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Il pane e il cucchiaio
La storia detta due volte di Giuseppe Di Porto
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Il pane e il cucchiaio
La storia detta due volte di Giuseppe Di Porto
Informazioni su questo libro
«La fame la sentivo. Allora rischiavo Uscire dalle baracche di notte significava tentativo di fuga, venivi ucciso immediatamente. Io quattro o cinque volte sono uscito per andare a un porcile a rubare un pezzo, due pezzi di pane duri come un sasso, verdi, pieni di muffa, con gli escrementi dei maiali. Io rubