzione.
  1246. Non è previsto alcun intervento di coltivazione.
  1247. Da valutare se reintrodurre a gruppi nei casi di maggior degrado delle specie della stessa serie dinamica.
  1248. Pistacia lentiscus, Ceratonia siliqua, Myrtus communis, Olea europaea subsp. oleaster, Quercus suber, Quercus ilex.
  1249. Fascia costiera fino a 200 m, su marne, argille e calcari marnosi soprattutto del versante ionico (Bombino et al. 1997, Mercurio e Spampinato 1999) con bioclima termo mediterraneo secco.
  1250. Macchia alta a ginepro turbinato (Juniperus turbinata) e olivastro (Olea europaea subsp. oleaster) riferibile all’associazio e vegetale Oleo sylvestris-Juniperetum turbinatae Arrigoni, Bruno, De Marco & Veri 1985. Il ginepro può raggiungere altezze anche di 8 m formando uno strato alto-arbustivo. Nel sottostante strato basso arbustivo oltre all’olivastro si rinvengono il lentisco (Pistacia lentiscus), il the siciliano (Prasium majus) e lo sparzio infestante (Cytisus infestus) (Mercurio e Spampinato 1999).
  1251. Juniperus turbinata.
  1252. /
  1253. Macchia a ginepro turbinato
  1254. Un tempo il ginepro veniva usato per paleria delle vigne, ora, in considerazione della rarità della specie non ha nessun impiego.
  1255. Formazione edafica stabile. Sono stati osservati soggetti di ginepro di oltre i 200 anni di età. In seguito a processi di degradazione dovuti all’incendio e al pascolo questa formazione forestale viene sostituita da garighe a timo (Thymus capitatus), salvione giallo (Phlomis fruticosa) e rosmarino (Rosmarinus officinalis) e, successivamente, con il proseguire dell’azione di disturbo da praterie steppiche a sparto (Lygeum spartum), soprattutto nei tratti dove si innescano fenomeni di erosione che portano verso la formazione di calanchi.
  1256. Solo interventi e misure di protezione da incendi, tagli abusivi, urbanizzazione. I popolamenti residuli sono da lasciare alla libera evoluzione.
  1257. Non è previsto alcun intervento di coltivazione
  1258. Da valutare se reintrodurre a gruppi il ginepro e/o nei casi di maggior degrado delle specie della stessa serie dinamica.
  1259. Quercus suber, Quercus ilex, Olea europaea subsp. oleaster, Juniperus turbinata, Pistacia lentiscus, Ceratonia siliqua.
  1260. /
  1261. Ginepro turbinato
  1262. Fascia costiera e collinare fino a 400-500 m di tutta la regione, soprattutto sul versante ionico, su substrati rocciosi di va ia natura nell’ambito della fascia a bioclima mediterraneo con termotipo termo mediterraneo.
  1263. Oleo-Euphorbietum dendroidis Trinajstic 1974, macchia a euforbia arborea (Euphorbia dendroides) e olivastro (Olea europaea subsp. oleaster). Comunemente vi si rinvengono altre specie arbustive quali lentisco (Pistacia lentiscus), asparago bianco (Asparagus albus), camedrio doppio (Teucrium flavum), alaterno (Rhamnus alaternus), ecc.
  1264. Euphorbia dendroides, Olea europaea subsp. oleaster.
  1265. Nessuna.
  1266. Formazione edafoclimacica durevole delle stazioni acclivi con roccia affiorante. In seguito ai processi di erosione dei suoli e dell’affioramento della roccia madre tende ad occupare le superfici denudate con roccia affiorante assumendo il significato di una macchia di ricolonizzazione.
  1267. Lasciare alla libera evoluzione.
  1268. Non è previsto alcun intervento di coltivazione.
  1269. Lasciare alla libera evoluzione.
  1270. Fino a 1000 m, su substrati silicei: graniti, scisti filladici, serpentini di tutta la regione (Brullo et al. 2001, Spampinato et al. 2008, Mercurio et al. 2009a).
  1271. Formazioni arbustive di macchia secondaria alte 2-3 m, piuttosto densa, a dominanza di Erica arborea, alla quale si associano Arbutus unedo, Calicotome infesta e altre sclerofille sempreverdi.
  1272. Queste formazioni rientrano in massima parte nell’alleanza Ericion arboreae cui sono ascrivibili alcune associazioni presenti in regione tra cui: Calicotomo infestae-Ericetum arboreae Brullo Scelsi e Spampinato 2001 diffusa soprattutto in Aspromonte; Erico arboreae-Arbutetum unedonis Allier e Lacoste 1990 (Brullo et al. 2001, Maiorca et al. 2003, 2006, 2008). localizzata su affioramenti rocciosi di graniti o gneiss della fascia alto collinare, ed Erico arboreae-Myrtetum communis Quézel et al. 1988, ubicata a quote più basse rispetto alle altre associazioni.
  1273. Erica arborea, Arbutus unedo, Cytisus infestus.
  1274. Rimane ancora nell’Aspromonte la tradizione dell’estrazione del ciocco, in passato molto più diffusa, utilizzato per oggettistica e per i fornelli delle pipe.
  1275. Nella maggior parte dei casi la macchia a Erica arborea è una formazione secondaria instabile risultante dalla degradazione dei querceti acidofili in conseguenza di incendi e tagli. Sui medi e alti versanti tirrenici dell’Aspromonte e delle Serre la tendenza è verso i boschi di leccio del Teucrio-Quercetum ilicis, di roverella s.l. (Erico-Quercetum virgilianae), o di sughera dell’Helleboro-Quercetum suberis (Barbagallo et al. 1982, Mercurio e Spampinato 2006).
  1276. L’incendio favorisce la ulteriore semplificazione strutturale e la sostituzione della macchia a erica con la gariga a cisti (Cistus monspeliensis, C. salviifolius) e infine con la prateria steppica a tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus).
  1277. Da lasciare alla libera evoluzione.
  1278. Laddove possibile favorire l’estrazione del ciocco.
  1279. Da lasciare alla libera evoluzione, agevolando la riaffermazione delle specie arboree o reintroducendo a gruppi le specie della stessa serie dinamica.
  1280. Erica arborea, Arbutus unedo, Genista monspessulana, Quercus suber, Quercus ilex, Fraxinus ornus, Castanea sativa.
  1281. /
  1282. Macchia a erica arborea (Costa Viola)
  1283. Gli arbusteti a ginestra odorosa (Spartium junceum) occupano un’ampia fascia collinare e submontana di tutta la regione. Nella Valle del Lao sono frequenti da 300 a 800 m, su substrati argillosi, marnoso-argillosi, scistosi, calcarei e dolomitici (Mercurio et al. 2007, Scarfò et al. 2008).
  1284. Formazioni arbustive a dominanza di ginestra odorosa a cui comunemente si associano rosa canina, perastro e specie residuali della vegetazione arborea originaria: roverella (Quercus pubescens s.l.), orniello, carpino nero, leccio, ecc.
  1285. Sotto il profilo fitosociologico queste formazioni sono riferite allo Spartio juncei-Cytisetum sessilifolii Biondi Allegrezza et Guitan 1988 var. a Spartium junceum (Maiorca e Spampinato 1999).
  1286. Spartium junceum.
  1287. Pascolo caprino.
  1288. Formazioni secondarie che fanno parte della serie dinamica dei querceti caducifogli e delle leccete e sono legate alle dinamiche di ricolonizzazione post incendio.
  1289. Per ulteriore degradazione sono sostituite dalle praterie steppiche a tagliamani (Ampelodesmos mauritanicus), mantenute dai ripetuti incendi a fini pastorali per stimolare i ricacci del tagliamani.
  1290. Da lasciare alla libera evoluzione.
  1291. Non è previsto alcun intervento di coltivazione.
  1292. Da lasciare alla libera evoluzione, agevolando la riaffermazione delle specie arboree o reintroducendo a gruppi le specie della stessa serie dinamica.
  1293. Quercus suber, Quercus ilex, Quercus pubescens s.l. Fraxinus ornus, Celtis australis, Ostrya carpinifolia, Pistacia lentiscus, Pistacia terebinthus.
  1294. Formazioni arbustive a dominanza di nanofanerofite e fanerofite cespitose decidue della fascia montana e sub montana.
  1295. Si tratta in massima parte di formazioni secondarie che costituiscono uno stadio delle serie dinamiche dei boschi mesofili quali querceti caducifogli e faggete o ne formano il mantello preforestale. Sono in grado di colonizzare rapidamente ambienti aperti nelle aree potenzialmente interessate dalle foreste temperate
  1296. Categoria: Arbusteti temperati
  1297. ● Arbusteti silicicoli a ginestra dei carbonai
  1298. ● Arbusteti calcicoli a prugnolo e biancospino
  1299. /
  1300. Prugnolo (Prunus spinosa)
  1301. Gli arbusteti di ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius) occupano la fascia montana tra 800 e 1300 m, soprattutto sugli altopiani posti sui 900-1000 m di Sila, Serre e Aspromonte. Sono localizzati su substrati di natura cristallina (gneiss, graniti, ecc.) e suoli più o meno profondi e acidi (Brullo et al. 2001, Mercurio e Spampinato 2006).
  1302. Sono formazioni arbustive monoplane, dense, alte 1.5-2 m a dominanza di ginestra dei carbonai, eterogenee nella struttura e nella composizione floristica in relazione alle caratteristiche ecologiche e allo stadio evolutivo in cui si trovano. Alla ginestra dei carbonai comunemente si associano Pteridium aquilinum, Cytisus villosus e talora Erica arborea. Sono diffuse nelle chiarie delle faggete e dei castagneti e ne costituiscono comunemente il mantello preforestale. Sono inoltre presenti nei coltivi e nei pascoli abbandonati e nelle aree percorse dal fuoco, dove costituiscono uno stadio della serie dinamica della vegetazione.
  1303. Sotto il profilo fitosociologico queste formazioni sono riferite a diverse associazioni vegetali. In particolare i cespuglieti che si trovano sugli altopiani a netta dominanza di ginestra dei carbonai rientrano nel Poligalo-Cytisetum scoparii Brullo & Furnari 1982 (Barbagallo et al. 1982, Brullo et al. 2001). Quelli misti di Cytisus scoparius e Cytisus villosus sono invece inquadrati nel Cytisetum villoso-scoparii Brullo, Scelsi & Spampinato 2001 (Maiorca et al. 2003, 2006), associazione presente su suoli meno evoluti e meno profondi localizzati nella fascia della cerreta o in quella più elevata della lecceta. Infine gli arbus eti caratterizzati dalla presenza di Adenocarpus brutius, ubicati su superfici molto acclivi con roccia affiorante, sono riferiti al Centaureo-Adenocarpetum brutii. Tutte queste associazioni rientrano nel Violion messanensis, alleanza a distribuzione siculo-calabra della classe Cytisetea striato-scopari.
  1304. /
  1305. Arbusteti a ginestra dei carbonai dopo l’incendio nella pineta di pino laricio (Sila)
  1306. Cytisus scoparius, Cytisus villosus, Pteridium aquilinum.
  1307. Nessuna.
  1308. Si tratta in massima parte di formazioni secondarie, stadi nella ricostituzione delle cenosi forestali della fascia montana che fanno parte della serie dinamica delle faggete o delle cerrete. Si insediano in aree percorse dal fuoco o su suoli abbandonati dall’attività agricola. In questi cespuglieti si osserva talora la presenza di specie che tendenzialmente vanno a ricostituire la vegetazione forestale climatofila come alcune specie di querce o l’abete bianco.
  1309. Su suoli più aridi e ben drenati sono sostituiti da pinete a pino laricio, mentre su suoli più profondi e freschi il bosco pio iero è strutturato da ontano napoletano.
  1310. Da lasciare alla libera evoluzione agevolando la riaffermazione delle specie arboree.
  1311. Eventuali ripuliture per favorire la rinnovazione naturale, o da rimboschire.
  1312. Da lasciare alla libera evoluzione, agevolando la riaffermazione delle specie arboree o reintroducendo a gruppi le specie della stessa serie dinamica.
  1313. Fagus sylvatica, Castanea sativa, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica.
  1314. Sono tipici dei substrati calcarei (Pollino e Catena Costiera) fino a 700-800 m di quota (Maiorca e Spampinato 1999).
  1315. Formazioni arbustive alte fino a 4-5 m a dominanza di biancospino (Crataegus monogyna) e prugnolo (Prunus spinosa) ai quali si associano diverse altre Rosaceae decidue, spesso spinescenti: Rosa canina, Malus sylvestris, Pyrus pyraster, ecc.
  1316. Si tratta di formazioni eterogenee riferibili alla classe Rhamno-Prunetea che riunisce gli arbusteti e i mantelli preforestali dinamicamente legati ai boschi caducifogli della classe Querco-Fagetea.
  1317. Le formazioni termofile, localizzate in ambienti con elevata umidità edafica, presentano un contingente di specie mediterranee tra cui Rubus ulmifolius.
  1318. Prunus spinosa, Crataegus monogyna, Rosa canina.
  1319. Nessuna.
  1320. Sono formazioni secondarie che fanno parte della serie dinamica dei querceti caducifogli su suoli a reazione neutra o neutro-basica.
  1321. Lasciare alla libera evoluzione agevolando la riaffermazione delle specie arboree.
  1322. Nessuna forma colturale.
  1323. Reintroduzione a “macchia di leopardo” delle specie della stessa serie dinamica.
  1324. Prunus spinosa, Crataegus monogyna, Rosa canina, Quercus pubescens s.l., Quercus cerris, Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Malus sylvestris, Pyrus pyraster.
  1325. In questa categoria vengono comprese formazioni forestali igrofile limitate nella loro estensione territoriale ma che possono svolgere una importante funzione di difesa del suolo lungo i corsi d’acqua e che rappresentano aree di rilevante interesse naturalistico.
  1326. Categoria: Formazioni boschive igrofile
  1327. ● Formazioni ripariali di ontano nero
  1328. ● Formazioni ripariali di ontano nero e ontano napoletano
  1329. ● Formazioni ripariali di salice bianco
  1330. ● Formazioni ripariali di pioppo nero
  1331. ● Formazioni ripariali di pioppo bianco
  1332. ● Formazioni di olmo campestre
  1333. ● Formazioni ripariali di platano orientale
  1334. ● Formazioni planiziali di frassino ossifillo e farnia
  1335. ● Formazioni ripariali di tamerici
  1336. Queste formazioni si trovano dal livello del mare fino a 1200 m su suoli alluvionali limoso-argillosi (Barbagallo et al. 1982, Brullo e Spampinato 1997, 1999b, Maiorca e Spampinato 1999, Brullo et al. 2001, Maiorca et al. 2005, 2007, Mercurio e Spampina o 2006, Mercurio et al. 2007, 2009a).
  1337. Si tratta di formazioni igrofile specializzate, localizzate lungo corsi d’acqua, più raramente nelle zone planiziarie, forteme te condizionate dalla presenza di acqua nel suolo e da un periodo di inondazione più o meno prolungato anche di alcuni mesi. L'ontano nero (Alnus glutinosa Gaertn.) è la specie prevalente, ad esso si accompagnano sporadicamente nello strato arboreo altri alberi igrofili come pioppo nero, pioppo bianco e salice bianco.
  1338. /
  1339. Ripisilve a ontano nero (Fiume Metramo, Serre)
  1340. Le ripisilve a dominanza di ontano nero sono riferite a differenti associazioni vegetali in relazione alla collocazione altime rica e alle caratteristiche ecologiche del corso d’acqua. Quelle localizzate lungo i corsi d’acqua della fascia montana che spesso scorrono su altopiani, rientrano nell'associazione Euphorbio coralloides-Alnetum glutinosae Brullo e Furnari in Barbagallo et al. 1982 (Barbagallo et al. 1982, Brullo e Spampinato 1997), associazione legata ad un bioclima temperato ricca di specie nemorali e igrofile tra cui l’endemica Euphorbia corallioides che caratterizza l’associazione. Le ripisilve della fascia alto collinare e sub montana, ubicate nelle valli fluviali strette e ombrose sono invece riferite al Polysticho setiferi-Alnetum glutinosae Brullo, Scelsi e Spampinato 2001 (Brullo et al. 2001), mentre quelle della fascia collinare planiziaria nell’Angelico sylvestris-Alnetum glutinosae Brullo e Spampinato 1997.
  1341. Strato arboreo: Alnus glutinosa, Populus nigra, Populus alba, Salix alba.
  1342. Strato arbustivo: Hypericum hircinum subsp. majus, Sambucus nigra.
  1343. Strato erbaceo: Euphorbia corallioides, Polystichum setiferum, Angelica sylvestris, Carex remota.
  1344. Ceduo semplice e matricinato. Frequente l’abbandono colturale.
  1345. Nessuna.
  1346. L’ontano nero è una specie poco longeva che non supera i 120 anni. Ha una forte capacità di colonizzazione, grazie all’abbonda za di seme prodotto che viene facilmente disperso.
  1347. Le ripisilve di ontano nero sono formazioni edafofile stabili, legate alle peculiari condizioni ecologiche determinate dal corso d’acqua e in particolare all’impaludamento più o meno prolungato nel periodo invernale. Sui terrazzi alluvionali raramente inondati i boschi di ontano sono sostituiti da quelli di pioppo nero, mentre nelle zone litoranee meno frequentemente inondate so o sostituite da formazioni a pioppo bianco (Brullo e Spampinato 1997).
  1348. Le fasce boscate lungo i corsi d’acqua, nelle aree protette, sono da lasciare alla evoluzione naturale in quanto assumono una valenza ecologico-naturalistica (ospitano la nidificazione di varie specie ornitiche). Localmente vanno rilasciati gli alberi di grandi dimensioni e di valore ecologico.
  1349. Negli ontaneti di interesse turistico-ricreativo si possono eseguire diradamenti e tagli fitosanitari per garantire la sicurezza dei fruitori.
  1350. La durata della facoltà pollonifera dell'ontano nero è indefinita perché dopo il taglio, si rigenera per polloni basali capaci di affrancarsi (Bernetti 1995). Gli ontaneti di ontano nero possono essere governati a ceduo con piccoli tagli a raso e rilascio di 60 matricine ad ettaro, con turni di 15-20 anni (turno minimo di 12 anni art. 32 del Reg. 2/2020). Mantenendo una fascia di rispetto di oltre 10 m dal corso d’acqua da ambo i lati (art. 25 del Reg. 2/2020).
  1351. L'ontano nero, specie pioniera e fissatrice di azoto atmosferico con apparato radicale profondo, è particolarmente adatta nel consolidamento di sponde di corsi d’acqua. Si può usare nelle zone più umide degradate, misto a pioppo bianco, pioppo nero, salici, farnia.
  1352. Alnus glutinosa, Salix alba, Populus nigra, Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Ulmus minor, Hypericum hircinum subsp. majus, Sambucus nigra.
  1353. Formazioni miste di ontano nero (Alnus glutinosa Gaertn.) e ontano napoletano (Alnus cordata L.), localizzate lungo i corsi d’acqua da 100 fino a 1000 m.
  1354. Ripisilve a dominanza di ontano nero, cui si accompagna l’ontano napoletano che in particolari contesti ecologici diviene domi ante, e altri alberi igrofili come il pioppo nero.
  1355. Le ripisilve ad ontano nero, con presenza più o meno abbondante di ontano napoletano, sono localizzate su alluvioni di varia natura prevalentemente a tessitura ciottolosa-ghiaiosa e limoso-sabbiosa (Avolio 1994-1995, Pedrotti e Gafta 1996, Maiorca et al. 2006, Maiorca e Spampinato 1999, Mercurio et al. 2007, 2009a). Esse sono inquadrate in diverse associazioni, differenziate, oltre che dal corteggio floristico, dalle specifiche condizioni ecologiche (Brullo e Spampinato 1997, Maiorca e Spampinato 1999). Su alluvioni a tessitura ghiaioso-ciottolosa si insediano i boschi misti dell’Alnetum glutinoso-cordatae Brullo e Spampinato 997, mentre gli ontaneti a dominanza di ontano napoletano sono riferiti all’Arisaro proboscidei-Alnetum cordatae Pedrotti e Gafta 1992 che si localizzano su alluvioni con tessitura più fine.
  1356. Strato arboreo: Alnus glutinosa, Alnus cordata, Populus nigra.
  1357. Strato arbustivo: Hypericum hircinum subsp. majus.
  1358. Strato erbaceo: Arisarum proboscideum, Salvia glutinosa.
  1359. Ceduo semplice e matricinato.
  1360. Nessuna.
  1361. Formazioni edafofile stabili, legate alle peculiari condizioni ecologiche determinate dal corso d’acqua. Le azioni di disturbo antropico favoriscono la formazione di cenosi arbustivo-lianose a dominanza di Rubus ulmifolius.
  1362. Gli ontaneti lungo i corsi d’acqua, lontani dalle zone vulnerabili, sono da lasciare alla evoluzione naturale nelle aree prote te in quanto assumono una valenza ecologico-naturalistica (ospitano la nidificazione di varie specie ornitiche). Diversamente con periodici interventi di taglio, si favoriscono le specie sporadiche, produttrici di semi e/o frutti eduli, e quelle specie preferenziali per la nidificazione. Localmente vanno rilasciati gli alberi di grandi dimensioni e di interesse ecologico.
  1363. Negli ontaneti che svolgono una funzione turistico-ricreativa si devono eseguire tagli fitosanitari e di messa in sicurezza a eneficio dei fruitori.
  1364. La durata della facoltà pollonifera dell’ontano nero è indefinita perché dopo il taglio, si rigenera per polloni basali capaci di affrancarsi (Bernetti 1995). Gli ontaneti di ontano nero possono essere governati a ceduo, con taglio a raso, rilascio di 60 matricine ad ettaro, con turni di 15-20 anni. Anche l’ontano napoletano si può gestire allo stesso modo. Non sono esclusi i tagli colturali su popolamenti ad alto fusto > 60 anni, posti lontano dal corso d’acqua, rilasciando una provvigione minimale di 250 m3 ad ettaro.
  1365. Occorre mantenere una fascia di rispetto di almeno 10 m dal corso d’acqua su entrambi i lati.
  1366. Un aspetto da considerare è quello legato alla sicurezza del territorio. Nei tratti che attraversano zone a più elevato livello di vulnerabilità (centri abitati, ponti, infrastrutture in genere) bisogna garantire il mantenimento delle sezioni minime di deflusso, anche attraverso il taglio della componente arborea nelle fasce di pertinenza di magra. Mentre, “sulle sponde è necessario avere una vegetazione elastica, che quando sommersa si possa agevolmente flettere riducendo poco la velocità dell’acqua, ma che allo stesso tempo protegga il suolo dall’erosione. Tali effetti possono essere assicurati, nel caso di vegetazione legnosa, da piante o polloni mantenuti in uno stato giovanile (Calamini et al. 2008).
  1367. Gli ontani nero e napoletano, sono specie pioniere e fissatrici di azoto atmosferico particolarmente adatte nel consolidamento di zone umide degradate, misti a frassino ossifillo e pioppo bianco e nero, ecc.
  1368. Alnus cordata, Alnus glutinosa, Salix alba, Populus nigra, Populus alba, Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Hypericum hircinum subsp. majus, Vitis vinifera subsp. sylvestris, Sambucus nigra, Ficus carica.
  1369. Tipica vegetazione di sponda fluviale presente soprattutto nei tratti terminale dei fiumi dal livello del mare fino a 600-800 m in tutta la regione (Mercurio e Spampinato 2006, Maiorca et al. 2005, 2007, 2008).
  1370. Formazioni di salice bianco (Salix alba) talora con pioppo nero (nei tratti più distanti dalla sponda), salice calabrese (Salix brutia) e salice rosso (Salix purpurea) insediata sulle alluvioni di natura limoso-sabbiosa più prossime al corso d’acqua.⤀
  1371. Le formazioni ripariali a salice bianco molto specializzate sotto il profilo ecologico e sono fortemente condizionate e dalla presenza di acqua. Svolgono un importante di stabilizzazione delle alluvioni, in quanto grazie agli appartati radicali superficiali non consentono che vengano rimessi in movimento i sedimenti alluvionali.
  1372. Le boscaglie ripariali a salice bianco sono riferibili al Salicetum albo-brutiae associazione diffusa lungo i corsi d’acqua di tutta la Calabria (Brullo e Spampinato 1997).
  1373. /
  1374. Boscaglie di salice bianco (Lago di Tarsia, Cosenza)
  1375. Strato arboreo: Salix alba, Salix brutia, Salix purpurea.
  1376. Strato arbustivo, Hypericum hircinum subsp. majus.
  1377. Strato erbaceo: Calystegia silvatica, Dorycnium rectum, Saponaria officinalis.
  1378. Nessuna.
  1379. Nessuna.
  1380. Formazioni edafiche legate alla dinamica fluviale, che si riformano con una certa facilità dopo le piene colonizzando le alluvioni umide. In assenza di eventi distruttivi la cenosi evolve verso il bosco di pioppo nero. Il salice bianco e le altre specie dello stesso genere sono poco longeve.
  1381. Per l'effetto stabilizzante che esercitano sulle alluvioni è bene lasciare queste formazioni alla libera evoluzione.
  1382. Nessuna attività selvicolturale in quanto sono formazioni di alcun interresse economico. In ogni caso per il governo a ceduo l’art. 32 del Reg. 2/2020 ammette per i salici turni minimi di 12 anni.
  1383. Nel caso di parti degradate si può “ricucire” la vegetazione con nuove piantagioni di talee (20-30 cm) di salice bianco (5-10/m2) in autunno o primavera. Nei terreni periodicamente sommersi si usano astoni o talee di 100 cm. Le talee di salice rosso sono usate comunemente per fare graticciate.
  1384. Salix alba, Salix purpurea, Salix brutia, Salix ionica, Populus nigra.
  1385. Il pioppo nero (Populus nigra L.) si localizza lungo i fiumi sui terrazzi alluvionali più elevati, all’esterno rispetto ai salici. Le ripisilve a pioppo nero si insediano su substrati alluvionali ghiaiosi o ciottolosi, in tutta la regione dal livello del mare fino a 500-700 m.
  1386. Formazioni pure o miste di pioppo nero cui si associano ontano nero, salice bianco, salice calabrese, e tamerici. Quelle prese ti nel bacino del Fiume Crati sono inquadrate da Maioca et al. (2007) nel Roso sempervirentis-Populetum nigrae Pedrotti & Gafta 1992
  1387. Strato arboreo: Populus nigra, Salix alba.
  1388. Strato arbustivo: Rosa sempervirens, Salix brutia.
  1389. Strato erbaceo: Carex pendula.
  1390. Tagli occasionali. Abbandono colturale.
  1391. Nessuna.
  1392. Formazioni edafiche stabili, saltuariamente inondate, legate a condizioni di elevata umidità edafica, costante per tutto l’anno.
  1393. Da lasciare alla evoluzione naturale nelle aree protette in quanto assumono una valenza ecologico-naturalistica. Possibili tagli colturali occasionali di singole o gruppi di piante laddove lo richiedono motivi di sicurezza.
  1394. Nessuna attività selvicolturale, trattandosi di piccole formazioni senza alcun interesse economico.
  1395. In ogni caso per il governo a ceduo l’art. 32 del Reg. 2/2020 ammette per i pioppi “in formazione naturale” turni minimi di 10 anni.
  1396. Il pioppo nero é particolarmente adatto per il “ricucimento” di popolamenti frammentati e nel consolidamento di zone umide deg adate, misto a ontano nero e pioppo bianco. Mentre la parte più lontana dalle sponde del fiume è riservata ai salici.
  1397. Populus nigra, Salix alba, Cornus sanguinea, Salix purpurea, Salix brutia, Rosa sempervirens.
  1398. /
  1399. Bosco di pioppo nero lungo il torrente Pachina (Aspromonte)
  1400. Il pioppo bianco (Populus alba L.) si trova soprattutto in prossimità delle foci dei principali fiumi della regione e nei tra ti terminali dei corsi d’acqua.
  1401. Le formazioni pure o miste a dominanza di pioppo bianco sono situate a breve-media distanza dai fiumi; al pioppo si associano olmo campestre, ontano nero, salice bianco. Prevalgono in prossimità delle foci dei fiumi, su substrati alluvionali, interessati da allagamenti non prolungati, limitati alla stagione invernale, soggetti a movimento assiale o laterale dell’acqua e a un rapido deflusso (Maiorca et al. 2005).
  1402. Le formazioni planiziali presenti presso le foci dei principali fiumi calabresi sono inquadrate da Brullo e Spampinato (1997, 1999b) nel Clematido viticellae-Populetum albae Brullo & Spampinato 1997.
  1403. Strato arboreo: Populus alba, Alnus glutinosa.
  1404. Strato arbustivo: Clematis rigoi.
  1405. Strato erbaceo: Limniris pseudacorus (=Iris pseudacorus).
  1406. Tagli colturali occasionali.
  1407. Nessuna.
  1408. Formazione edafoclimacica stabile nel tempo. Con l’aumentare del ristagno idrico si ha la sostituzione con i boschi di ontano ero. L’incendio e altre azioni di disturbo favoriscono gli arbusteti con rovi. Il pioppo bianco si diffonde facilmente per polloni radicali.
  1409. Da lasciare alla evoluzione naturale le formazioni nelle aree protette in quanto assumono una valenza ecologico-naturalistica.
  1410. Il pioppo bianco ha un interesse dal punto di vista produttivo (Mercurio e Minotta 2000, Corona et al. 2018). Nel caso del governo a ceduo l’art. 32 del Reg. 2/2020 ammette per i pioppi “in formazione naturale” turni minimi di 10 anni, ma in pratica si dovrebbero avere come riferimento turni di 18-20 anni.
  1411. Il pioppo bianco resiste bene al vento, alla sommersione, alla siccità e a condizioni di lieve salinità. Si presta per realizzare piccole piantagioni con pioppelle o astoni, anche in mescolanza a ontano nero, pioppo nero, frassino ossifillo per fissare piccole frane per talea.
  1412. Populus alba, Populus nigra, Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Alnus glutinosa, Clematis rigoi, Cornus sanguinea.
  1413. /
  1414. Boschi igrofili di pioppo bianco (foce del Fiume Crati)
  1415. Le formazioni di olmo campestre (Ulmus minor Mill.), tipiche delle zone planiziarie igrofile, formano una fascia a margine dei pioppeti igrofili (Maiorca et al. 2005). L’antropizzazione della fascia costiera ha determinato la scomparsa di questi boschi nella gran parte delle pianure calabresi. Gli esempi più significativi si osservano presso la foce del fiume Crati
  1416. Boscaglie a dominanza di olmo campestre al quale si associa sporadicamente il pioppo bianco, localizzate su suoli alluvionali reschi, profondi, eutrofici, limosi o limoso-sabbiosi, anche argillosi ma drenati, inondati solo occasionalmente ma con buona disponibilità idrica durante tutto l’anno (Maiorca et al. 2007, Spampinato et al. 2019b). Sotto il profilo fitosociologico sono inquadrate nel Aro italici-Ulmetum minoris Rivas Martinez ex Lopez 1976.
  1417. Strato arboreo: Ulmus minor, Populus alba.
  1418. Strato arbustivo: Sambucus nigra.
  1419. Strato erbaceo: Arum italicum.
  1420. Interventi colturali occasionali.
  1421. Nessuna.
  1422. L’olmo campestre è una specie longeva fino a 300 anni, ma viene penalizzata dalla grafiosi. I boschi di olmo campestre sono fo mazioni edafo-climatiche tendenzialmente stabili, in contatto catenale con i pioppeti planiziali di pioppo bianco; l’aumento di umidità nel suolo. e il prolungamento del periodo di sommersione. favorisce la sostituzione delle formazioni a olmo campestre con i pioppeti più igrofili.
  1423. Da lasciare alla evoluzione naturale nelle aree protette perché queste cenosi che hanno un prevalente significato ecologico-na uralistico.
  1424. Nelle boscaglie planiziarie anche se non hanno rilevanza dal punto di vista economico, si possono eseguire diradamenti puntuali per poter ricavare piccoli assortimenti di alta qualità.
  1425. L’olmo campestre può essere impiegato insieme ad altre specie per recuperare zone degradate ma drenate.
  1426. Ulmus minor, Populus alba, Vitis vinifera subsp. sylvestris.
  1427. Il platano orientale (Platanus orientalis L.) costituisce formazioni molto localizzate e frammentate lungo i fiumi della Calaria centro-orientale, soprattutto nel bacino del fiume Uria tra 60 e 750 m (Caruso et al. 2008).
  1428. I plataneti della Calabria sono piuttosto frammentati e non sono stati riferiti ad una specifica associazione, assieme ai plataneti di altri territori dell’Italia meridionale e della Sicilia rientrano nell’alleanza Platanion orientalis che riunisce le fitocenosi ripariali igrofile a dominanza di Platanus orientalis, che si sviluppano lungo i corsi d’acqua perenni, in aree a macrobioclima mediterraneo (termotipo termomediterraneo), su suoli alluvionali idromorfi di varia natura, a tessitura sabbiosa o ciottolosa (Spampinato 2003c).
  1429. /
  1430. Individuo vetusto di platano orientale (Curinga, Vibo Valentia)
  1431. Strato arboreo: Platanus orientalis, Alnus glutinosa, Salix alba, Populus nigra.
  1432. Strato arbustivo: Nerium oleander, Tamarix africana.
  1433. Strato erbaceo: Solanum dulcamara.
  1434. Tagli a scelta occasionali.
  1435. Nessuna.
  1436. Le ripisilve a platano orientale costituiscono dei particolari edafoclimax tendenzialmente stabili.
  1437. La distruzione di queste cenosi favorisce i cespuglieti ripariali a salici e quindi le formazioni arbustive a rovi e altre rosacee arbustive. Nei casi di maggior degrado sono invece sostituite da formazioni erbacee a megaforbie (Caruso et al. 2012).
  1438. Platanus orientalis è una specie che in base ai criteri IUCN è considerata a rischio di estinzione con la categoria di “minacciata” (Caruso et al. 2012). I popolamenti sono in un cattivo stato di conservazione in conseguenza dell’alterazione ambientale dei corsi d’acqua. Le misure di conservazione di queste formazioni di alto valore naturalistico, sono di tipo indiretto, e sono volte ad evitare tutte quelle azioni, legate alla gestione e manutenzione dei corsi d’acqua, che alterano l’habitat del platano.
  1439. Visto lo stato di conservazione dei popolamenti naturali, sono sconsigliati interventi selvicolturali, se non locali azioni pe mettere in sicurezza aree specifiche.
  1440. Nei luoghi opportuni per la specie possono essere eseguite piantagioni a scopo produttivo in quanto il legno è di alta qualità tecnologica (Mercurio e Minotta 2000, Clopes 2008).
  1441. Il platano può essere usato per “ricucire” le aree ripariali andate distrutte con piccole piantagioni anche insieme a ontano nero e pioppo nero e bianco.
  1442. Platanus orientalis, Nerium oleander, Alnus glutinosa, Tamarix africana, Ficus carica, Solanum dulcamara, Vitis vinifera subsp. sylvestris.
  1443. Interessano i tratti finali dei fiumi che sfociano nello Jonio: Crati e Neto (Pedrotti e Gafta 1996, Brullo e Spampinato 1997, 1999b, Maiorca et al. 2005).
  1444. Boschetti planiziali igrofili periodicamente inondati a prevalenza di frassino ossifillo (Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa), rari, molto frammentati e ubicati nelle pianure alluvionali presso le foci dei principali fiumi, su substrati limoso-sabbiosi fini. Dal punto di vista fitososciologico sono inquadrati nel Carici remotae-Fraxinetum oxycarpae Pedrotti 1970 corr. Pedrot i 1992.
  1445. Le formazioni di frassino ossifillo non planiziali, presenti nei terrazzi alluvionali fluviali o lungo impluvi sui versanti, sono invece da riferire al Rubio peregrinae-Fraxinetum oxycarpae, e sono trattate nella categoria “Altri boschi caducifogli” come “Formazioni di frassino ossifillo”.
  1446. Strato arboreo: Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Quercus robur subsp. brutia.
  1447. Strato erbaceo: Carex pendula, Carex remota.
  1448. Tagli a scelta occasionali.
  1449. Nessuna.
  1450. /
  1451. Frassino ossifillo
  1452. Sono edafoclimax tendenzialmente stabili. Più esternamente, in stazioni svincolate dalla dinamica fluviale, queste formazioni prendono contatto con quelle a olmo campestre.
  1453. La loro permanenza è legata al mantenimento del regime idrico. Per cui le misure di conservazione sono di tipo indiretto e sono volte ad evitare tutte quelle azioni, legate alla gestione e manutenzione dei corsi d’acqua, che alterano l’habitat.
  1454. Questi popolamenti non hanno rilevanza dal punto di vista economico, mentre assumono interesse sul piano ecologico e naturalis ico. Sono da evitare nei popolamenti di origine naturale interventi, se non locali azioni colturali dettate da motivi di sicurezza idraulica. Nelle zone adatte per le due specie (frassino ossifillo e farnia) si possono eseguire piantagioni con finalità produttive dato il valore tecnologico del legno (Mercurio e Minotta 2000).
  1455. Queste specie sono utili per “ricucire” le aree ripariali planiziali andate distrutte. Al riguardo può essere interessante seguire la procedura proposta da Fascetti e Lapenna (2007) per la rinaturalizzazione di alvei fluviali degradati in Basilicata:
  1456. 1) analisi vegetazionale per evidenziare la foresta planiziale mesoigrofila da ricostituire;
  1457. 2) individuazione di specie caratteristiche delle fitocenosi forestali il cui impianto consente di accelerare i tempi di ricostituzione del bosco;
  1458. 3) scelta del modello di impianto ripetitivo di nuclei da dislocare in funzione delle variazioni geo-pedo-morfologiche del terreno, costituiti da specie arboree dominanti e da arbusti preforestali con funzione di protezione per le plantule degli alberi, per gli arbusti e per le specie erbacee del sottobosco aventi la seguente sequenza: a) moderatamente xerofilo per le zone più distanti dal corso d’acqua, b) moderatamente igrofilo e tollerante periodi di inondazione, c) igrofilo a contatto con i saliceti ripariali.
  1459. Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Quercus robur subsp. brutia, Populus alba.
  1460. Corsi d’acqua della fascia costiera soprattutto del versante ionico con regime idrico torrentizio (Brullo e Spampinato 1997, Brullo et al. 2001, Maiorca et al. 2005, 2007, 2008).
  1461. Boscaglie ripariali a struttura alto-arbustiva caratterizzati da Tamarix gallica e T. africana, con Nerium oleander e Vitex ag us-castus. Quelle presenti su alluvioni ciottolose o ghiaiose, nei tratti terminali dei corsi d’acqua con regime intermittente, quali le fiumare frequenti sul lato ionico della regione, sono riferite allo Spartio juncei-Nerietum oleandri Brullo & Spampinato 1990. Le formazioni che invece si insediano presso la foce dei fiumi o in altre aree umide lungo il litorale su alluvioni limoso-sabbiose sono invece riferite al Tamarici africanae-Viticetum agni-casti Brullo & Spampinato 1997 (Brullo e Spampinato 1997).
  1462. Strato arbustivo: Tamarix africana, Tamarix gallica, Nerium oleander, Vitex agnus-castus.
  1463. Strato erbaceo: Saponaria officinalis.
  1464. Queste formazioni sono state spesso eliminate per fare spazio a strutture turistiche, residenziali o aree agricole.
  1465. Nessuna.
  1466. Le boscaglie ripariali a tamerici costituiscono delle formazioni a determinismo edafico legate alla dinamica fluviale di corsi d’acqua a regime torrentizio, o alle aree palustri costiere, interessate dal prosciugamento estivo.
  1467. /
  1468. Tamerice maggiore (Tamarix africana)
  1469. Le misure di conservazione sono di tipo indiretto e sono volte ad evitare tutte quelle azioni che alterano l’habitat.
  1470. Nessuno in quanto sono popolamenti di nessun interesse economico.
  1471. La tamerice è una buona fissatrice delle sabbie e dei terreni argillosi pliocenici, resiste al vento, al sole, alla siccità. Può essere propagata per talea che radica facilmente e cresce rapidamente. Le tamerici sono adatte per ricreare le aree andate distrutte da incendi con piccole piantagioni pure o miste ad altre componenti gli arbusteti mediterranei.
  1472. L’oleandro si moltiplica per talea, resistente ai venti marini salati, può essere impiegato per il consolidamento dell’alveo dei fiumi.
  1473. Anche l’agnocasto può essere usato per la rinaturalizzazione e la conservazione delle fiumare mediterranee. Ha una buona capacità di riproduzione per talea.
  1474. Nerium oleander, Tamarix gallica, Tamarix africana, Spartium junceum, Vitex agnus-castus.
  1475. In questa categoria vengono comprese formazioni forestali limitate nella loro estensione territoriale ma che possono svolgere una importante funzione di difesa del suolo in zone in forte pendenza e che rappresentano comunità di rilevante interesse naturalistico, importanti serbatoi di biodiversità, utili nel riavvio delle dinamiche forestali.
  1476. La denominazione di questa categoria, che può apparire ambigua, dipende dalla estrema variabilità nella composizione: infatti si comprendono diverse formazioni di latifoglie mesofile.
  1477. /
  1478. Boschi di ontano napoletano (Catena Costiera)
  1479. Categoria: Altri boschi caducifogli
  1480. ● Formazioni di acero napoletano
  1481. ● Formazioni di ontano napoletano
  1482. − Variante con faggio
  1483. − Variante con castagno
  1484. ● Formazioni di acero montano
  1485. − Variante con carpino nero
  1486. ● Formazioni di carpino nero
  1487. − Variante con acero napoletano
  1488. − Variante con tiglio
  1489. ● Formazioni di pioppo tremolo
  1490. ● Formazioni di nocciolo
  1491. ● Formazioni di frassino ossifillo
  1492. − Variante con acero napoletano
  1493. − Variante con tiglio e nocciolo
  1494. Nel versante calabrese del Pollino i boschi con acero napoletano (Acer neapolitanum Ten. = Acer obtusatum Waldst. & Kit. ex Willd subsp. neapolitanum (Ten.) Pax) occupano i medi versanti da 900 a 1100 m, su terreni profondi derivanti da calcari dolomitici e dolomie (Mercurio et al. 2007).
  1495. Nelle Serre si trovano su graniti, da 850 a 1000 m (Mercurio e Spampinato 2006).
  1496. Questi boschetti si localizzano in ambienti montani o submontani con particolari condizioni mesoclimatiche di tipo temperato-f esco senza stress idrici durante il periodo estivo e in particolare nella fascia inferiore della faggeta, in quella dei querceti caducifogli.
  1497. L’acero napoletano è un componente dei boschi di forra nelle Serre e in Aspromonte (Brullo et al. 2001, Mercurio e Spampinato 2006) insieme a carpino nero, acero montano, tiglio nostrano, nocciolo, faggio.
  1498. Formazioni a prevalenza di acero napoletano al quale si associano nel Pollino, alle quote superiori, il faggio e il cerro e, più in basso, il carpino nero e la roverella. Nelle Serre all’acero napoletano si associa il farnetto, leccio, roverella, carpino nero; man mano che ci si sposta verso le esposizioni settentrionali e con l’aumento della pendenza, l’acero da subordinato diventa dominante.
  1499. In Aspromonte questa tipologia si trova tra 600 e 1000 m (Brullo et al. 2001); dal punto di vista fitosociologico si riferisce a tre distinte associazioni: il Festuco exaltatae-Aceretum neapolitani Mazzoleni e Ricciardi 1995, Corylo-Aceretum neapolitani Brullo, Scelsi & Spampinato 2001 e il Seslerio autumnalis-Aceretum obtusati Corbetta e Ubaldi.
  1500. /
  1501. Formazioni a prevalenza di acero napoletano (Serre)
  1502. Strato arboreo: Acer neapolitanum, Ostrya carpinifolia, Quercus ilex, Quercus pubescens s.l., Quercus frainetto.
  1503. Strato arbustivo: Cytisus villosus, Corylus avellana.
  1504. Strato erbaceo: Drymochloa drymeja subsp. exaltata (= Festuca exaltata), Polystichum setiferum.
  1505. Boschi non ordinariamente gestiti: i cedui matricinati sono fuori regime dei tagli.
  1506. Nessuna.
  1507. Formazioni sostanzialmente stabili di tipo edafofilo su suoli in forte pendenza e superficiali. Nelle esposizioni fresche prendono contatto catenale, sui versanti meno acclivi o più caldi, con i boschi di leccio o con quelli di roverella, e alle quote più elevate, con la faggeta termofila.
  1508. L’acero napoletano si comporta, al pari di acero di monte, come una specie colonizzatrice di spazi abbandonati da attività agricole in ambienti con condizioni climatiche particolarmente mesiche riferibili alla fascia bioclimatica mesomediterranea superiore o supramediterranea con ombroclima umido.
  1509. Nei cedui misti l’acero va rilasciato come matricina. Gli aceri di grandi dimensioni (> 70 cm) che presentano cavità, fessure, sporofori vanno rilasciati in quanto il loro valore commerciale è basso mentre il valore ecologico è alto.
  1510. I popolamenti nelle aree molto acclivi con pendenza superiore al 40% vanno lasciati alla evoluzione naturale.
  1511. Si possono prevedere soluzioni che consentano di allevare soggetti di acero di grandi dimensioni con buone caratteristiche tec ologiche del legno (“duretto”), almeno nelle zone più fertili. Ciò significherebbe escludere il governo a ceduo e puntare solo sul governo a fustaia, in strutture multistratificate. I tagli colturali sempre puntuali, consistono nella cura e valorizzazio e dei migliori individui dal punto di vista fenotipico.
  1512. In alternativa alla fustaia laddove è necessario ricavare redditi a cicli brevi si può considerare il ceduo composto con matricinatura di acero (Bernetti e Padula 1983).
  1513. L’acero napoletano si presta per la “ricucitura” degli spazi degradati con piantagioni a “isole” con funzioni di ricolonizzazione delle aree adiacenti. Nei cedui misti delle aree protette è opportuno l’avviamento all’alto fusto con una serie di diradamenti a carattere selettivo in modo da giungere a una fustaia mista multistratificata.
  1514. Acer neapolitanum, Quercus ilex, Quercus cerris, Quercus pubescens s.l., Quercus frainetto, Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Carpinius betulus, Corylus avellana, Tilia platyphyllos.
  1515. Questa tipologia non riguarda le formazioni ripariali di ontano napoletano (Alnus cordata Loisel.), già trattate nella catego ia “Formazioni boschive igrofile”, ma quelle sui medi e alti versanti ed è distribuita nella fascia alto collinare e submontana nella parte centro-settentrionale della Calabria.
  1516. Nel Pollino-Catena Costiera si trovano da 180 a 1260 m su calcari e dolomie (Avolio 1995, Mercurio et al. 2007).
  1517. In Sila, l’ontano napoletano è una componente alternativa nelle faggete macroterme che si trova sui versanti con condizioni edafiche più umide.
  1518. Nel Mancuso - Reventino l’ontano napoletano vegeta da 250 a 1300 m, formando consorzi puri di transizione tra la faggeta (o nell’ambito della faggeta negli impluvi umidi) e la cerreta, su serpentini, scisti filladici (Maiorca et al. 2003, 2006, Mercurio et al. 2009a, Spampinato et al. 2008).
  1519. L’ontano napoletano mostra una certa plasticità ecologica, forma consorzi puri negli avvallamenti più umidi in condizioni di t ansizione tra il querceto caducifoglio e la faggeta, o nell’ambito della faggeta macroterma. In genere su suoli profondi, dotati di buona disponibilità idrica, spesso con falda superficiale.
  1520. Lo strato arboreo è in genere dominato dall’ontano napoletano, talvolta accompagnato da faggio alle quote più elevate, mentre a quote più basse si mescola con cerro, acero montano, acero napoletano, carpino nero, roverella e castagno.
  1521. Dal punto di vista fitosociologico i boschi di ontano napoletano ubicati nei versanti più freschi o negli impluvi sono da rife ire all’Asperulo-Alnetum cordatae Bonin 1978, associazione distribuita nella fascia montana inferiore dell’Appennino meridionale (Bonin 1978, Brullo et al. 2001, Rosati et al. 2005) dalla Campania alla Calabria.
  1522. Strato arboreo: Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, A. neapolitanum, Ostrya carpinifolia, Quecus ilex, Quercus pubescens s.l.
  1523. Strato arbustivo: Rubus hirtus.
  1524. Strato erbaceo: Asperula taurina, Ranunculus lanuginosus, Geranium versicolor, Lamium flexuosum.
  1525. Nei cedui il trattamento è il taglio raso con riserva di matricine, nelle fustaie il taglio a scelta.
  1526. Variante con faggio
  1527. Variante con castagno
  1528. I boschi di ontano napoletano costituiscono delle cenosi durevoli su suoli dotati di buona disponibilità idrica per affioramen o o superficialità della falda freatica (Pignatti 1998, Maiorca et al. 2006), su versanti in genere acclivi con esposizioni fresche.
  1529. Nelle aree abbandonate dalle attività agricole o nelle aree dove è stata eliminata la copertura forestale di latifoglie mesofile localizzate nella fascia bioclimatica mesomediterranea o supramediterranea, l’ontano napoletano si comporta come specie pioniera e da origine a formazioni transitorie che, a seconda della quota, rappresentano uno stadio della serie dinamica della cerre a o della faggeta macroterma. In queste formazioni la ceduazione favorisce l’ontano in quanto specie pioniera. Laddove invece le ceduazioni sono state sospese (a volte da 60 anni) si assiste, nell’area di vegetazione del faggio, all’affermazione di specie ecologicamente coerenti (acero montano) e più rustiche (carpino nero): ma non sempre sono evidenti i segni di una evoluzione verso la faggeta (Mercurio et al. 2007).
  1530. L’ontano napoletano colonizza i castagneti da frutto abbandonati (Maiorca et al. 2003, 2006, Mercurio et al. 2009) innescando una dinamica che evolve verso formazioni di cerro o di roverella.
  1531. L’ontano napoletano non è una specie longeva, difficilmente supera difficilmente i 100 anni, intorno ai 40 anni comincia il disseccamento della chioma quando le piante raggiungono circa 35 cm di diametro.
  1532. I nuclei posti negli impluvi alle quote elevate e quelli localizzati sui versanti acclivi con affioramento della falda hanno u importante ruolo nella stabilizzazione dei versanti e devono essere lasciati alla libera evoluzione. Da favorire, laddove possibile, la conversione in fustaia.
  1533. I boschetti a bassa quota si possono governare a ceduo sia per l’eccellente facoltà pollonifera dell’ontano napoletano (Susmel 1956, Bernetti 1995) sia per la rapidità di accrescimento giovanile, mediante il taglio a raso con turni di 15-20 anni e il rilascio di 50-80 matricine ad ettaro. Oltre i 20 anni la rinnovazione agamica non è sempre certa e abbondante e oltre i 50 anni è vietata la ceduazione.
  1534. La gestione delle fustaie di ontano napoletano non è ben regolamentata in Calabria.
  1535. Tecnicamente è possibile il taglio a raso su piccole superfici (20×200 m), con turni di 40-50 (70) anni nelle fustaie coetanee (Rispoli 1958, Brezzi et al. 1989) ma non si può applicare in Calabria con la attuale normativa, se non in deroga. Nelle fustaie a struttura multiplana di oltre 60 anni si può intervenire invece con il taglio colturale, cioè con il taglio contemporaneo dei soggetti più sviluppati, sfollamenti e diradamenti, e con l’eventuale apertura di buche (400 m2) nei tratti monoplani per favorire la rinnovazione anche di altre latifoglie. La provvigione minimale deve essere superiore a 250 m3 ad ettaro. Il periodo intercorrente tra un intervento e il successivo è di 10 anni.
  1536. Nei popolamenti misti dove sono in atto processi evolutivi (cedui “invecchiati” con presenza di acero montano, carpino nero e faggio), occorre favorire questi processi (restauro passivo) a patto che venga sospeso il pascolo.
  1537. L’ontano napoletano si presta per il consolidamento di aree in smottamento nella fascia montana e submontana (Graf et al. 2004) molto frequenti in Calabria.
  1538. Fagus sylvatica, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Castanea sativa, Sambucus nigra, Acer pseudoplatanus, Acer platanoides, Acer neapolitanum, Ostrya carpinifolia, Carpinus betulus.
  1539. L’acero montano (Acer pseudoplatanus L.) è sporadico nelle faggete e nei boschi di querce caducifoglie di tutti i sistemi mon uosi della regione. Solo in particolari contesti diventa dominante come nel Monte Mancuso: l’acero montano vegeta tra 900-1000 m su terreni profondi derivanti da scisti filladici. In Sila è segnalato un popolamento vetusto di 120-250 anni tra 1100 e 1250 m (Marziliano et al. 2017).
  1540. L’acero montano tende a formare boschi puri e talora costituisce delle formazioni più evolute con il faggio, il cerro, l’ontano napoletano, castagno, ciliegio e carpino nero della fascia montana o submontana con bioclima temperato (Brullo et al. 2001, Maiorca et al. 2006, 2007, Mercurio e Spampinato 2006, Mercurio et al. 2009a). Sotto il profilo fitosociologico queste formazioni rientrano nel Tilio pseudorubrae-Ostryon carpinifoliae, alleanza che riunisce varie associazioni di boschi misti di aceri, tigli e olmi legate a particolari condizioni microclimatiche fresche e umide di tipo oceanico, localizzati soprattutto in forre.
  1541. Strato arboreo: Acer pseudoplatanus, Ostrya carpinifolia, Fraxinus ornus.
  1542. Strato arbustivo: Ilex aquifolium.
  1543. Strato erbaceo: Polystichum setiferum, Geranium versicolor, Lathyrus venetus.
  1544. Cedui matricinati nei boschi misti.
  1545. Variante con carpino nero
  1546. Formazioni stabili di tipo edafico che prendono contatto con la faggeta o la cerreta. Si tratta di popolamenti sostanzialmente stabili anche grazie alla regolare ceduazione che però favorisce l’ingresso di specie termofile e in particolare del leccio.
  1547. Nelle aree protette l’acereta, che si afferma in seguito alla colonizzazione di ex terreni agricoli o di faggete degradate dai tagli intensi, può essere lasciata al completamento del proprio ciclo (che dura circa 500 anni), senza tagli o pascolamento, all’interno della quale si insedia il faggio che si affermerà in seguito al decadimento dell’acereta.
  1548. Nei boschi misti è da evitare la ceduazione per favorire l’avviamento all’alto fusto.
  1549. I soggetti di grandi dimensioni (> 70 cm) con cavità, fessure, licheni, di scarso valore commerciale ma di alto interesse ecologico, vanno rilasciati.
  1550. Si devono favorire soluzioni che consentano di allevare soggetti di acero di grandi dimensioni con buone caratteristiche del fusto (per il pregio del legno). Ciò significa puntare sul governo a fustaia, rifacendosi ai tagli colturali puntuali, cercando di valorizzare, attraverso l’eliminazione dei competitori, i soggetti migliori.
  1551. Non si può parlare di restauro dell’acereta in senso stretto. Se si tiene conto che nelle dinamiche naturali precede la faggeta, l’acero montano può essere introdotto a gruppi nei boschi degradati di faggio o di cerro. Così come si possono eseguire piantagioni a “isole” negli ex coltivi e pascoli (Bernetti e Padula 1983) dell’area di vegetazione del faggio e del cerro.
  1552. Fagus sylvatica, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Castanea sativa, Acer pseudoplatanus, Acer platanoides, Acer neapolitanum, Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Prunus avium, Tilia platyphyllos, Ulmus minor.
  1553. Hofmann (1982) afferma che in Calabria gli ostrieti si dissolvono in piccoli areali staccati: nei bacini del Lao e del Coscile, nei versanti Sud e Est della Sila Piccola, sulle montagne di Fuscaldo e di Corigliano e infine nel versante Nord della Sila Grande, mentre ritiene che il limite meridionale sia a Serra San Bruno.
  1554. Nella Valle del Lao il carpino nero prevale nettamente sulle altre specie nelle esposizioni settentrionali, su suoli incoerenti, e poco evoluti e su forti pendenze da (150) 300-600 (1000) m su calcari e dolomie (Mercurio et al. 2007).
  1555. /
  1556. Ostrieti con vecchie capitozze (Valle del Fiume Lao)
  1557. Nella Sila Greca gli ostrieti sono situati tra le cerrete e le faggete, su pendenze accentuate su calcari (Bonin e Gamisans 1976).
  1558. Nelle Serre e in Aspromonte questa formazione si trova soprattutto in ambienti di forra (Brullo et al. 2001, Mercurio e Spampinato 2006).
  1559. Sono formazioni in cui prevalgono il carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.) e subordinatamente l’orniello (Fraxinus ornus L.) e l’acero napoletano (Acer neapolitanum Ten.). Ma anche quei boschi a composizione alquanto eterogenea al variare dei fattori stazionali (microclimatici, edafici e morfologici), dove entrano nel consorzio e accrescono la loro presenza localmente, leccio, roverella, acero napoletano, cerro, carpino orientale, ontano napoletano, acero campestre.
  1560. Il trattamento selvicolturale (governo a ceduo) ha determinato popolamenti a struttura biplana, con matricine di carpino, leccio o roverella nel piano dominante e polloni di carpino e altre specie in quello dominato.
  1561. In accordo con Blasi et al. (2006) i boschi a dominanza di carpino nero, presenti nella Valle del Lao, sono riferibili a due distinte associazioni: il Festuco exaltatae-Aceretum neapolitani Mazzoleni e Ricciardi 1995 e il Seslerio autumnalis-Aceretum obtusati Corbetta e Ubaldi, in Corbetta et al. (2004). La prima di queste si trova a quote più basse nell’ambito della vegetazio e forestale sempreverde dei Quercetea ilicis dove assume il significato di formazione edafo-climatica, localizzata nelle forre o sui versanti esposti a settentrione. La seconda rappresenta invece un bosco a netta dominanza di carpino nero, ubicata nelle quote più elevate della fascia submontana o montana dei boschi mesofili dei Querco-Fagetea, dove si rinviene in particolari contesti edafici caratterizzati da substrati incoerenti o poco evoluti.
  1562. Strato arboreo: Ostrya carpinifolia, Acer neapolitanum, Fraxinus ornus, Tilia platyphyllos subsp. pseudorubra.
  1563. Strato arbustivo: Euonymus europaeus, Daphne laureola.
  1564. Strato erbaceo: Sesleria autumnalis, Drymochloa drymeja subsp. exaltata (= Festuca exaltata), Vinca minor.
  1565. Cedui matricinati, con la tendenza ad aumentare il numero delle matricine rilasciate.
  1566. Variante con acero napoletano
  1567. Variante con tiglio nostrano
  1568. Formazioni stabili legate a specifici condizionamenti edafici e mesoclimatici, verso l’alto il contatto più frequente è con la faggeta e verso il basso, o a parità di quota al variare dell’esposizione e del tipo di suolo, con la lecceta e con i querceti caducifogli.
  1569. Le ceduazioni regolari favoriscono il carpino nero (Ubaldi 1981) e l’orniello che, grazie alla elevata capacità pollonifera, si rinnovano rapidamente per via agamica a discapito delle altre specie consociate (es. aceri) che non sembrano in grado di strutturare il popolamento principale se non vengono rilasciate come matricine. Le possibilità evolutive dei popolamenti pionieri sono alquanto remote nel breve e medio periodo.
  1570. Su suoli più evoluti altre specie sono più competitive, e, il cerro o la roverella tendono ad affermarsi e a divenire dominanti. Se le disponibilità di umidità sono minori il carpino nero è meno competitivo e cede il posto, o al più affianca, in modo minoritario, l’orniello e la roverella. Dove le condizioni di umidità del suolo aumentano viene favorito l’ontano napoletano e il cerro.
  1571. Gli ostrieti che svolgono una prevalente funzione protettiva, in aree particolarmente disagiate e impervie, e i popolamenti pionieri possono essere lasciati alla evoluzione naturale (IPLA 2001).
  1572. Tuttavia bisogna considerare che su suoli degradati in pendenza si possono verificare ribaltamenti di intere ceppaie che aprono vuoti nel soprassuolo creando problemi di dissesto idrogeologico ben più gravi di una ceduazione condotta con attenzione. Inoltre dopo i 20 anni si impoverisce la diversità floristica e faunistica (Mei et al. 2015).
  1573. La conversione dei cedui in fustaia è opinabile. Solo in casi particolari può essere una opzione perseguibile nel caso di soprassuoli ubicati in zone di interesse paesaggistico o per mantenere la costante copertura del suolo, assicurare una maggiore ricaduta della sostanza organica (e quindi di incremento della fertilità del suolo).
  1574. Il governo a ceduo è ancora giustificato per motivi economici. La forma di trattamento è il taglio raso con riserva di matrici e. Nella scelta del turno bisogna considerare che: se si adottano turni intorno ai 15 anni si favorisce il carpino nero, se invece si adottano turni più lunghi di 25-30 anni, le altre specie consociate. Dopo 40 anni la capacità pollonifera del carpino ne o tende gradualmente a diminuire fino ad arrestarsi intorno ai 100 anni (Ciancio e Mercurio 1987, Del Favero et al. 1989).
  1575. Hermanin e Belosi (1993) ritengono che un turno di 30-35 anni non comporti conseguenze negative sulla capacità pollonifera e contribuisca al miglioramento della fertilità del suolo.
  1576. Mei et al. (2015) affermano che il turno dovrebbe assestarsi sui 15-25 anni (come storicamente caratterizzava gli ostrieti mesofili dell’Italia centrale), per i vantaggi di natura ecologica, idrogeologica ed economica che ne derivano.
  1577. Secondo l’art. 32 del Reg. 2/2020 il turno minimo per carpini e ornielli è di 18 anni.
  1578. Il numero delle matricine, di 1 e 2 turni, non dovrebbe superare gli 80-90 soggetti a ettaro (Ciancio e Mercurio 1987), da scegliere tra i soggetti meglio conformati, e vigorosi per resistere meglio alle avversità meteoriche. Nei terreni in forte pendenza le matricine possono essere distribuite a gruppi o a fasce per assicurare una maggiore protezione dal rotolamento di rocce e facilitare le operazioni di esbosco. Sul rilascio del carpino come matricina non tutti concordano, in quanto poco resistente all’isolamento, per questo e per accrescere la diversità specifica è meglio fare affidamento sulle altre specie presenti.
  1579. Per attenuare gli impatti sull’ambiente delle tagliate occorre contenere la superficie di taglio < 10 ettari e < 5 ettari su pendenze elevate (30%) e il rispetto di un adeguato periodo di tempo (3 anni) tra una tagliata e quella attigua. Necessario è il rilascio di fasce lungo le strade, i crinali, i corsi d'acqua e gli impluvi.
  1580. Nelle aree degradate nude si possono eseguire piantagioni con pini (nero e loricato). Anche se va considerato che il carpino ero ha una elevata capacità di ricolonizzazione (Ferrarini e Rolla 1977) come l’orniello.
  1581. Nei cedui degradati di carpino nero (grado di copertura < al 70%) si può aumentare la densità con nuove piantagioni di latifoglie della stessa serie dinamica.
  1582. Le ceppaie delle piante compromesse possono essere prima oggetto di tramarratura, in quanto le gemme proventizie dell’area del colletto ricacciano anche se interrate (Del Favero et al. 1989) e poi si può procedere all’allevamento dei migliori polloni. Il pascolo deve essere sempre escluso.
  1583. Ostrya carpinifolia, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Quercus pubescens s.l., Quercus ilex, Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Fraxinus ornus, Prunus avium, Corylus avellana, Pinus nigra s.l., Pinus leucodermis, Sorbus aucuparia, Sorbus domestica, Tilia platyphyllos subsp. pseudorubra.
  1584. In Sila i pioppeti di pioppo tremolo (Populus tremula L.) sono legati alle serie dinamiche della faggeta e sono espressione di incendi ripetuti o di vaste tagliate, e possono diffondersi nelle aree nude attraverso i polloni radicali (Avolio e Ciancio 1 86).
  1585. In Aspromonte il pioppo tremolo colonizza la lecceta mesofila e la faggeta termofila a seguito di disturbi.
  1586. Il pioppo tremolo costituisce formazioni quasi pure, monoplane, dense, di limitata estensione (1000-3000 m2) lungo gli impluvi e ai margini dei boschi di latifoglie mesofili o nelle tagliate di tali boschi. Si insediano su suoli con reazione da subacida a debolmente acida (scisti, graniti, serpentini), freschi e ben drenati, in aree a bioclima temperato con termotipo compreso ra il mesotemperato superiore e il supratemperato (da circa 600 ai 1400 m). Queste formazioni si riscontrano spesso nelle zone occupate dal faggio, dal cerro o dal castagno. Nel sottobosco è frequente la felce aquilina e il rovo ghiandoloso.
  1587. Dal punto di vista fitosociologico le formazioni di pioppo tremolo sono riferite a varie associazioni inquadrate nell’alleanza Aceri obtusati-Populenion tremulae, suballeanza che riunisce le formazioni preforestali e forestali dell’Appennino centro-meridionale a dominanza di Populus tremula (Taffetani 2000, Russo et al. 2020).
  1588. Strato arboreo: Populus tremula, Quercus cerris, Quercus pubescens s.l., Castanea sativa, Acer obtusatum, A. campestre.
  1589. Strato arbustivo: Crataegus monogyna, Clematis vitalba, Dapne laureola, Rubus hirtus, Hedera helix.
  1590. Strato erbaceo: Brachypodium sylvaticum, Pteridiunm aquilinum, Fragaria vesca.
  1591. Piccoli tagli a raso.
  1592. Nessuna.
  1593. Il pioppo tremolo riveste una importanza primaria nei processi di ricolonizzazione. È una specie che si diffonde facilmente pe seme e si può espandere per polloni radicali in seguito a disturbi nel soprassuolo (incendi, frane, tagli) o su radure compresi ex coltivi. Si tratta di una specie colonizzatrice, preparatoria (miglioratrice delle caratteristiche del suolo) destinata ad essere sostituita da formazioni più stabili e mature come faggio, cerro, leccio (Gambi 1954, Avolio e Ciancio 1986, Pedrotti 1995a,b, Del Favero 2008). Tuttavia, a causa della capacità di rinnovazione per polloni radicali, è da considerarsi una specie “abbastanza stabile” in presenza di suoli umidi e sciolti.
  1594. Però, tali formazioni non sono mai durevoli data la ridotta longevità della specie (100-150 anni) (Avolio 2003, Sierra de Grado 2003).
  1595. Come evidenziato da Russo et al. (2020) questi popolamenti pionieri svolgono un ruolo importante nelle dinamiche successionali verso foreste di latifoglie, quindi la gestione forestale a scopi convervazionistici dovrebbe agevolare l’evoluzione naturale.⤀
  1596. Il pioppeto ha un interesse economico, come in Aspromonte e in Sila. La normativa regionale per quanto riguarda i pioppeti naturali ad alto fusto non è chiara. In teoria sono possibili piccoli tagli a raso (< 3000 m2), quando le piante hanno raggiunto 60-70 anni.
  1597. Il pioppo tremolo è importante per il recupero di aree degradate, franose, mediante piccole piantagioni con materiale vivaistico di provenienza locale.
  1598. Pinus nigra subsp. calabrica, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Quercus cerris, Quercus pubescens s.l., Quercus ilex, Fagus sylvatica, Acer neapolitanum, Acer campestre, Populus tremula, Castanea sativa.
  1599. Le formazioni di nocciolo (Corylus avellana L.) sono presenti nel Pollino (Valle del Lao-Argentino) da 250 a 500 m su calcari e dolomie nelle forre o nei versanti esposti a settentrione (verso il mare) che beneficiano di condizioni meso-climatiche particolarmente fresche e umide (Mercurio et al. 2007). Il nocciolo si ritrova spesso anche nei boschi di forra dell’Aspromonte (Brullo et al. 2001).
  1600. I popolamenti a prevalenza di nocciolo rappresentano formazioni azonali caratterizzate dalla presenza di altre specie mesofile come carpino nero, acero napoletano, mentre il leccio e l’orniello hanno un ruolo nettamente subordinato.
  1601. I boschi di forra a nocciolo sono riferiti al Corylo-Aceretum neapolitani Brullo, Scelsi e Spampinato 2001. A questa associazione sono anche riferibili i boschi di nocciolo presenti nella Valle dell’Argentino che in precedenza Maiorca e Spampinato (1999) avevano riferito al Festuco-Aceretum neapolitani subass. coryletosum avellanae.
  1602. Strato arboreo-arbustivo: Corylus avellana, Sambucus nigra, Acer pseudoplatanus, Ostrya carpinifolia.
  1603. Strato erbaceo: Dryopteris affinis, Athyrium filix-femina, Asplenium scolopendrium.
  1604. Una volta erano governati a ceduo, ora non sono più ordinariamente gestiti.
  1605. Nessuna.
  1606. Il nocciolo è specie eminentemente colonizzatrice in ambienti freschi e umidi. Nel noccioleto si insediano sottocopertura: ace i, sorbi, frassini, querce caducifoglie, faggio, abete bianco.
  1607. Del Favero (2004) distingue: cenosi effimere, cenosi labili, cenosi durevoli.
  1608. Tuttavia in Calabria le formazioni a nocciolo rappresentano un particolare edafoclimax legato ad ambienti di forra. Con le ceduazioni si mantiene un bosco a struttura monoplana, dominato dal nocciolo. Diversamente con l’interruzione delle ceduazioni queste formazioni tendono ad una struttura biplana con carpino nero e acero napoletano nel piano superiore e nocciolo in quello inferiore.
  1609. Quando i boschetti di nocciolo occupano piccole superfici possono essere lasciati alla evoluzione naturale verso l’affermazione di cenosi più stabili e mature, soprattutto nelle aree protette.
  1610. Laddove vi è un interesse economico, è possibile il trattamento a ceduo semplice (per piccola paleria, oggetti artigianali): a tal riguardo l’art. 32 del Reg. 2/2020 prevede turni di 12 anni.
  1611. Il nocciolo si impiega in piccoli gruppi per il consolidamento delle pendici franose o zone degradate aperte per il riavvio delle dinamiche naturali.
  1612. Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Acer campestre, Corylus avellana, Carpinus betulus, Ostrya carpinifolia, Sambucus nigra, Castanea sativa, Sorbus sp. pl., Quercus cerris, Quercus pubescens s.l.
  1613. Il frassino ossifillo o frassino meridionale (Fraxinus angustifolia Willd. subsp. oxycarpa (M. Bieb. ex Willd.) Franco & Rocha Afonso) si trova in Calabria dal livello del mare fino a 1000 m.
  1614. Boschetti poco frequenti sono presenti su aree subplaniziarie, soprattutto lungo i corsi d’acqua e più raramente su versanti (Valle dell’Argentino) (Mercurio et al. 2007).
  1615. Si adatta a tutti i terreni compresi quelli calcarei e argillosi. La specie è tendenzialmente igrofila (sopporta anche lunghi periodi di sommersione).
  1616. Boschi termofili a dominanza di frassino ossifillo che normalmente è associato con olmo campestre, aceri, querce decidue e ontano napoletano. Occupano piccole superfici soprattutto in impluvi o sui terrazzi alluvionali, lungo i corsi d’ acqua (Mercurio et al. 2007).
  1617. Queste formazioni, che sono riferite all'associazione Rubio peregrinae-Fraxinetum oxycarpae, dell’alleanza Populion albae, non vanno confuse con quelle igrofile localizzate in aree planiziali che sono riferite al Carici remotae-Fraxinetum oxycarpae Pedrotti 1970 corr. 1992, trattate nella Categoria ”Formazioni boschive igrofile”.
  1618. Strato arboreo: Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Ulmus minor, Alnus glutinosa.
  1619. Strato arbustivo: Rubus ulmifolius, Cornus sanguinea, Vitis vinifera subsp. sylvestris, Rubia peregrina, Sambucus nigra.
  1620. Boschi non ordinariamente gestiti, talvolta ceduati.
  1621. Variante con acero napoletano
  1622. Variante con tiglio e nocciolo
  1623. Formazione essenzialmente stabile in conseguenza del particolare condizionamento edafico.
  1624. Nelle aree protette i boschetti di frassino ossifillo vanno lasciati alla evoluzione naturale.
  1625. Vanno altresì rilasciati soggetti di grandi dimensioni (> 70 cm di diametro) per il loro valore ecologico.
  1626. Diversamente può essere favorito l’avviamento a fustaia.
  1627. In una ottica di miglioramento qualitativo della produzione legnosa (Berti e Erdfeld 1997, Berti e De Capua 2000, De Capua et al. 2002), il governo va orientato verso la fustaia, tenendo presente una maturità tecnica di 60-90 anni (Bernetti e Padula 193). In Calabria la normativa dei boschi di alto fusto di oltre 60 anni prevede il taglio colturale con una provvigione minimale di 250 m3 ad ettaro.
  1628. È da evitare il governo a ceduo dal momento che il potere calorifero non è eccellente come le querce, mentre lo sono le caratteristiche tecnologiche del legno. La facoltà pollonifera si esaurisce entro i 70- 80 anni (Magini 1956).
  1629. Nelle zone degradate, purché sussistano le condizioni pedologiche adatte al frassino ossifillo, si possono realizzare piccoli impianti puri con densità iniziale di 1100-1600 piante ad ettaro, oppure misti a specie della stessa serie dinamica.
  1630. Il frassino ossifillo può essere usato per la rinaturalizzazione delle pinete litoranee (De Capua et al. 2002, 2005).
  1631. Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Ulmus minor, Corylus avellana, Ostrya carpinifolia, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Sambucus nigra.
  1632. In questa categoria vengono compresi i rimboschimenti e le piantagioni di conifere esotiche e di conifere autoctone al di fuori del loro habitat naturale, in situazioni in cui altre specie dominerebbero naturalmente. Si tratta di rimboschimenti, in larga parte monospecifici, eseguiti fra gli anni ’50 e gli anni ’80 dello scorso secolo, dapprima con finalità protettive e poi con unzioni prevalentemente produttive (Maiolo 1998, Mercurio 1999, 2011, Iovino e Menguzzato 2002, Iovino et al. 2019). Le specie principali impiegate sono state: pino laricio (Pinus nigra subsp. calabrica) e abete bianco (Abies alba), seguiti da pino ma ittimo (Pinus pinaster), pino domestico (Pinus pinea), pino d’Aleppo (Pinus halepensis), cipressi (Cupressus sempervirens, C. macrocarpa, C. arizonica), pino loricato (Pinus heldreichii subsp. leucodermis), douglasia (Pseudotsuga menziesii), pino radiato (Pinus radiata), pino strobo (Pinus strobus), in minor misura, abete greco (Abies cephalonica), larice giapponese (La ix kaempferi), larice comune (Larix decidua), cedro dell’Atlante (Cedrus atlantica), cedro dell’Himalaya (Cedrus deodara).
  1633. I rimboschimenti sono stati eseguiti in vari contesti territoriali, su vaste superfici, soprattutto tra 600-700 e 1100 (1500) m, e lungo le coste sabbiose.
  1634. Le densità d’impianto variavano da 3250 piante a ettaro su terreno lavorato a gradoni e a buche, a 2000/2500 su terreno lavora o solo a gradoni. Questa azione di rimboschimento ha avuto nel complesso una notevole rilevanza per la vastità delle opere realizzate con conseguenze positive sul piano della conservazione del suolo, della produzione legnosa e per i riflessi economici e sociali (Iovino 2021).
  1635. Sul piano selvicolturale questi rimboschimenti non sono stati gestiti adeguatamente: solo ripuliture e spalcature, mentre di norma non sono stati eseguiti i diradamenti con regolarità. Nella maggior parte dei casi hanno raggiunto età avanzate con alte densità e con bassa efficienza e stabilità bioecologica.
  1636. Categoria: Rimboschimenti di conifere
  1637. ● Rimboschimenti di pino marittimo
  1638. ● Rimboschimenti di pino domestico
  1639. ● Rimboschimenti di cipresso
  1640. ● Rimboschimenti di pino d’Aleppo
  1641. ● Rimboschimenti di pino laricio
  1642. ● Rimboschimenti di pino loricato
  1643. ● Rimboschimenti di abete bianco
  1644. ● Rimboschimenti di douglasia
  1645. ● Rimboschimenti di pino radiato e altri pini alloctoni
  1646. ● Rimboschimenti delle dune
  1647. Il pino marittimo (Pinus pinaster Aiton) è stato impiantato in prevalenza da 600 a 1100 m su substrati silicei (graniti, gneiss, paragneiss, scisti quarzoso biotitici granatiferi, conglomerati, alluvioni sabbiose) dell’Aspromonte, Serre, Catena Costiera e, talora, anche nelle pinete litoranee (Mercurio 2002, Mercurio e Spampinato 2006, Mercurio et al. 2009b, Iovino et al. 2019).
  1648. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1649. Pino marittimo.
  1650. Rimboschimenti non ordinariamente gestiti, talvolta interventi di diradamento.
  1651. Nella maggior parte dei casi il pino marittimo non mostra processi di rinnovazione e si nota una avanzata fase di evoluzione verso la lecceta (Mercurio e Spampinato 2006). In molti casi per l’eccessiva densità dei popolamenti si hanno scarse possibilità evolutive ma che si potranno accrescere, verso formazioni di querce se si verificherà la riduzione della copertura (Mercurio 2002).
  1652. Questi rimboschimenti potranno essere conservati sono in casi particolari: dove assolvono funzioni ricreative o protettive. Nel qual caso dovrà essere progressivamente regolata la densità con l’avanzare dell’età in modo da accrescere la stabilità meccanica e la qualità delle piante.
  1653. Anche se i risultati sono interessanti dal punto di vista produttivo, la qualità dei fusti lascia quasi sempre a desiderare, e la stabilità meccanica dei popolamenti è sempre precaria.
  1654. Sono pertanto indispensabili i diradamenti da eseguirsi con gradualità, con criteri selettivi, semmai privilegiando le piante migliori (d’avvenire) limitando il prelievo a non oltre il 20% di area basimetrica da 30 a 60 anni, salvo casi particolari.
  1655. Nei rimboschimenti di pino marittimo di oltre 60 anni si possono applicare i tagli colturali con una provvigione minimale di 10 m3 ad ettaro.
  1656. L’obiettivo è quello di assecondare le dinamiche naturali e di procedere alla sostituzione del pino con le specie della serie dinamica pertinente.
  1657. Gli interventi mireranno alla rinaturalizzazione di questi popolamenti, favorendo la definitiva affermazione delle latifoglie autoctone (leccio o altre querce) e la sostituzione del pino marittimo (Mercurio 2005a,b,c). Per raggiungere tale obiettivo, si possono distinguere due casi principali:
  1658. a) nei popolamenti dove è iniziato l’insediamento sottocopertura delle latifoglie autoctone, si può aprire gradualmente il soprassuolo per favorirne lo sviluppo, e, nei tratti più densi, creando piccole aperture per innescare i processi di reinsediamento delle latifoglie. In seguito si procederà al progressivo smantellamento del pino man mano che si affermeranno le latifoglie.
  1659. b) nel caso di soprassuoli con alta densità di latifoglie già affermate sottocopertura (altezza media 3-4 m) occorre procedere subito allo smantellamento del pino per favorire lo sviluppo delle latifoglie (se le latifoglie si stroncano, al momento del taglio del pino, vanno prontamente ceduate per favorirne la ripresa agamica).
  1660. Quercus ilex, Quercus suber, Quercus pubescens s.l., Quercus cerris, Quercus frainetto.
  1661. Il pino domestico (Pinus pinea L.) è stato impiegato in zone collinari montane fino a 800 m sia su substrati silicei (graniti, arenarie) sia calcarei (Aspromonte, Catena Costiera, Pollino), ma soprattutto lungo i litorali tirrenici e ionici (Mercurio 2002, Mercurio et al. 2009b, Bravo et al. 2011, Iovino et al. 2019).
  1662. /
  1663. Rimboschimento di pino domestico (Aspromonte)
  1664. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1665. Pino domestico.
  1666. Rimboschimenti non ordinariamente gestiti, talvolta interventi di diradamento.
  1667. Le fasi evolutive sono orientate a seconda della quota: verso la lecceta o querceti caducifogli. Nei rimboschimenti interessati dalla turnazione del fuoco per il pascolo si sono affermate le praterie steppe ad ampelodesma come nei versanti ionici dell’Aspromonte.
  1668. Questi rimboschimenti potranno essere conservati sono in casi particolari: laddove assolvono funzioni ricreative o protettive. Nel qual caso dovrà essere progressivamente regolata la densità con l’avanzare dell’età in modo da accrescere la stabilità meccanica e la qualità delle piante.
  1669. Il pino domestico ha una rilevante importanza per il pinolo, anche se oggi è interessato da molte criticità di ordine fitopatologico (Mercurio 2020).
  1670. Per ottimizzare la produzione dei pinoli e in subordine quella legnosa, l’obiettivo dovrebbe essere quello di creare soprassuoli coetanei nelle zone a pendenza non accentuata su cui eseguire i diradamenti e potature con gradualità e periodicità, in modo da favorire le piante più produttive.
  1671. Nei rimboschimenti di pino domestico di oltre 60 anni si possono applicare i tagli colturali con una provvigione minimale di 10 m3 ad ettaro se l’obiettivo fosse quello di favorire una struttura complessa a rinnovazione naturale (se vi è seme a sufficienza).
  1672. Gli interventi mireranno alla rinaturalizzazione di questi popolamenti, favorendo la definitiva affermazione delle latifoglie autoctone e la sostituzione del pino domestico. Per raggiungere tale obiettivo, si possono distinguere due casi principali:
  1673. a) nei popolamenti dove è iniziato l’insediamento sottocopertura delle latifoglie autoctone, si può, partendo dai primi nuclei, aprire gradualmente il soprassuolo per favorirne lo sviluppo, e, nei tratti più densi, creare piccole aperture per innescare i processi di reinsediamento delle latifoglie. In seguito si procederà al progressivo smantellamento del pino man mano che si affermeranno le latifoglie.
  1674. b) nel caso di soprassuoli con un’alta densità di latifoglie già affermate sottocopertura, occorre procedere subito allo smantellamento del pino per favorire lo sviluppo delle latifoglie (nel caso in cui venissero stroncate dalla caduta delle piante di pino occorrerà procedere alla ceduazione per favorirne la ripresa agamica).
  1675. Altri casi particolari di restauro forestale riguardano ad esempio le pinete bruciate. Si potrà valutare se reimpiantare il pi o domestico o eseguire impianti “ad isole” di latifoglie autoctone che con il tempo provvederanno con l’ausilio dell’avifauna alla ricolonizzazione dell’intera area bruciata (Mercurio 2020).
  1676. Quercus ilex, Quercus suber, Quercus pubescens s.l., Quercus cerris, Quercus frainetto, Fraxinus ornus.
  1677. Il cipresso comune (Cupressus sempervirens L.) è stato impiegato in Calabria nei rimboschimenti allo stato puro o misto ad al re specie (pini, cedri, latifoglie) nelle zone collinari fino a 700 m e per la realizzazione di frangiventi lungo le coste (Mercurio et al. 2007, 2009b, Iovino et al. 2019). Sia su substrati silicei sia su calcari e dolomie.
  1678. Oltre al cipresso comune sono stati usati sporadicamente anche il cipresso dell’Arizona (C. arizonica Greene, C. glabra Sudw.) e il cipresso macrocarpa (C. macrocarpa Hartw.) (Mercurio et al. 2009b, Bagnato et al. 2012b).
  1679. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico
  1680. Cipresso comune.
  1681. Nessuna, ad eccezione di spalcature e ripuliture.
  1682. L’evoluzione più probabile nella maggior parte dei casi è verso la lecceta e in minor misura verso gli ostrieti o altri boschi caducifogli. Tuttavia Giordano (1979), Gambi (1983), Arretini e Cappelli (1998) precisano che il cipresso non apporta alcun contributo alla formazione di humus, non migliora le caratteristiche del suolo, che molto raramente innesca processi evolutivi verso la formazione di soprassuoli complessi. Diversamente De Rosa (1998) segnala un caso di una cipresseta su dolomie, dove vi sono formazioni pure di cipresso con abbondante rinnovazione e formazioni miste con roverella, carpino orientale, carpino nero, orniello, leccio e cerro.
  1683. La lettiera di cipresso ha un potere allelopatico che inibisce lo sviluppo di varie specie (Mercurio 2021b).
  1684. Limitatamente alle aree dove il cipresso può avere un valore estetico. Qui possono essere eseguiti interventi per eliminare piante morte o deperienti ed eventualmente sostituirle con altre abbastanza sviluppate.
  1685. Gli interventi sono puntuali, limitati a operazioni colturali quali eliminazione di piante attaccate da agenti patogeni, morte o soprannumerarie.
  1686. Lo scopo è di agevolare i processi di rinaturalizzazione attraverso un parziale diradamento della cipresseta (rilasciando le piante migliori) per favorire la rinnovazione presente. Oppure mediante l’impianto di latifoglie autoctone nei tratti dove il suolo è più evoluto, prevedendo nel tempo, la graduale eliminazione del cipresso (Mercurio 2021b).
  1687. Quercus ilex, Quercus pubescens s.l., Quercus cerris, Ostrya carpinifolia, Fraxinus ornus.
  1688. Il pino d’Aleppo (Pinus halepensis Mill.) è stato impiegato nei rimboschimenti sia da solo sia insieme al pino domestico e al pino marittimo, nel Pollino, nella Catena Costiera, lungo i litorali (Avolio 2003a, Mercurio et al. 2007, 2009b). Inoltre il pino d’Aleppo è stato utilizzato in impianti di arboricoltura da legno (Gentile et al. 2007).
  1689. La distribuzione altimetrica in Calabria del pino d’Aleppo va dal livello del mare fino a 700 m, interessando sia substrati silicei che calcari, dolomie e argille.
  1690. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1691. Pino d’Aleppo.
  1692. Rimboschimenti non ordinariamente gestiti, sporadici diradamenti.
  1693. Evidenti processi di evoluzione verso varie formazioni forestali in dipendenza della quota e dei versanti: macchia mediterranea, lecceta o ostrieto.
  1694. Il mantenimento del pino d’Aleppo è giustificato in aree inospitali per altre specie. Qui gli interventi sono di tipo colturale volti a regolare la densità e assicurare una buona stabilità meccanica delle piante, favorendo la rinnovazione naturale del pino in mescolanza ad altre latifoglie.
  1695. I diradamenti con criteri selettivi migliorano lo stato idrico, riducono la quantità di materiale combustibile e quindi l’azio e distruttiva degli incendi. I diradamenti da 30 a 60 anni sono di intensità non superiore al 20% di area basimetrica.
  1696. Nei rimboschimenti di pino d’Aleppo di oltre 60 anni si possono applicare i tagli colturali con una provvigione minimale di 15 m3 ad ettaro se l’obiettivo fosse quello di favorire una struttura complessa a rinnovazione naturale.
  1697. Nel caso di pinete miste a latifoglie si unisce un taglio colturale nel pino in concomitanza con il taglio del ceduo.
  1698. Nei popolamenti artificiali inadatti alla stazione si può procedere alla rinaturalizzazione favorendo, attraverso la progressiva riduzione del pino, l’affermazione delle latifoglie autoctone (Mercurio 2010).
  1699. Per raggiungere tale obiettivo, si possono distinguere due casi principali:
  1700. a) nei popolamenti dove è iniziato l’insediamento sottocopertura delle latifoglie autoctone, si può partendo da questi nuclei, aprire il soprassuolo per favorirne lo sviluppo, e, nei tratti più densi, creare piccole buche per innescare i processi di rei sediamento delle latifoglie. In seguito si procederà al progressivo smantellamento del pino man mano che si affermeranno le latifoglie.
  1701. b) nel caso di soprassuoli con un’alta densità di latifoglie già affermate sottocopertura occorre procedere subito allo smantellamento del pino e alla contemporanea ceduazione delle latifoglie (in quanto verrebbero immancabilmente stroncate dalla caduta delle piante di pino).
  1702. Nel caso specifico della ricostituzione della pineta a seguito di un incendio, Saracino e Leone (2001) consigliano:
  1703. - sgombero dei soggetti bruciati non prima della fine del primo inverno successivo all’incendio (per non pregiudicare la strategia di resilienza della specie dovuta alla serotinia), purché la rinnovazione risulti abbondante e ben distribuita (>3 semenzali/m2), ritardare lo sgombero alla fine della seconda stagione vegetativa se la densità fosse < 1.5 semenzali/m2;
  1704. - rilascio delle piante parzialmente danneggiate in quanto fonte di disseminazione anche se
  1705. possono essere suscettibili di attacchi di scolitidi;
  1706. - impiego di mezzi meccanici su piste predefinite;
  1707. - sminuzzamento in situ della ramaglia piuttosto che bruciarla;
  1708. - rispetto della rinnovazione aggregata attorno alle ceppaie delle piante madri;
  1709. - eventuale (se la densità fosse <0.6 semenzali/m2) impianto artificiale di pino d’Aleppo con seme proveniente da coni seroti i (riconoscibili sulla chioma per il loro colore grigio).
  1710. Quercus ilex, Quercus suber, Quercus pubescens s.l., Ostrya carpinifolia, Fraxinus ornus.
  1711. Il pino laricio (Pinus nigra J.F. Arnold. subsp. calabrica (Loud.) A.E. Murray) è stato impiegato anche in impianti di arboricoltura da legno (Mercurio 1999, Arcidiaco et al. 2000), ed è la specie maggiormente impiegata nei rimboschimenti in tutti i rilievi calabresi (Sila Greca, versanti occidentali della Sila Grande, quelli orientali della Sila di Crotone e della Sila Piccola, vaste aree del bacino del Coscile e del Battendiero e in minor misura sulla Catena Costiera, sulle Serre e in Aspromonte (Mercurio 2002, Caminiti et al. 2003, Mercurio e Spampinato 2006, Mercurio et al. 2007, 2009b). Da 700 fino a 1500 m su substrati essenzialmente silicei (graniti, paragneiss, scisti quarzosi).
  1712. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1713. Pino laricio.
  1714. Interventi di diradamento.
  1715. Le fasi evolutive sono verso le formazioni di latifoglie (querceti e faggete) in relazione alla quota e all’esposizione.
  1716. Le fasi regressive, anche a seguito di incendi, riguardano gli arbusteti di ginestra dei carbonai.
  1717. Riguardano le aree dove il pino può avere un valore estetico o svolgere una funzione ricreativa e protettiva.
  1718. Qui possono essere eseguiti interventi mirati per eliminare piante morte o deperienti e valorizzare quelle migliori, ma anche mettendo in atto le misure selvicolturali tradizionali come il taglio a buche per favorire il pino laricio (Carullo 1931, Anzillotti 1950). Il pino laricio va inoltre conservato sui versanti della fascia montana della Sila e dell’Aspromonte dove è autoctono.
  1719. L'ampia sperimentazione condotta in Calabria (Avolio e Ciancio 1979, Avolio et al. 1989, Cinnirella et al. 1993, Avolio e Bernardini 1997, Compostella e Iovino 1999, Veltri et al. 2001, Calligari et al. 2001, Arena et al. 2008, Nicolaci et al. 2015) ha dimostrato gli effetti positivi dei diradamenti sul miglioramento della stabilità meccanica, sullo stimolo degli accrescimenti, sul miglioramento delle caratteristiche tecnologiche, sulla riduzione dei processi erosivi del suolo, sul miglioramento del contenuto idrico del suolo e sulla prevenzione degli incendi.
  1720. I diradamenti vanno eseguiti con criteri selettivi, dal basso e/o misto, asportando non oltre il 30% delle piante ad ogni inte vento da ripetere ogni 10 anni. Si possono eseguire diradamenti di più forte intensità (40-50% delle piante) laddove si vogliono accelerare i processi dinamici che portano al reinserimento delle latifoglie (Arena et al. 2008).
  1721. Nei rimboschimenti di pino laricio di oltre 60 anni si applicano i tagli colturali con una provvigione minimale di 250 m3 ad e taro se l’obiettivo fosse quello di favorire una struttura complessa a rinnovazione naturale.
  1722. /
  1723. Rimboschimento di pino laricio diradato (Aspromonte)
  1724. Nel caso di fallimento dei rimboschimenti o che si vogliono favorire le specie autoctone tardo-successionali attraverso differenti procedure di rinaturalizzazione (Mercurio 2005a, 2010, 2016, 2019).
  1725. I tagli di smantellamento consistono nella eliminazione del vecchio soprassuolo di pino quando si è diffusa una rinnovazione naturale di latifoglie. Tale intervento viene eseguito indipendentemente dal turno minimo. Sono tagli configurabili come tagli a strisce che possono essere applicati laddove vi è una diffusa rinnovazione di latifoglie all’interno del popolamento, la cui la ghezza e lunghezza dovrà essere valutata caso per caso anche in funzione della viabilità e comunque seguendo il principio della gradualità, distanziando opportunamente i tagli nel tempo e nello spazio.
  1726. I tagli a buche in cui si prevede la rinnovazione naturale. La sperimentazione condotta in Calabria (Gugliotta et al. 2006, Muscolo et al. 2007a, Bagnato et al. 2012a) ha dimostrato che nelle buche “piccole” di 380 m2, si insedia e afferma la rinnovazione delle specie autoctone (abete bianco e faggio) e il pino ha un ruolo decisamente subordinato. Condizione necessaria è il co trollo della vegetazione erbacea e arbustiva a rovi e felci.
  1727. Non mancano esempi come nei rimboschimenti di pino laricio delle Serre, dove sono state aperte buche e di seguito è stato impiantato il cerro e la rovere. Nelle Serre viene fatto il taglio a buche seguito da semina di conifere autoctone (Metodo Poletto). Esso prevede diradamenti selettivi ogni 10 anni in cui si asporta il 20% delle piante. Dopo l’ultimo diradamento, quando le piante hanno circa 60 anni, la copertura delle chiome non è più continua e si procede all’apertura di strisce nel terreno larghe circa 80 cm, distanziate ogni 3.5 m. Nel mese di settembre si esegue la raccolta di coni di abete bianco che vengono subito disarticolati e distribuiti nelle strisce. Quando la rinnovazione di abete si è affermata dopo pochi anni, viene eliminato il vecchio soprassuolo in due volte. Le cure seguenti consistono nella ripulitura tra le strisce (rovo, felci) e nel successivo sfollamento della rinnovazione (Bagnato et al. 2012b).
  1728. Va valutato anche il caso nelle aree ad alto potenziale per il pino, come i terreni acclivi del versante ionico dell’Aspromonte su suoli poco evoluti, di favorire il ritorno della pineta pura di pino laricio.
  1729. Pinus nigra subsp. calabrica, Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Quercus pubescens s.l., Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Castanea sativa, Alnus cordata.
  1730. I rimboschimenti di pino loricato (Pinus heldreichii Christ. subsp. leucodermis (Antoine) E. Murray) sono circoscritti all’a ea della Catena Costiera e del Pollino (Avolio 1984, 1996, 2010) su dolomie, calcari dolomitici e sul flysch marnoso-arenaceo.⤀
  1731. /
  1732. Rimboschimento di pino loricato (Pollino)
  1733. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1734. Pinus heldreichii subsp. leucodermis.
  1735. Interventi sporadici di diradamento.
  1736. Si possono riconoscere tre diversi comportamenti dei popolamenti dove partecipa il pino loricato: a) formazioni sostanzialmente stabili localizzate in aree scoscese con roccia affiorante, in questi ambienti dove il pino loricato diventa la specie domina te grazie a particolari adattamenti eco-fisiologici; b) formazioni in espansione nei suoli erosi, dove il pino loricato mostra la sua capacità colonizzatrice; c) formazioni in regresso in quelli evoluti dove il pino viene sostituito progressivamente da specie più esigenti come carpino nero, orniello, faggio (Mercurio et al. 2007).
  1737. Nei rimboschimenti in buone condizioni vegetative occorre eseguire diradamenti con criteri selettivi per stabilizzare il popolamento in attesa di verificare le opzioni che si presentano a seguito del monitoraggio delle dinamiche evolutive.
  1738. l diradamenti eseguiti con criteri selettivi, graduali e costanti, sono indispensabili per aumentare la resilienza di popolame ti posti spesso a quote elevate, soggetti a condizioni meteorologiche estreme.
  1739. Nei rimboschimenti di pino loricato di oltre 60 anni si applicano i tagli colturali con una provvigione minimale di 250 m3 ad ettaro se l’obiettivo è quello di favorire una struttura complessa a rinnovazione naturale.
  1740. Avolio (2010) ha messo in evidenza, nei rimboschimenti del Pollino, che il pino loricato ha dimostrato una ottima capacità pe il restauro forestale di ambienti difficili dal punto climatico ed edafico (aridità, ventosità, basse temperature, suoli pove i e superficiali) superiore al pino laricio, di costituire soprassuoli di alto valore naturalistico e paesaggistico, di essere resistente agli attacchi di funghi e insetti.
  1741. Il pino loricato rimane la specie di riferimento nelle aree degradate delle faggete del Pollino-Catena Costiera per favorire il ritorno delle specie degli stadi più evoluti.
  1742. Nei rimboschimenti di pino loricato che hanno assolto la funzione preparatoria si può prevedere la rinaturalizzazione previa rimozione graduale del pino loricato facendo affermare le latifoglie degli stadi pionieri (sorbi, aceri, carpino nero, ecc.) o di quelli più maturi.
  1743. Pinus heldreichii subsp. leucodermis, Sorbus aucuparia subsp. praemorsa, Sorbus aria, Acer pseudoplatanus, Ostrya carpinifolia, Fraxinus ornus, Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Pyrus pyraster.
  1744. Al di là dei popolamenti naturali, l’abete bianco (Abies alba Mill.) è stato impiegato nei rimboschimenti sul versante calabro del Pollino, sulla Catena Costiera, sulle Serre e sull’Aspromonte (Ciancio et al. 1985, Mercurio et al. 2009a). Si tratta di abetine normalmente pure che possono essere definite “secondarie” (Del Favero 2008) in quanto rientrano nell’area di “idoneità ecologica della specie”. I limiti altitudinali entro cui sono compresi questi rimboschimenti variano da 800 a 1200 m, su graniti, gneiss, scisti biotitici ma anche su substrati calcarei.
  1745. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1746. Abies alba subsp. apennina.
  1747. Interventi di diradamento.
  1748. Evoluzione verso le formazioni miste di latifoglie (faggio, castagno) e abete. Le fasi regressive sono quelle verso gli arbus eti temperati (ginestra dei carbonai).
  1749. Nelle aree protette i rimboschimenti meritano di essere trattati in modo da stabilizzare e conservare l’abete bianco sia in pu ezza che con le specie della sua stessa serie dinamica.
  1750. Nei popolamenti ancora giovani, i diradamenti moderati, dal basso, eseguiti con criteri selettivi consentono di favorire i soggetti migliori, aumentano l’efficienza funzionale e la stabilità meccanica del popolamento. Da 30 fino a 60 anni si possono eseguire diradamenti, con cadenza decennale asportando non oltre il 20% di area basimetrica. Nei rimboschimenti di oltre 60 anni si devono applicare, secondo la normativa regionale, i tagli colturali con una provvigione minimale di 350 m3 ad ettaro avendo come obiettivo quello di favorire una struttura complessa che si perpetua per rinnovazione naturale.
  1751. La sperimentazione eseguita in Calabria ha messo in evidenza per i rimboschimenti che hanno raggiunto i 70-80 anni, che si può applicare un sistema di tagli a buche nelle aree ottimali per l’abete (Albanesi et al. 2008, Muscolo et al. 2007b, 2010, 2017) aprendo ad ogni intervento 6 buche di 200-400 m2 pari ad una ripresa planimetrica del 25%, cadenzando gli interventi ogni 8-10 anni.
  1752. Nelle Serre si applica anche il taglio a buche seguito da semina di abete bianco (Metodo Poletto). Dopo l’apertura delle buche si procede alla lavorazione superficiale del terreno a strisce (larghe circa 80 cm e distanziate di 3.5 m) a cui segue la semina di abete bianco. Le cure seguenti consistono nella ripulitura tra le strisce (rovo, felci) e nel successivo sfollamento della rinnovazione (Bagnato et al. 2012b).
  1753. Il sistema di tagli a buche può essere adoperato per la rinaturalizzazione di rimboschimenti eseguiti in aree non ottimali, di bassa quota, per l’abete bianco. In questi casi con l’apertura di una buca si insediano specie arbustive, quali ginestra dei carbonai (Cytisus scoparius) e specie del genere Rubus, e successivamente tendono ad affermarsi le latifoglie provenienti dalle aree forestali circostanti (cerro, roverella, carpini, aceri) che consentiranno l’avvio di processi di rinaturalizzazione a seguito dei quali l’abete rimarrà marginale.
  1754. Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Casta ea sativa, Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, Pinus nigra subsp. calabrica.
  1755. L’introduzione della douglasia (Pseudotsuga menziesii (Mirb.) Franco) è avvenuta in Calabria con la costituzione di due parcelle sperimentali nel 1933: Mercurella (Catena Costiera) e Gambarie (Aspromonte). La provenienza di Mercurella ha mostrato caratteri di superiorità per quanto riguarda la qualità dell’architettura della chioma e l’accrescimento (Avolio e Bernardini 2000, Ducci e De Rogatis 2010) rispetto ad altre provenienze testate.
  1756. Successivamente la sperimentazione è stata ampliata negli impianti pilota della Foresta Demaniale Pelegrina-Cinquemiglia sulla Catena Costiera. Nel decennio ’60-‘70 la douglasia è stata impiegata nei rimboschimenti nella Presila, Sila Grande, nella Valle del Savuto e sulle Serre (Ciancio et al. 1984, Mercurio 1999, Arcidiaco et al. 2000, Mercurio e Spampinato 2006, Bernardini e Clerici 2009) da (700) 900 a 1000 m su graniti, paragneiss, scisti quarzoso biotitici granatiferi. Nella Sila si riviene fino a 1400 m (Iovino et al. 2017).
  1757. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1758. Pseudotsuga menziesii.
  1759. Interventi di diradamento.
  1760. Nei rimboschimenti di douglasia si ha la riaffermazione, a seconda della quota e della esposizione, del faggio e dell’abete bianco o del leccio.
  1761. In Sila la douglasia si sta espandendo nelle faggete termofile e nelle cerrete mesofile.
  1762. Da escludere la douglasia nelle aree protette dal momento che tende ad invadere la faggeta.
  1763. Nei settori dove la douglasia ha trovato una buona adattabilità alla stazione e ha dato buoni risultati produttivi, è plausibile la prosecuzione della coltivazione della douglasia con i criteri dell’arboricoltura da legno (Ciancio et al. 1984, Mercurio e Minotta 2000).
  1764. I diradamenti costituiscono una pratica essenziale poiché la specie è in grado di reagire positivamente anche ad interventi di forte intensità: occorre tuttavia seguire il principio della continuità degli interventi in modo da avere anelli regolari con accrescimenti di 5-10 mm. Cantore e Iovino (1989) e Cinnirella et al. (1993) hanno messo in evidenza in esperienze condotte in Calabria che il diradamento con criterio selettivo migliora le condizioni di umidità del suolo rispetto alle aree non diradate e ciò in maniera più marcata quanto maggiore è l'intensità dell'intervento.
  1765. I diradamenti, frequenti e moderati, selettivi dal basso, sono quelli che hanno dato i migliori risultati nella Catena Costiera (Menguzzato 1989). I soggetti migliori che vengono rilasciati si possono valorizzare anche attraverso adeguate potature (Mercurio e Minotta 2000).
  1766. Nel caso specifico di rimboschimenti a filari di douglasia e ontano napoletano, la maggiore rapidità di accrescimento dell’ontano penalizza la douglasia per cui occorre prima di tutto eliminare la conifera. Diversamente nei rimboschimenti misti di douglasia e pino laricio occorre dapprima eliminare con i diradamenti il pino laricio a causa degli attacchi di processionaria.
  1767. Nelle aree protette e nelle zone marginali per la douglasia l'obiettivo della gestione dei rimboschimenti è la rinaturalizzazione dei popolamenti puri assecondando le dinamiche evolutive naturali per la progressiva sostituzione della douglasia. Per raggiungere tale obiettivo, saranno necessari diradamenti progressivi per favorire l'inserimento e lo sviluppo della rinnovazione delle latifoglie autoctone e poi eliminare gradualmente la douglasia.
  1768. Va eseguito un attento monitoraggio della rinnovazione della douglasia e nel caso se ne riscontri la necessità vanno intraprese azioni per contrastare la diffusione della specie, altrimenti potrebbe diffondersi in modo incontrollato come specie invasiva soprattutto nei boschi della fascia montana inferiore.
  1769. Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Casta ea sativa, Alnus cordata.
  1770. /
  1771. Rinnovazione di douglasia sulle Serre
  1772. Il pino radiato o pino di Monterey (Pinus radiata D.Don) è stato introdotto nella Catena Costiera, nel Monte Reventino, nelle Serre, nell’Aspromonte-Piani di Limina da 650 a 1000 m (Marziliano et al. 1997, Mercurio 1999, 2002, Mercurio e Spampinato 200, Ciancio et al. 2006) su graniti, paragneiss, scisti quarzoso biotitici granatiferi, conglomerati.
  1773. Il pino strobo (Pinus strobus L.) è stato introdotto su piccole superfici in Aspromonte ai Piani di Zervò e in Sila.
  1774. Fustaie coetanee pure. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1775. Pinus radiata, P. strobus.
  1776. Interventi periodici di diradamento.
  1777. Frequente è il reinsediamento di specie della lecceta dove il soprassuolo è aperto: diversamente per l’eccessiva densità dei popolamenti si hanno scarse possibilità evolutive.
  1778. Da escludere questi pini nelle aree protette anche se non risultano invasivi.
  1779. Laddove il pino radiato ha dato buoni risultati produttivi, si può procedere con i moduli propri dell’arboricoltura da legno (Mercurio e Minotta 2000) che si basano su cicli colturali brevi di 20-40 anni.
  1780. All’interno di rimboschimenti di pino radiato si verifica il re-insediamento delle latifoglie autoctone in relazione alla disponibilità di luce. Nonostante i buoni risultati produttivi, il mercato del legno di questa specie è circoscritto a quello delle biomasse per scopi energetici. Tutto questo consiglia di procedere nel breve periodo a diradamenti, anche di forte intensità, i vista, nel lungo periodo, della graduale sostituzione del pino una volta terminato il ciclo produttivo e affermate le latifoglie autoctone.
  1781. Quercus ilex, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Castanea sativa, Alnus cordata.
  1782. Occupano il settore più interno e stabile del sistema dunale, lungo le coste tirreniche e ioniche della Calabria (Berti 1995, Mercurio et al. 2009b, Iovino et al. 2019). Si tratta di pinete realizzate a seguito di rimboschimenti in varie epoche.
  1783. Le funzioni attuali delle pinete sono quelle proprie delle foreste periurbane data la vicinanza dei numerosi centri abitati e dei complessi turistici. E in partcolare riguardano la funzione:
  1784. - Protettiva, fissazione delle sabbie, difesa dall’erosione eolica del suolo, protezione delle colture agrarie e degli insediamenti turistici e residenziali, e delle infrastrutture viarie poste dietro la fascia boscata.
  1785. - Paesaggistica, la pineta contribuisce senz’altro a migliorare la qualità del paesaggio che viene sempre più apprezzato, anche in funzione dello sviluppo turistico.
  1786. - Turistico-ricreativa, le pinete svolgono, oltre a un importante supporto al turismo balneare, il ruolo di palestre verdi per l’esercizio di attività sportive, igienico-sanitarie.
  1787. - Produttiva, l’aspetto produttivo è attualmente nullo, ma in futuro potrebbe potenzialmente indirizzarsi sui prodotti non leg osi (funghi, tartufi, pinoli) piuttosto che su quelli legnosi derivanti dagli interventi colturali.
  1788. /
  1789. Rimboschimento di pino domestico nel litorale tirrenico
  1790. Sono popolamenti sostanzialmente monoplani, omogenei, a tratti aperti a causa di incendi o di crolli di piante. Le specie rico renti sono: Pinus pinea, P. pinaster, P. halepensis, Juniperus turbinata, J. macrocarpa, Pistacia lentiscus, Phillyrea latifolia, Arbutus unedo, Myrtus communis, Rhamnus alaternus, Nerium oleander, Tamarix africana, T. gallica.
  1791. Le pinete artificiali sulle dune tendono a essere sostituite da formazioni forestali delle alleanze Oleo sylvestris-Ceratonion siliquae e Juniperion turbinatae (ordine Pistacio-Rhamnetalia alaterni, classe Quercetea ilicis).
  1792. Pinus pinea, P. halepensis, P. pinaster, Eucalyptus camaldulensis, E. occidentalis, Acacia saligna.
  1793. Sostanziale abbandono.
  1794. Sono popolamenti soggetti a forti stress dovuti al substrato permeabile, al surriscaldamento delle sabbie, all’azione dei venti, all’abbassamento della falda freatica, ma anche a fenomeni di degradazione dovuti all’impatto antropico (turismo balneare, u banizzazione, inquinamento marino, incendi, rifiuti).
  1795. Frequente è il re-insediamento sottocopertura di specie della lecceta e della macchia dove il soprassuolo è aperto, diversamen e per l’eccessiva densità dei popolamenti si hanno scarse possibilità evolutive.
  1796. Innanzitutto occorre contrastare l’ulteriore degrado per l’impatto antropico sulla vegetazione delle dune. Le misure colturali riguardano: ripuliture, diradamenti, eliminazione delle esotiche invasive. Ma sono necessarie altre importanti misure:
  1797. - il divieto di accesso ai mezzi meccanici (camper, auto, moto) all’interno della pineta e sulle dune e parcheggio solo su aree circoscritte;
  1798. - una infrastrutturazione leggera di basso impatto sull’ambiente per migliorare e orientare i flussi turistici (piste pedonabili, ciclabili, aree di sosta) in modo da contenere la presenza su zone limitate;
  1799. - la sollecita rimozione delle immondizie e il divieto di scarico e abbandono di materiali;
  1800. - il monitoraggio e la difesa antincendio;
  1801. - il divieto di pascolo invernale;
  1802. - la difesa e il monitoraggio fitosanitari.
  1803. I diradamenti per i popolamenti di età inferiore a 60 anni rappresentano il primo passo per il miglioramento della pineta. L’eliminazione delle piante morte, deperienti, e comunque soprannumerarie consentono di rafforzare la stabilità meccanica del popolamento, di migliorare lo stato idrico del suolo, di favorire lo sviluppo armonico della chioma e la resistenza alle avversità di natura biotica. Va rispettato il principio della gradualità e della moderazione degli interventi in quanto un eccessivo e improvviso isolamento degli alberi potrebbe esporre i popolamenti agli schianti e agli sradicamenti dovuti al vento oltre che favorire un eccessivo sviluppo del sottobosco che richiederebbe alti costi per la ripulitura.
  1804. Le potature rappresentano gli interventi cardine della gestione delle pinete litoranee. Esse hanno una funzione di difesa della incolumità dei turisti dalla caduta di rami secchi, e nel caso del pino domestico anche di potature per esaltare la produzione dei semi. La necessità di effettuare interventi colturali (ripuliture, diradamenti, potature) risulta fondamentale nelle zone di interfaccia con gli insediamenti urbani e turistici per ridurre il rischio d’incendio.
  1805. Tra le azioni prioritarie è necessaria la rinaturalizzazione della fascia arbustiva per potenziare l’efficacia della barriera vegetale tra il mare e la pineta creando una struttura a più strati per contrastare l’azione del vento e della sabbia (introducendo e valorizzando le specie autoctone con differenti caratteristiche strutturali e funzionali e resistenti alla salsedine: oleandro, lentisco, fillirea, tamerice, palma nana, ecc.), prevedendo l’eliminazione delle rimanenti piante di acacia (sempre più invasive con l’aumentare della fruttificazione) e degli eucalipti che si sono rivelati inadatti in questa fascia. Nel contempo sarebbe opportuna l’eliminazione (almeno laddove possibile) del carpobroto o fico degli ottentotti (Carpobrotus sp.) largamente usato, peraltro con successo, per la stabilizzazione delle sabbie.
  1806. Lo scopo è di mantenere le pinete con interventi puntuali e mirati (diradamenti, ripuliture, piantagioni). Localmente, nelle zone inadatte ai pini, si possono introdurre le latifoglie autoctone (leccio, sughera, frassino ossifillo, ecc.) per l’arricchimento della biodiversità (non solo vegetale ma anche dell’avifauna), per favorire il miglioramento del suolo.
  1807. Quercus ilex, Quercus suber, Juniperus macrocarpa, Juniperus turbinata, Nerium oleander, Olea europaea subsp. oleaster, Pistacia lentiscus, Myrtus communis, Phillyrea latifolia, Tamarix africana.
  1808. In questa categoria vengono compresi vari tipi di impianti di latifoglie:
  1809. - impianti artificiali di latifoglie a rapido accrescimento eseguiti tra gli anni ’70 e ’90, per scopi protettivi-produttivi: ontano napoletano, castagno, pioppo tremolo, e, in modo sporadico, faggio, farnetto e ontano bianco.
  1810. - impianti artificiali di eucalipti eseguiti tra gli anni ’50 e ’70 per scopi protettivi e produttivi;
  1811. - piantagioni di pioppi ibridi;
  1812. - piantagioni di latifoglie a legname pregiato: ciliegio, noce comune, acero montano, frassino maggiore, sorbo domestico.
  1813. Categoria: Rimboschimenti di latifoglie
  1814. ● Rimboschimenti di castagno
  1815. ● Rimboschimenti di ontano napoletano
  1816. ● Rimboschimenti di pioppo tremolo
  1817. ● Piantagioni di pioppi ibridi
  1818. ● Piantagioni di latifoglie a legname pregiato
  1819. ● Rimboschimenti di eucalipti
  1820. /
  1821. Pioppo tremolo
  1822. Sono popolamenti di età < 50 anni, frequenti sui substrati silicei (scisti filladici, graniti) da 800 a 1100 m.
  1823. Il castagno (Castanea sativa Mill.) è stato largamente impiegato sia in impianti puri che nell'ambito di rimboschimenti di co ifere con distanze di 3 x 1.5 m o 3 x 3 m.
  1824. Popolamenti monoplani, coetanei, puri. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1825. Castanea sativa.
  1826. Cedui a regime.
  1827. Nessuna.
  1828. A secondo della ubicazione si hanno dinamiche diverse: così sul Monte Mancuso verso la cerreta (Mercurio et al. 2009a) e nelle Serre, alle quote più elevate, la tendenza è verso il bosco misto abete-faggio (Mercurio e Spampinato 2006).
  1829. Questi popolamenti possono essere mantenuti con le ceduazioni.
  1830. Spesso si tratta di eseguire la prima ceduazione in piante di età avanzata che non comporta alcun problema data la elevata capacità pollonifera del castagno.
  1831. Per ottimizzare gli aspetti produttivi si presta bene il trattamento a ceduo semplice, senza rilascio di matricine. Il turno dovrebbe elastico per far fronte alle richieste del mercato ma non superiore a 30-35 anni in quanto con l'avanzare dell'età si manifesta maggiormente la cipollatura del fusto. Iovino et al. (2017) propongono turni compresi da 12-15 a 30-40 anni.
  1832. L’art. 32 del Reg. 2/2020 indica per il castagno un turno minimo di 12 anni e che la ceduazione si può eseguire fino a che i popolamenti non hanno oltrepassato l’età di 48 anni, pari al doppio del turno medio di 24 anni.
  1833. Nei nuovi impianti si potrebbero valorizzare ecotipi di elevato pregio tecnologico e privi di cipollatura come "S. Franceschino" e "Selvatico di Gagliano" (Avolio e Clerici 2000).
  1834. Si tratta di una formazione durevole nel tempo grazie alle ceduazioni, di interesse produttivo. Solo laddove mostra segni di i adattabilità, aggravata da fenomeni di inaridimento del clima (zone di bassa quota), si può pensare a favorire l’evoluzione verso i querceti caducifogli. Oppure alle quote più elevate verso il bosco misto abete-faggio.
  1835. Quercus ilex, Quercus cerris, Quercus frainetto, Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Alnus cordata.
  1836. L'ontano napoletano (Alnus cordata Loisel.) è stato impiegato a scopi produttivi su terreni ex agricoli con distanze di 2.50 x 2.50 m e 3 x 1 m, o protettivi per il rinsaldamento di scarpate o di versanti. Frequente nei substrati silicei (graniti, paragneiss, scisti quarzosi, scisti filladici, serpentini) da 700-1000 m.
  1837. Popolamenti coetanei puri. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1838. Alnus cordata.
  1839. Ceduazioni o tagli a scelta.
  1840. La tendenza evolutiva è verso formazioni di latifoglie mesofile, soprattutto boschi di cerro o di faggio in relazione all’alti udine. Gli sfalci e/o le lavorazioni del terreno bloccano le dinamiche evolutive e mantengono nell’impianto uno strato erbaceo di specie sinantropiche o pascolive.
  1841. Questi popolamenti possono essere mantenuti con le ceduazioni.
  1842. Nella fase cronologica dei 30-50 anni si applicano diradamenti selettivi (con un prelievo inferiore a 15-20% di area basimetrica) per esaltare la vigoria vegetativa della specie e per ottenere assortimenti di grandi dimensioni richiesti dal mercato. Quando i popolamenti superano i 60 anni si applicano i tagli colturali con una provvigione minimale di 250 m3 ad ettaro e con un p elievo, a cadenza decennale, inferiore al 25%.
  1843. Favorire l’evoluzione verso le latifoglie mesofile mediante diradamenti graduali che ne favoriscano l’inserimento e l’affermazione.
  1844. Fagus sylvatica, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Castanea sativa, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Ostrya carpinifolia.
  1845. Il pioppo tremolo (Populus tremula L.), specie pioniera e autoctona (Gambi 1954, Avolio e Ciancio 1986), è stato impiegato i impianti a carattere produttivo; inoltre è diffuso in impianti a filari di alto significato paesaggistico. I rimboschimenti sono particolarmente diffusi in Aspromonte da 900 a 1200 m su gneiss occhiadini grossolani intercalati in scisti biotitici.
  1846. Popolamenti coetanei puri. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1847. Populus tremula.
  1848. Non ordinariamente gestiti: sporadici interventi di diradamento.
  1849. In evoluzione verso cenosi più mature: querceti caducifogli o faggete in relazione alle caratteristiche ecologiche ambientali.
  1850. Salvaguardia dei filari, come in Aspromonte, dove costituiscono un emblema di riconoscimento paesaggistico.
  1851. L'obiettivo è di valorizzare gli aspetti produttivi, con regolari diradamenti, potature e controllo fitosanitario. Il turno no dovrebbe essere superiore a 30-35 anni in quanto con l'avanzare dell'età si manifesta il "cuore nero" che deprezza il legname. La normativa regionale non dà indicazioni precise riguardo alle fustaie, mentre per i cedui indica un turno minimo di 10 anni.
  1852. Favorire l’evoluzione verso le formazioni più mature mediante diradamenti graduali che ne favoriscano l’inserimento e l’affermazione.
  1853. Pinus nigra subsp. calabrica, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Quercus cerris, Quercus pubescens s.l., Quercus ilex, Fagus sylvatica, Acer neapolitanum, Acer campestre, Populus tremula, Castanea sativa.
  1854. Sono piantagioni di vari cloni di pioppo ibrido (Populus x canadensis Moench) abbastanza circoscritte ai terreni alluvionali e freschi della Piana di Lamezia e delle vallecole sia del versante tirrenico sia ionico.
  1855. /
  1856. Pioppeti (Valle del Fiume Mesima)
  1857. Popolamenti monoplani, coetanei, puri. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1858. Populus x canadensis Moench, i cloni più usati sono stati: ‘I 214’ e ‘Luisa Avanzo’ (Mercurio 1999a).
  1859. Regolarmente gestiti con periodiche potature, trattamenti fitosanitari e tagli a raso a maturità. La sperimentazione condotta a Rocca di Neto nel crotonese che prevedeva piantagioni (I 214 con distanze di 2 x 1 e 3 x 0.5 m) a turno breve, non ha avuto esisto su larga scala.
  1860. Nessuna.
  1861. Popolamenti stabili grazie ai continui interventi colturali.
  1862. Laddove i pioppeti caratterizzano il paesaggio, si applicano e si mantengono le consuete tecniche colturali.
  1863. Si seguono i protocolli dell’arboricoltura da legno: potature, lavorazioni del suolo, difesa fitosanitaria, taglio a raso a 10 anni e reimpianto con distanze di 5 x 5 m.
  1864. Si tratta di riformulare la destinazione di uso del suolo verso formazioni igrofile autoctone mediante nuove piantagioni.
  1865. Fraxinus angustifolia subsp. oxycarpa, Quercus robur subsp. brutia, Populus alba, Populus nigra, Ulmus minor, Alnus glutinosa, Salix sp. pl.
  1866. Da (50) 250 m, ma più di frequente da 800 a 1100 m su graniti, scisti filladici, gneiss (Andiloro et al. 2000, Cannavò et al. 2003, Mercurio e Modica 2004, Bagnato e Mercurio 2005, Mercurio 1999a,b, 2002, 2003).
  1867. Le latifoglie a legname pregiato (Juglans regia L., Juglans nigra L., Prunus avium L., Acer pseudoplatanus L., Sorbus domestica L. Fraxinus excelsior L.) sono state impiegate in piccoli appezzamenti con finanziamenti dell'UE negli anni ‘90, con distanze di 3 x 3 m o 6 x 6 m (Andiloro et al. 2000). I risultati non sono stati sempre buoni per l’errata scelta della specie, la cat iva qualità del materiale vivaistico, le cure colturali sommarie e i limiti stazionali.
  1868. Popolamenti, monoplani, coetanei, puri o misti. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1869. Noce comune, ciliegio montano, acero montano, frassino maggiore.
  1870. Interventi di potatura, ripuliture per la manutenzione ordinaria delle piantagioni. Spesso in abbandono.
  1871. /
  1872. Piantagioni di latifoglie a legname pregiato (Aspromonte)
  1873. Nessuna.
  1874. Verso formazioni autoctone (es. cerrete, faggete) o possibilità di reimpianto di colture forestali o di ritorno alle colture agrarie a fine ciclo essendo colture reversibili.
  1875. Da mantenere con le normali cure colturali laddove queste piantagioni caratterizzano il paesaggio.
  1876. Per valorizzare gli aspetti produttivi sono necessarie: lavorazioni superficiali negli interfilari, potature, eventuali diradamenti, controllo fitosanitario, per poi valutare intorno ai 35-45 anni, dopo un taglio a raso, se reimpiantare la stessa specie con finalità produttive, oppure altre specie forestali o se ipotizzare il ritorno alle colture agrarie se sussistono aziende ancora vitali. A tal riguardo l’art. 75 del Reg. 2/2020, che regolamenta l’arboricoltura da legno, non è sufficientemente chiaro. Rimanda la gestione al piano colturale di ogni progetto, specifica però che “gli impianti arborei esistenti, finalizzati alla p oduzione legnosa ed effettuati su terreni aventi pendenza media superiore al quaranta per cento, sono considerati bosco e, pertanto, assoggettati alle norme ed ai vincoli del bosco”. Tuttavia conclude che “le norme di cui al presente articolo si applicano agli impianti di arboricoltura eseguiti successivamente alla entrata in vigore del presente regolamento”.
  1877. Nel caso di evidente fallimento deve essere prevista la sostituzione delle piantagioni (Mercurio 1999a,b) con il reimpianto di specie native della stessa serie dinamica.
  1878. Fagus sylvatica, Abies alba subsp. apennina, Quercus cerris, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum.
  1879. A partire dal 1950, gli eucalitpi (Eucalyptus camaldulensis Dehn., e in minor misura, E. globulus Labill., E. viminalis Labill., E. x trabutii M. Vilm., E. gomphocephala DC., E. occidentalis Endl.) furono impiegati nei vasti rimboschimenti per la difesa del suolo (Avolio et al. 1980, Maiolo 1983, Porto et al. 2009) e per la produzione di legno destinato all'industria delle pas e per carta (Gemignani 1988). Di fatto la produzione di pasta meccanica non si è mai sviluppata e gli eucalipti hanno assunto un valore per la produzione di biomasse a scopi energetici.
  1880. Nuovi cloni si sono dimostrati interessanti nei cedui a turno breve (Mughini et al. 2014).
  1881. In prevalenza gli impianti sono stati realizzati nella costa ionica da livello del mare fino a 400 m, su argille policrome con intercalazioni di arenarie, con distanze d'impianto di 3 x 2 m (Ciancio e Hermanin 1976, Ciancio et al. 1984, Maiolo 1983, 199, Mercurio 1999a).
  1882. Popolamenti monoplani, coetanei, puri. Non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1883. Eucaliptus sp. pl.
  1884. Cedui a regime, parte in abbandono.
  1885. /
  1886. Eucalipteti nel crotonese
  1887. Possibilità di reinserimento negli eucalipteti delle specie della macchia mediterranea, delle leccete, o dei querceti caducifogli.
  1888. In Italia non ci sono esempi di colonizzazione o di sostituzione della vegetazione autoctona da parte dell’eucalipto forse perché non ha trovato condizioni favorevoli.
  1889. Con il passaggio del fuoco gli eucalipti si rinnovano da seme.
  1890. Sostituire queste piantagioni dove sono prevalenti motivi naturalistici, con latifoglie autoctone, oppure, laddove situazioni economico-sociali lo richiedano, il ritorno a colture agrarie (es. oliveti).
  1891. Si prosegue con piccoli tagli a raso senza rilascio di matricine con turni di 10 anni (art. 32, 38 del Reg. 2/2020) fino alla sostituzione degli eucalipti con l’esaurimento delle ceppaie.
  1892. Gli eucalipti dovranno essere gradualmente sostituiti con le specie autoctone quando hanno uno scarso interesse sul piano produttivo e protettivo. Si tratta di una scelta che dovrà essere valutata con attenzione, zona per zona, a seconda della densità e dello sviluppo delle piante, tenendo conto del calo della facoltà pollonifera dopo i primi cicli agamici e della presenza di sostanze allelopatiche negli organi della pianta.
  1893. Un buon riferimento per la sostituzione degli eucalipteti sono i livelli produttivi: inferiori ai 5-7 m3/ettaro/anno (Ciancio et al. 1984). Le opzioni possono essere:
  1894. - La sostituzione con rimboschimenti di pino d’Aleppo.
  1895. - La rinaturalizzazione degli eucalipteti: si interviene con piccoli tagli di smantellamento (tagli a raso) non superiori ai ettari, asportando l’apparato radicale. Segue la piantagione di latifoglie autoctone (es. leccio, sughera), comunque con specie coerenti con le caratteristiche della zona e più xerotolleranti (es. oleastro, ecc.), integrando se necessario con pini mediterranei (pino d’Aleppo su substrati marnosi o argillosi). Le piantagioni miste sono indicate per accrescere la resilienza in seguito all’incendio. Il modulo colturale prevede distanze d’impianto iniziali di 4 x 4 m, anche su “isolette” di 1000-2000 m2 con lo scopo di esaltare il processo di fruttificazione. L’obiettivo degli interventi successivi è di orientare i nuovi popolamenti verso la ricostituzione della vegetazione naturale potenziale della zona.
  1896. In alternativa, sempre nel caso in cui non vi sia pre-rinnovazione o reinsediamento spontaneo di latifoglie autoctone, si possono eseguire tagli a buche o a strisce, delle dimensioni rapportate all’altezza del vecchio popolamento e alle condizioni topo-orografiche, per favorire la rinnovazione naturale e lo sviluppo delle specie autoctone. L’eventuale ricaccio dell’eucalipto va depresso mediante interventi nella stagione estiva seguente al taglio; il materiale di piccolo diametro va distribuito sul letto di caduta oppure cippato nelle aree suscettibili di fenomeni erosivi (Mercurio 2016).
  1897. Gli impianti di eucalipto sono indicati per la fitodepurazione dei siti inquinati.
  1898. Quercus ilex, Quercus suber, Quercus pubescens s.l., Pinus halepensis, Ceratonia siliqua, Olea europaea subsp. oleaster, Pistacia lentiscus, Rhamnus alaternus.
  1899. Molte specie aliene sono state introdotte ai fini forestali per poter disporre di una base più ampia di specie con caratteri di maggiore produttività, migliori caratteristiche tecnologiche del legno, resistenza alle malattie, adattabilità a siti particolari (Ciancio et al. 1984, 1997, Nocentini 1991).
  1900. I protocolli internazionali (es. art.8 della CDB e art.9 dell’Aichi Target) pongono limiti alla diffusione delle aliene invasive e promuovono misure per il loro contenimento (Ivey 2014).
  1901. Spampinato et al. (2022) e Laface et al. (2020) evidenziano un progressivo e costante aumento dei taxa alieni nella flora vascolare della Calabria e forniscono alcune linee guida per gestione delle specie invasive.
  1902. Se da una parte sono specie utili in quanto possono essere impiegate in situazioni estremamente degradate, dall’altra possono creare situazioni di criticità in quanto invasive. In riferimento a quest’ultimo aspetto, l’obiettivo non è quello della eliminazione di queste specie su vasta scala, ma di evitare la ulteriore diffusione e di rimuovere la loro presenza in siti di particolare interesse naturalistico o culturale (Mercurio 2016).
  1903. Boschi di specie alloctone invasive
  1904. ● Boschi di robinia
  1905. ● Boscaglie di ailanto
  1906. ● Boscaglie di acacia
  1907. /
  1908. Boschi di robinia nel Vallone Maropati
  1909. La robinia (Robinia pseudoacacia L.) è stata impiegata nel consolidamento di scarpate stradali e ferroviarie. In rimboschimen i con pino marittimo (Catena Costiera, M. Faeto 870 m) può spingersi fino ad oltre 1000 m di quota. Sostanzialmente ubiquitaria ad esclusione delle zone molto aride dove cresce stentata.
  1910. Popolamenti coetanei pressoché puri, difficilmente inquadrati dal punto di vista fitosociologico. Viciani et al. (2020) inquadrano questi popolamenti, floristicamente eterogenei, nella classe di vegetazione forestale a neofite dei Robinietea. La robinia predilige le zone fresche e umide soprattutto del versante tirrenico mostrando una certa preferenza per terreni acidi. Tende a formare dense boscaglie in tutta la fascia mesomediterranea a discapito di formazioni autoctone quali boschi ripariali, castagneti e cedui degradati.
  1911. Strato arboreo: Robinia pseudoacacia.
  1912. Ceduazione: taglio a raso.
  1913. Nessuna.
  1914. La robinia ha una grande capacità di colonizzazione dei luoghi aperti (Boring e Swank 1984). Invade vari tipi forestali prediligendo in Calabria quelli mesofili e igrofili (boschi misti di forre, boschi ripariali, querceti mesofili, ecc.), ma anche i castagneti da frutto abbandonati (Catena Costiera).
  1915. Il robinieto, se viene lasciato indisturbato, potrebbe evolvere verso formazioni di specie autoctone (Bernetti 2015). La ceduazione favorisce la robinia (Huntley 1990, Radke et al. 2013) e accresce la competitività con le altre specie. Il passaggio del fuoco stimola la germinazione del seme indebolendo il tegumento e favorendo una elevata rinnovazione da seme e determina l’emissione di polloni radicali (Stone 2009, Maltoni et al. 2012).
  1916. Non si può parlare di conservazione della robinia in senso stretto se non in situazioni particolari. Si pone semmai il problema del contenimento della diffusione di questa specie invasiva soprattutto nelle aree protette. Le procedure si differenziano se si tratta d'interventi a livello di singolo albero o di intero bosco.
  1917. Per devitalizzare una pianta si può procedere mediante (Mercurio 2016):
  1918. - copertura della ceppaia con teli antigerminamento;
  1919. - taglio a 1 m da terra; (la soluzione più sostenibile anche se sono state provate altezze di ceduazione più alte con effetti migliori);
  1920. - cercinatura (Solecki 1997);
  1921. - i trattamenti con prodotti chimici sulle parti tagliate o cercinate (Sabo 2000): anche se efficaci sono da evitare ovunque.
  1922. Nel caso di boschi di robinia bisogna distinguere:
  1923. 1) Dove la specie è dominante:
  1924. - bisogna sospendere qualsiasi intervento di taglio e far invecchiare le piante.
  1925. 2) Dove la specie è minoritaria:
  1926. - occorre favorire strutture articolate in modo da creare una costante copertura che penalizzi la robinia;
  1927. - bisogna evitare di creare radure o buche troppo ampie che la robinia può colonizzare facilmente (Motta et al. 2009) o quanto meno reintegrarle con specie autoctone;
  1928. - è bene eliminare le piante disseminatrici con cercinatura.
  1929. Le peculiarità della robinia risiedono nella rapidità di accrescimento, nella capacità di consolidare terreni, nelle ottime qualità del legno (mobili, parquet, legna da ardere e paleria), nell’attitudine mellifera, nella capacità di migliorare il suolo in quanto specie azotofissatrice attraverso i batteri (gen. Rhizobium) presenti nei noduli radicali (Cierjacks et al. 2013) e di essere resistente all’inquinamento atmosferico.
  1930. Può essere trattata a ceduo semplice con turni di 12 anni (art. 32 del Reg. 2/2020) e, anche per segati e travature con turni di 30-40 anni (Maltoni et al. 2012). Nell’arboricoltura da legno con turni brevi per la produzione di biomassa a scopo energetico (Mercurio e Minotta 2000, Malvolti et al. 2003, Crosti et al. 2016) la cui sostenibilità economica è però da verificare in Calabria.
  1931. La robinia viene usata al di fuori dei contesti forestali come nel restauro dei siti post-industriali (Zeleznik e Skousen 1996, Zhao et al. 2013, Mantovani et al. 2015) ma bisogna tenere presente che potrebbero rappresentare ulteriori centri di dispersione della specie.
  1932. Castanea sativa, Quercus cerris, Quercus pubescens s.l., Quercus ilex, Quercus frainetto, Quercus petraea subsp. austrotyrrhenica, Alnus cordata, Acer pseudoplatanus, Acer neapolitanum, Ostrya carpinifolia, Carpinus betulus, Tilia platyphyllos.
  1933. L’ailanto (Ailanthus altissima (Mill.) Swingle) è una specie aliena invasiva sostanzialmente ubiquitaria nella fascia collinare e sub montana con bioclima mediterraneo fino a circa1000 m, si riscontra su substrati di varia natura in prevalenza sul versante tirrenico della regione.
  1934. L’ailanto è stato usato nei rimboschimenti in tutta l’area mediterranea, anche con roccia affiorante, per il consolidamento di scarpate stradali e ferroviarie, di argini e aree franose.
  1935. Sono popolamenti coetanei in genere puri, difficilmente inquadrabili dal punto di vista fitosociologico. Diversi autori per l’Europa e per l’Italia (Montechiari et al. 2020, Viciani et al. 2020) fanno riferimento a comunità o associazioni vegetali dominate da Ailanthus altissima inquadrate nella classe Robinietea che riunisce la vegetazione forestale dominata da neofite invasive con uno strato erbaceo di specie sinantropiche e ruderali. L’ailanto è una specie invasiva, molto rustica e adattabile a qualsiasi tipo di substrato: colonizza velocemente incolti, aree disturbate, scarpate, ambienti viari, fino alla fascia submontana. È in grado di invadere anche gli habitat naturali e seminaturali della fascia termo e mesomediterranea, quali le praterie steppiche e la macchia sclerofilla sempreverde.
  1936. Strato arboreo: Ailanthus altissima.
  1937. Taglio a raso per ripuliture di piccole zone, che poi rafforzano la presenza della specie.
  1938. Nessuna.
  1939. La estrema capacità di propagazione, sia per via gamica sia agamica, la rende una specie invasiva per eccellenza, soprattutto elle aree degradate. Gli incendi favoriscono la diffusione dell’ailanto in quanto stimolano l’emissione di polloni (Meggaro e Vila 2002, Di Tomaso et al. 2006).
  1940. L’ailanto esercita una forte capacità competitiva, se non distruttiva, sulla vegetazione autoctona per l’emissione di sostanze allelopatiche (Lawrence et al. 1991, Heisey 1996, Kowarik e Saumel 2007). Altera la fisionomia dei paesaggi, per esempio quando diviene invasivo nella macchia mediterranea.
  1941. Non si può parlare di conservazione né di completa eradicazione. Si pone semmai il problema del contenimento. Le procedure nelle aree protette escludono l’uso di prodotti chimici (Badalamenti et al. 2013) ma prevedono:
  1942. - piro-diserbo,
  1943. - estirpazione manuale (Kowarik e Saumel 2007) (circoscritto alle zone sabbiose nelle prime fasi di sviluppo),
  1944. - devitalizzazione della ceppaia mediante pacciamatura, con interventi di tipo meccanico quali taglio, cercinatura (Burch e Zedaker 2003, Constan-Nava et al. 2010).
  1945. Incendio e pascolo possono danneggiare i fusti di ailanto così come l’apparato radicale, ma nessuno dei due metodi si è rivela o una soluzione efficace nel lungo periodo contro il continuo ricaccio dei polloni (Burch e Zedaker 2003).
  1946. Non è giustificata alcuna forma di coltivazione per mancanza di interesse economico.
  1947. Fuori dai contesti forestali l’ailanto viene usato nelle zone inquinate e degradate in quanto specie molto tollerante la sicci à estiva (Trifilò et al. 2004), le alte concentrazioni saline e l’acidità e l’alcalinità del suolo (Dirr 1976, Miller 1990) e la contaminazione di metalli pesanti (Gatti 2008). Tuttavia si corre il rischio di creare ulteriori centri di dispersione.
  1948. Castanea sativa, Quercus pubescens s.l., Quercus ilex, Quercus frainetto, Acer neapolitanum, Erica arborea, Pistacia lentiscus, Rhamnus alaternus, Myrtus communis, Phillyrea latifolia, Arbutus unedo, Olea europaea subsp. oleaster.
  1949. /
  1950. Boscaglie di ailanto (Pentimele, Reggio Calabria).
  1951. L’acacia saligna (Acacia saligna (Labill.) H.L. Wendl. = Acacia cyanophylla Lindley) è stata impiantata lungo le coste sabbiose tirreniche e ioniche nella parte dell’impianto verso mare con funzione di protezione delle pinete retrostanti dai venti marini per il consolidamento delle dune e per produrre tannino (Ciancio et al. 1984, Berti 1995, Maiorca et al. 2002, 2005, Mercurio et al. 2009b), nonché lungo strade e autostrade per il consolidamento delle scarpate.
  1952. /
  1953. Boscaglia di acacia nel litorale tirrenico cosentino
  1954. Sono popolamenti coetanei puri, non inquadrabili dal punto di vista fitosociologico.
  1955. L’acacia saligna si comporta come specie invasiva soprattutto negli habitat dunali di tutta la regione, dove invade soprattutto la vegetazione retrodunale a camefite (dune grigie) o a fanerofite (dune brune) provocando una notevole perdita di biodiversità. A subire i maggiori danni sono le specie psammofile specializzate a vivere lungo le coste sabbiose come Ephedra distachya o Juniperus macrocarpa che si estinguono nelle aree invase dall’acacia.
  1956. Strato arbustivo: Acacia saligna.
  1957. Nessun intervento, in abbandono.
  1958. Nessuna.
  1959. Nell’acacia in seguito all’invecchiamento (intorno ai 40-50 anni) è frequente l’apertura della chioma per lo stroncamento dei rami in conseguenza di forti venti.
  1960. L’acacia si rinnova abbondantemente per seme tanto da divenire invasiva in particolare nelle pinete di pini mediterranei più aperte e negli habitat dunali.
  1961. Sotto le boscaglie di acacia si rinnova il leccio (Mercurio et al. 2009b) con la tendenza verso formazioni a prevalenza di sclerofille sempreverdi a dominanza di leccio, lentisco, fillirea, alaterno, mirto.
  1962. Non si pone l’opzione di conservare le acacie, se non in situazioni particolari di interesse protettivo o estetico-ricreativo.
  1963. In mancanza di interesse economico non sono previste forme di coltivazione.
  1964. Nei rimboschimenti litoranei occorre evitare la fruttificazione e la dispersione del seme delle acacie, mediante tagli a circa 1 m da terra per devitalizzare le piante.
  1965. Da evitare l’ulteriore impiego anche lungo le coste sabbiose, tenendo conto della notevole invasività dell’acacia.
  1966. Quercus ilex, Pistacia lentiscus, Rhamnus alaternus, Myrtus communis, Phillyrea latifolia, Juniperus macrocarpa, Juniperus turinata.
  1967. AA.VV. 2008. Tutela e Valorizzazione della flora e della faina nelle zone protette della Sila Grande. Parco Nazionale della Sila-Agriconsulting, Roma.
  1968. Agrimi MG., Ciancio O., Portoghesi L., Pozzoli R. 1991. I querceti di cerro e farnetto di Macchia Grande di Manziana: struttura, trattamento e gestione. Cellulosa e Carta 42 (5): 25-49.
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  2270. Accessibilità
  2271. Grado di raggiungibilità di un popolamento in relazione alla viabilità e/o alle condizioni morfo-topo-orografiche.
  2272. Alleanza
  2273. Nella sintassonomia fitosociologica è l’insieme di associazioni vegetali floristicamente ed ecologicamente affini definito mediante il suffisso –ion apposto al genere della specie guida (es.: Quercion ilicis).
  2274. Allievi
  2275. Matricine (rilasci) del I turno.
  2276. Alloctona
  2277. Specie entità introdotta, deliberatamente o accidentalmente dall’uomo, al di fuori del suo areale originario (sinonimi: aliena, esotica, introdotta, non-indigena).
  2278. Altezza dominante
  2279. La media aritmetica delle altezze delle 100 piante di maggiore diametro (più grosse) ad ettaro.
  2280. Altezza media
  2281. Altezza di un popolamento, letta sul punto della curva ipsometrica, in corrispondenza del diametro medio di area basimetrica (La Marca 2017).
  2282. Arboricoltura da legno
  2283. È la coltivazione di un semplice insieme di alberi forestali, costituente un sistema artificiale temporaneo o transitorio che può anche evolversi verso un ecosistema forestale, allo scopo di ottenere in tempi più o meno brevi prodotti legnosi in elevata quantità, in relazione alle diverse regioni fitogeografiche, alle condizioni ambientali e socio-economiche (Ciancio et al. 1984).
  2284. Area di saggio
  2285. È una piccola porzione di un popolamento scelta come rappresentativa delle sue condizioni medie, in essa vengono raccolti tutti i dati topo-orografici, vegetazionali, geo-pedologici, dendrometrici e strutturali necessari per la descrizione.
  2286. Areale naturale
  2287. Area di distribuzione geografica di una specie.
  2288. Associazione vegetale
  2289. Unità fondamentale della fitosociologia: comunità vegetale più o meno stabile nel tempo ed in equilibrio con l'ambiente, cara terizzata da una particolare composizione floristica e da proprie caratteristiche ecologiche, biogeografiche e dinamiche.
  2290. Assortimento
  2291. Categoria commerciale in cui vengono distinti i prodotti legnosi secondo le dimensioni, il grado di lavorazione e la destinazione (Bernetti 2005).
  2292. Autoctona
  2293. Specie originaria del territorio biogeografico considerato.
  2294. Biodiversità
  2295. -“La ricchezza di vita sulla terra: i milioni di piante, animali e microrganismi, i geni che essi contengono, i complessi ecosistemi che essi costituiscono nella biosfera” (Wilson 1988).
  2296. -Diversità dei sistemi biologici, secondo livelli di organizzazione (geni, specie, comunità, paesaggi) e dei servizi ecosistemici da essi generati (Folke et al. 2002). Ogni livello ha tre componenti: diversità compositiva, strutturale, funzionale.
  2297. -“La varietà e variabilità degli organismi viventi e dei sistemi ecologici in cui essi vivono” (CNB).
  2298. Biomassa
  2299. -Massa totale espressa in peso secco per unità di superficie di una comunità di organismi viventi in un dato momento.
  2300. -Prodotti per lo più ridotti in frammenti (scaglie, chips) ricavati da tutte le parti degli alberi abbattuti comprese quelle solitamente non commercializzabili (Bernetti 2005).
  2301. Bosco
  2302. Definizione giuridica in base agli art. 3 e 4 del TUFF DL 34/2018:
  2303. Per le materie di competenza esclusiva dello Stato, sono definite bosco le superfici coperte da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, di origine naturale o artificiale in qualsiasi stadio di sviluppo ed evoluzione, con estensione non inferiore ai 2.000 metri quadri, larghezza media non inferiore a 20 metri e con copertura arborea forestale maggiore del 20 per cento.
  2304. Per le materie di competenza esclusiva dello Stato, fatto salvo quanto già previsto dai piani paesaggistici di cui agli articoli 143 e 156 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, sono assimilati a bosco:
  2305. a) le formazioni vegetali di specie arboree o arbustive in qualsiasi stadio di sviluppo, di consociazione e di evoluzione, comprese le sugherete e quelle caratteristiche della macchia mediterranea, riconosciute dalla normativa regionale vigente o individuate dal piano paesaggistico regionale ovvero nell’ambito degli specifici accordi di collaborazione stipulati, ai sensi dell’articolo 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241, dalle regioni e dai competenti organi territoriali del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per il particolare interesse forestale o per loro specifiche funzioni e caratteristiche e che non risultano già classificate a bosco;
  2306. b) i fondi gravati dall’obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, di miglioramento della qualità dell’aria, di salvaguardia del patrimonio idrico, di conservazione della biodiversità, di protezione del paesaggio e dell’ambiente in generale;
  2307. c) i nuovi boschi creati, direttamente o tramite monetizzazione, in ottemperanza agli obblighi di intervento compensativo di cui all’articolo 8, commi 3 e 4;
  2308. d) le aree forestali temporaneamente prive di copertura arborea e arbustiva a causa di interventi antropici, di danni da avversità biotiche o abiotiche, di eventi accidentali, di incendi o a causa di trasformazioni attuate in assenza o in difformità dalle autorizzazioni previste dalla normativa vigente;
  2309. e) le radure e tutte le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco, non riconosciute come prati o pascoli permanenti o come prati o pascoli arborati;
  2310. f) le infrastrutture lineari di pubblica utilità e le rispettive aree di pertinenza, anche se di larghezza superiore a 20 metri che interrompono la continuità del bosco, comprese la viabilità forestale, gli elettrodotti, i gasdotti e gli acquedotti, pos i sopra e sotto terra, soggetti a periodici interventi di contenimento della vegetazione e di manutenzione ordinaria e straordinaria finalizzati a garantire l’efficienza delle opere stesse e che non necessitano di ulteriori atti autorizzativi.
  2311. 1-“i terreni coperti da vegetazione forestale arborea associata o meno a quella arbustiva di origine naturale o artificiale, i qualsiasi stadio di sviluppo, i castagneti, le sugherete e la macchia mediterranea, ed esclusi i giardini pubblici e privati, le alberature stradali, i castagneti da frutto in attualità di coltura e gli impianti di frutticoltura e d’arboricoltura da leg o di cui al comma 5. Le suddette formazioni vegetali e i terreni su cui essi sorgono devono avere estensione non inferiore a 2000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento.” (comma 6 art. 2 D.L. 18 maggio 2001 n.227).
  2312. 2- “territorio con copertura arborea > 10% su un’estensione di almeno 0.5 ha. Gli alberi devono raggiungere un’altezza minima di 5 m a maturità. Può essere costituito da formazioni chiuse o aperte. Sono inclusi nella definizione di bosco i soprassuoli giovani o aree temporaneamente scoperte per cause naturali o per l’intervento dell’uomo, ma suscettibili di ricopertura a breve termine secondo i requisiti sopra indicati.” (FAO FRA 2000, INFC 2003).
  2313. Bosco degradato
  2314. “Quello in cui si evidenziano fenomeni di degenerazione e regressione rispetto alla massima funzionalità ecologica potenziale” (SIRF 2014). A questa notazione di carattere ecologico bisogna aggiungere anche una notazione di carattere socio-economico: la mancanza della capacità di produrre beni e servizi (Mercurio 2016).
  2315. Boschi misti (a prevalenza di due specie)
  2316. Quando le due specie principali sono presenti entrambe con aliquote variabili fra 20 e 50% e nessuna delle altre supera il 20%.
  2317. Ceduo
  2318. Governo a ceduo. Insieme di sistemi selvicolturali in cui la rinnovazione naturale dopo il taglio é di origine agamica, cioè per polloni da ceppaia, indotta dall’azione dell’uomo.
  2319. Ceduo a sterzo
  2320. Soprassuolo sottoposto a taglio a sterzo, formato da polloni disetanei e matricine. Sulla stessa ceppaia convivono polloni di due o tre classi di età diverse.
  2321. Ceduo composto
  2322. -Formazione prevalentemente costituita da polloni (anche affrancati) in cui una parte dei soggetti é rilasciata come allievi e matricine (almeno 75 ad ettaro) per più cicli del ceduo. Dopo ogni taglio del ceduo deve permanere una copertura di allievi e matricine maggiore del 33% (Del Favero 2008).
  2323. -Forma mista di governo: a fustaia e a ceduo. La parte a ceduo è sottoposta al taglio a raso allo scadere del turno con rilascio di soggetti provenienti da seme o di polloni (componente alto fusto) in grado di disseminare, con ripartizione in classi di età multiple del turno (1T, 2T, 3T, 4T, 5T).
  2324. Ceduo coniferato
  2325. -“E’ un bosco misto in cui le latifoglie sono governate a ceduo mentre le conifere formano uno strato di alto fusto a copertura discontinua e, possibilmente, a struttura disetanea. Il trattamento consiste nel perseguire una produzione mista di legna da catasta e di tronchi di conifere mantenendo l’equilibrio tra i due strati di vegetazione: il ceduo e la fustaia disetanea….Il trattamento a ceduo coniferato sarebbe affine a quello del ceduo composto nel senso di una combinazione tra fustaia e ceduo in cui le conifere tengono il posto delle matricine” (Bernetti et al. 2012).
  2326. Ceduo matricinato
  2327. -Formazione governata a ceduo in cui sono presenti come rilasci solo allievi o eventualmente matricine, che nel complesso esercitano, dopo il taglio una copertura inferiore al 33% (Del Favero 2008)
  2328. -Il trattamento che prevede, all'atto del taglio a raso del ceduo, il rilascio di un certo numero di allievi e/o di matricine di età non superiore a 3 volte il turno che nell'insieme esercitano, dopo il taglio, una copertura inferiore al 30%. Gli allievi e/o le matricine vengono scelti fra i migliori soggetti presenti al momento del taglio del ceduo (polloni sviluppati, ben conformati ed affrancati, piante nate da seme in buone condizioni vegetative e di portamento); essi sono tagliati in corrispondenza del taglio del ceduo.
  2329. Ceduo semplice
  2330. Soprassuolo di latifoglie governato a ceduo sottoposto a taglio raso senza rilascio di matricine.
  2331. Ceppaia
  2332. Parte dell’albero che rimane nel terreno dopo il taglio in prossimità dell’attaccatura del fusto (colletto).
  2333. Classe
  2334. Nella sintassonomia fitosociologica è l’unità che raggruppa più ordini vegetali affini definita mediante l’apposizione del sufisso –etea al genere della specie guida (es.: Quercetea ilicis).
  2335. Coetaneo (popolamento)
  2336. Popolamento costituito da alberi aventi la stessa età o appartenenti alla stessa classe cronologica.
  2337. Composizione
  2338. Rapporto numerico tra le diverse specie arboree all’interno di un bosco; si possono avere boschi puri, formati da una sola specie, o misti, formati da più specie.
  2339. Comunità vegetale
  2340. Insieme più o meno omogeneo di differenti specie vegetali, che coesistono in un determinato biotopo. È sinonimo di fitocenosi.
  2341. Coniferamento
  2342. L’introduzione artificiale (talvolta anche spontanea) di conifere in un bosco di latifoglie comunemente in un ceduo (Bernetti 2005).
  2343. Conversione
  2344. È il cambiamento della forma di governo del bosco.
  2345. Densità di un popolamento
  2346. Quantità di alberi nell’unità di superficie considerata.
  2347. Dinamiche evolutive delle foreste (coltivate e coetanee)
  2348. Si susseguono, a seguito della comparsa della nuova generazione per effetto di un trattamento selvicolturale, queste fasi cronologiche e di sviluppo: novelleto, spessina, perticaia, fustaia.
  2349. Diradamento
  2350. -Taglio intercalare di un soprassuolo coetaneo eseguito nella fase di fustaia allo scopo di concentrare l’accrescimento sui soggetti migliori e aumentare la stabilità meccanica del popolamento.
  2351. -Intervento colturale per ridurre in numero delle piante di un soprassuolo per: ottimizzare la funzionalità, migliorare la stailità meccanica, lo stato fitosanitario, la produzione e ottenere dei prodotti legnosi.
  2352. Disetaneo (popolamento)
  2353. -Popolamento costituito da alberi di età e di diametro differente.
  2354. -Popolamento costituito da alberi di più età e considerato indipendentemente dalla sua struttura (Bernetti 2005).
  2355. Ecotono
  2356. Zona di transizione tra due diverse comunità vegetali adiacenti, particolarmente ricca di diversità biologica.
  2357. Eliofila
  2358. Specie vegetale predilige ambienti molto illuminati e soleggiati.
  2359. Endemica
  2360. Taxon (solitamente specie o sottospecie) con areale di distribuzione circoscritto e limitato ad una certa località o regione (endemica è sinonimo di endemita).
  2361. Emerobia
  2362. Termine complementare di naturalità, riguarda “il grado dell’influenza antropica in un ecosistema forestale, come gli effetti della gestione forestale o l’impatto del pascolo” (Colak et al. 2003, Parviainen 2005).
  2363. Fitocenosi
  2364. Insieme più o meno omogeneo di specie vegetali che occupano un determinato habitat.
  2365. Fisionomia
  2366. Aspetto che il bosco assume in rapporto alle specie arboree che lo compongono. La classificazione fisionomica è utile per una prima discriminazione e raggruppamento dei popolamenti forestali.
  2367. Flora
  2368. Elenco delle specie vegetali presenti in un determinato territorio.
  2369. Funzionalità ecologica
  2370. Descrive, in un sistema forestale, i processi fondamentali come il ciclo dei nutrienti e i flussi energetici che interagiscono tra loro. Alla loro interruzione è legato il degrado del sistema.
  2371. Fruibilità
  2372. Caratteristica dei boschi nel rispondere all’esigenza degli utenti, in termini di criteri di facilità d’uso, di gradevolezza e di soddisfazione nell’utilizzo dei servizi.
  2373. Fustaia (bosco di alto fusto)
  2374. Governo a fustaia che si contrappone al governo a ceduo. Insieme di sistemi selvicolturali che prevedono la rinnovazione fatta direttamente dall’uomo (per piantagione o per semina), o per rinnovazione naturale indotta dall’azione dell’uomo.
  2375. Gestione forestale sostenibile
  2376. “Insieme delle azioni selvicolturali volte a valorizzare la molteplicità delle funzioni del bosco, a garantire la produzione sostenibile di beni e servizi ecosistemici, nonché una gestione e uso delle foreste e dei terreni forestali nelle forme e ad un tasso di utilizzo che consenta di mantenere la loro biodiversità, produttività, rinnovazione, vitalità e potenzialità di adempie e, ora e in futuro, a rilevanti funzioni ecologiche, economiche e sociali a livello locale, nazionale e globale, senza comportare danni ad altri ecosistemi” (TUFF art. 3 del D.L. 34/2018).
  2377. Governo
  2378. Modalità di rinnovazione del bosco: per via agamica (governo a ceduo) o gamica (governo a fustaia). Bernetti (2005) conside a anche il governo a ceduo composto.
  2379. Grado di copertura arborea
  2380. Porzione della superficie coperta dalla proiezione a terra dalle chiome degli alberi.
  2381. Incremento corrente
  2382. Aumento delle dimensioni di un albero in un soprassuolo arboreo in una unità di tempo (anno).
  2383. Incremento medio
  2384. Rapporto tra il volume del bosco (coetaneo) e la sua età, espresso m3 ettaro anno
  2385. Incremento percentuale
  2386. E’ l’incremento corrente di massa diviso per la massa che lo ha prodotto e moltiplicato per 100 (Bernetti 2005).
  2387. Levata
  2388. Geminazione dei semi e sviluppo iniziale dei semenzali.
  2389. Mantello forestale
  2390. Fitocenosi arbustive che si dispongono con andamento lineare a contatto di comunità forestali.
  2391. Martellata (Assegno)
  2392. Scelta e marcatura degli alberi (mediante martello forestale), in funzione della redazione di un progetto di taglio in alcuni tipi di utilizzazione.
  2393. Martello forestale
  2394. Strumento per contrassegnare alberi o parti di essi con un simbolo o numero che distingue il proprietario o il professionista (Dottore Forestale) in alcuni progetti di utilizzazione.
  2395. Matricine
  2396. Soggetti di origine gamica o agamica rilasciati al momento del taglio del ceduo.
  2397. Naturalità
  2398. “La misura in cui la composizione specifica esistente corrisponde a quella della vegetazione naturale potenziale della stazio e” (Colak et al. 2003, Parviainen 2005). Il grado di “naturalità” viene espresso sulla base di alcuni indicatori tra cui quelli riguardanti: diversità specifica, struttura, processi ecologici.
  2399. Nemorale
  2400. Specie vegetale che vive nello strato erbaceo del bosco beneficiando di peculiari condizioni ecologiche.
  2401. Origine del bosco
  2402. Naturale, per disseminazione indotta o no dall’uomo, artificiale, per intervento diretto dell’uomo con semine e piantagioni.
  2403. Ordine
  2404. Nella sintassonomia fitosociologica è l’unità che raggruppa più alleanze vegetali affini definita mediante l’apposizione del suffisso –alia al genere della specie guida (es.: Quercetalia ilicis).
  2405. Particella (forestale)
  2406. "La particella assestamentale costituisce l'unità tecnica della gestione della foresta, in quanto unità base della descrizione, del rilevamento, dell'evidenziamento dei dati e della registrazione degli eventi. Essa, inoltre, è generalmente ...anche unità planimetrico-cronologica d’intervento selvicolturale... o addirittura unità di trattamento selvicolturale” (Hellrigl 1986).
  2407. Piano (di copertura)
  2408. Sono gli alberi posti in uno stesso livello da terra verosimilmente della stessa classe di età. Si distinguono popolamenti con un solo piano (monoplano), due piani (biplano), più piani (multiplano).
  2409. Pollone
  2410. Ricaccio dotato di dominanza apicale che nasce presso la base del fusto di un albero (latifoglia) in seguito al taglio o a un trauma da una gemma preformata o da una gemma avventizia (Bernetti 2005).
  2411. Popolamento forestale
  2412. Comunità vegetale che differisce dalle comunità confinanti per determinati caratteri (Bernetti 2005).
  2413. Profondità di chioma
  2414. Porzione della chioma che interessa il fusto dell’albero, dalla cima all’ultimo ramo verde.
  2415. Provvigione
  2416. Massa arborea in piedi presente in una data superficie (particella forestale).
  2417. Rapporto-coefficiente-di snellezza o Rapporto ipso-diametrico
  2418. Rapporto tra l’altezza dell’albero e il diametro a 1,30 m da terra, espressi nella stessa unità di misura, e indica, insieme alla profondità della chioma, il grado di stabilità meccanica di un popolamento.
  2419. Recupero
  2420. Una serie di azioni per riportare un popolamento di origine artificiale a una situazione preesistente, (es. produrre castagne in un castagneto abbandonato). Sinonimo di ripristino.
  2421. Resilienza
  2422. -L’abilità di un sistema a ritornare allo stato precedente un disturbo (Larsen 1995).
  2423. -La capacità di un sistema di reagire agli eventi perturbativi per ricercare un nuovo equilibrio dinamico attraverso le sue capacità di auto-organizzazione.
  2424. Resinazione
  2425. Raccolta della resina eseguita prevalentemente su pini e larice.
  2426. Resistenza
  2427. -La capacità di un sistema a resistere agli stress esterni (Larsen 1995).
  2428. -La capacità di un sistema di resistere agli eventi perturbativi che tendono a modificare l’equilibrio dinamico.
  2429. Restauro ecologico
  2430. “Il processo di assistenza al ristabilimento di un ecosistema che è stato degradato, danneggiato o distrutto” (SER 2004).
  2431. Restauro forestale
  2432. -L'insieme delle azioni finalizzate a favorire il recupero da parte dell’ecosistema forestale della massima funzionalità ecologica potenziale” (SIRF 2014).
  2433. -Un’insieme di azioni che hanno per oggetto i popolamenti degradati con l’obiettivo di riattivare la funzionalità ecologica, e di fornire beni e servizi (Mercurio 2016).
  2434. Rete Natura 2000
  2435. Insieme di Siti di Importanza Comunitaria (SIC), Zone Speciale di Conservazione (ZSC) e Zone di Protezione Speciale (ZPS), creata dall’Unione Europea con la Direttiva 92/43/CEE per la protezione e la conservazione degli habitat e delle specie, animali e vegetali di interesse comunitario.
  2436. Riabilitazione
  2437. È una traduzione di rehabiliation che in Italia può avere un corrispondente nel più usato termine di “rinaturalizzazione”.
  2438. Rimboschimento
  2439. Ogni impianto eseguito mediante piantagione o semina di alberi, in terreni già occupati da boschi, con vari scopi: difesa del suolo, produzione di legno a cui possono aggiungere altre funzioni (turistico-ricreativa, paesaggistica, di fissazione della CO ecc).
  2440. Rinaturalizzazione
  2441. Una serie di azioni volte a indirizzare popolamenti transitori (es. rimboschimenti) verso cenosi riconducibili alla vegetazio e naturale potenziale s.l., più complesse dal punto di vista della composizione e struttura, e più funzionali.
  2442. Rinfoltimento
  2443. Impianto forestale eseguito su vuoti o radure per incrementare la densità o il grado di copertura di un bosco (Bernetti 2005).
  2444. Rinnovazione naturale
  2445. In selvicoltura si intende “il processo consistente nella comparsa di nuovi individui seguente un trattamento selvicolturale” (Serrada-Hierro 2003).
  2446. Ripresa
  2447. Quantità di massa legnosa media, annua, utilizzabile in un dato periodo.
  2448. Sciafila
  2449. Specie vegetale che predilige ambienti ombreggiati.
  2450. Selvicoltura
  2451. L’arte e la scienza di coltivare i boschi per soddisfare le esigenze dell’uomo, inclusa la produzione di beni e servizi, assicurandone nel tempo la funzionalità e la perpetuità.
  2452. Semenzale
  2453. Giovane piantina nata da seme in bosco (o in vivaio).
  2454. Serie di Vegetazione
  2455. Insieme di comunità vegetali o stadi che nel tempo si sviluppano all'interno di uno spazio ecologicamente omogeneo e che sono ra loro in rapporto dinamico. Include la vegetazione rappresentativa della tappa matura o testa di serie e le comunità iniziali o subseriali che la sostituiscono.
  2456. Sesto d’impianto
  2457. L’ordine geometrico con cui sono disposte le piante in una piantagione o rimboschimento.
  2458. Sistemi di eco-certificazione
  2459. Definiscono le condizioni di GFS, garantiscono il consumatore che i prodotti, derivanti da una data forma di gestione, rispettano determinati parametri di tutela ambientale (ed economico-sociale), consentono di aggiungere valore ai prodotti forestali.
  2460. Soprassuolo
  2461. Tratto di bosco che si differenzia da quelli circostanti per i caratteri di composizione, struttura, età, sufficientemente esteso per poter essere oggetto, durante tutto il ciclo produttivo, di interventi selvicolturali autonomi rispetto al bosco circostante (Piussi 1994).
  2462. Soprassuolo (popolamento) transitorio
  2463. Un bosco già governato a ceduo dove, sono state interrotte le normali ceduazioni e sono iniziati i diradamenti per l’avviamento all’alto fusto. La fisionomia è di una fustaia ma non l’ origine. Espressioni come “fustaia da pollone”, “fustaia su ceppaia”, o “fustaia transitoria “sono improprie sul piano biologico perché il popolamento è di origine agamica. Ossia si tratta di un popolamento che si trova in una fase di transizione: è un ceduo in procinto di divenire una fustaia quando, attraverso uno specifico intervento selvicolturale, la perpetutià sarà assicurata dalla rinnovazione da seme (origine gamica).
  2464. Stazione
  2465. Area ecologicamente omogenea.
  2466. Strato (di copertura)
  2467. Interessa gli alberi posti in uno stesso livello da terra verosimilmente di varie classi di età. Si distinguono popolamenti co : uno strato (monostratificato), due strati (bistratificato), più strati (multi -pluri- stratificato).
  2468. Struttura (del popolamento)
  2469. Definisce la distribuzione degli alberi di un bosco nello spazio verticale e orizzontale.
  2470. Successione ecologica
  2471. Processo dinamico di una comunità vegetale che vede la sostituzione di specie nel tempo, sullo stesso luogo, in relazione al mutamento delle condizioni biotiche ed abiotiche.
  2472. Taglio colturale
  2473. Di per sé significa un intervento selvicolturale che si prefigge di ricavare prodotti legnosi garantendo la perpetuità e la fu zionalità ecologica del bosco nel rispetto delle evidenze scientifiche. Tuttavia ha un preciso riscontro normativo:
  2474. -Le pratiche selvicolturali, i trattamenti e i tagli selvicolturali di cui all’articolo 3, comma 2, lettera c) eseguiti in conformità alle disposizioni del presente decreto ed alle norme regionali, sono equiparati ai tagli colturali di cui all’articolo 149, comma 1, lettera c) , del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. (art. 7 comma 13 TUFF-D.M. 34/2018).
  2475. -“Con l'espressione «taglio colturale», ai sensi e per gli effetti dell'articolo 149 del Decreto Legislativo 22 ge naio 2004, n. 42, si indicano i tagli condotti nel ciclo di coltivazione del bosco ed eseguiti in conformità agli strumenti di pianificazione forestale (piani di assestamento e gestione forestale, piani di coltura, piani di taglio) regolarmente approvati o, in mancanza di questi, alle disposizioni dettate dai relativi regolamenti”. (Regolamento Regionale 9 aprile 2020, n.2 comma 5 di attuazione della Legge Regione Calabria n. 45/2012).
  2476. Taglio fitosanitario
  2477. Rimozione (senza alcun intento colturale) di piante in piedi a scopo precauzionale, ancora viventi oppure morte sulle quali si riscontra uno stato di deperimento causato da avversità biotiche capaci di diffondersi nel restante soprassuolo.
  2478. Tagli intercalari
  2479. Sono interventi che precedono, nei boschi coetanei, i tagli di rinnovazione e comprendono: ripuliture, sfollamenti, diradamenti, tagli di preparazione.
  2480. Taglio di maturità o di rinnovazione del bosco
  2481. -Qualsiasi tipo di taglio di un popolamento che ha raggiunto i requisiti economici prestabiliti (Bernetti 2005).
  2482. -Si esegue alla fine del turno (per le fustaie coetanee) al fine di ritrarre un prodotto e favorire la perpetuazione del bosco attraverso l’innesco del processo della rinnovazione naturale o il reimpianto artificiale.
  2483. Taglio a raso
  2484. Taglio di maturità, che comporta l’abbattimento di tutte le piante di una fustaia o di tutti i polloni di un ceduo, in una superficie da utilizzare (particella forestale).
  2485. Taglio a strisce
  2486. Un taglio a raso che viene eseguito su strisce contigue, di forma rettangolare.
  2487. Taglio a buche
  2488. Un taglio raso su piccole superfici, in genere di forma circolare, che non supera 1500 metri quadrati. La rinnovazione può essere naturale per disseminazione laterale o artificiale.
  2489. Taglio saltuario
  2490. È il metodo di trattamento applicato alla fustaia disetanea. I singoli tagli si chiamano tagli di curazione, sono eseguiti a b evi intervalli di tempo (periodo di curazione) e comprendono sia i tagli colturali che di utilizzazione, in quanto si prelevano alberi di varia dimensione ed età al fine di raccogliere il prodotto legnoso, di conferire al popolamento una struttura disetanea e una mescolanza di specie equilibrata (nel rispetto di una curva di distribuzione delle piante secondo le classi diametriche detta della “norma”) e di favorire l’insediamento della rinnovazione da seme.
  2491. Tagli successivi
  2492. Sono tagli di utilizzazione e di rinnovazione che vengono frazionati nel tempo e si distinguono in: tagli di preparazione, tagli di sementazione, tagli secondari, tagli definitivi o di sgombero.
  2493. Tempo di permanenza
  2494. Il numero di anni in cui una specie può permanere in un popolamento senza subire palesi fenomeni di deperimento e conservando la sua influenza fisionomica (Bernetti 2005).
  2495. Tipologia forestale
  2496. "Sistema di classificazione delle formazioni forestali in unità floristico-ecologico-strutturali con finalità applicative quali quelle selvicolturali e gestionali" (Del Favero et al. 1990).
  2497. Tipologie crono-strutturali (fustaie monoplane)
  2498. -novelleto o posticcia (novelleto se di origine naturale, posticcia se di origine artificiale) è lo stadio di sviluppo giovanile del popolamento da età 0 fino al momento nel quale vengono a contatto le chiome;
  2499. -spessina rappresenta la fase intermedia tra il novelleto e la perticaia, caratterizzata da forte compenetrazione dei rami e impenetrabilità del bosco;
  2500. -perticaia è la fase giovanile che arriva fino al culmine dell’incremento longitudinale delle piante. In questa fase è forte la concorrenza tra le piante e comincia a manifestarsi il fenomeno della mortalità naturale (in assenza di opportuni sfolli e di adamenti) e dell’autopotatura delle chiome;
  2501. -giovane fustaia, il popolamento si presenta già strutturato e definito secondo proprie gerarchie sociali; diminuisce la conco renza e la mortalità naturale e può eventualmente cominciare una fase di ingresso di un piano sottostante di altre specie;
  2502. -fustaia adulta si intende un popolamento (in fase dinamica successiva al culmine dell’incremento corrente di altezza) ormai definitivamente strutturato da un punto di vista sociale;
  2503. -fustaia matura è un popolamento di età prossima a quella del turno, nel quale le dinamiche evolutive si sono definitivamente stabilizzate, pronto all’utilizzazione (si sono create condizioni favorevoli alla rinnovazione);
  2504. -fustaia stramatura è un popolamento che ha superato abbondantemente il turno previsto. Spesso si possono notare fenomeni di mortalità (schianti) con fallanze nella densità.
  2505. Trasformazione
  2506. È il cambiamento della forma di trattamento del bosco.
  2507. Trattamento
  2508. -Modalità esecutive dei tagli per l’utilizzazione e la rinnovazione del bosco.
  2509. -Sistema ordinato di operazioni, organizzate in modo da regolare l’evoluzione e la rinnovazione del bosco nell’ambito di una determinata forma di governo.
  2510. Turno (ciclo colturale)
  2511. -Numero di anni previsto per il taglio del bosco coetaneo.
  2512. -Numero di anni che intercorre tra la rinnovazione di un soprassuolo coetaneo e il taglio di maturità.
  2513. Utilizzazione
  2514. Comprende il taglio di abbattimento e le operazioni successive di allestimento ed esbosco del legname.
  2515. Valore ricreativo
  2516. Grado di attrattività di un popolamento forestale in relazione alle sue potenzialità turistico-ricreative.
  2517. Vegetazione
  2518. Insieme di comunità vegetali presenti in un determinato territorio.
  2519. Vegetazione Naturale Potenziale (VNP)
  2520. -“Stadio maturo della vegetazione in equilibrio con le attuali condizioni climatiche” (Tüxen 1956).
  2521. -“Vegetazione naturale che si forma in un dato sito nelle condizioni ecologiche ottimali e anche tenendo conto di eventuali fa tori di disturbo purché temporanei” (Pignatti 1994).
  2522. Vegetazione potenziale attuale
  2523. "Il tipo di vegetazione che rappresenta lo stadio più avanzato di una successione seriale all’interno di una data area biogeog afica” (Biondi 2011).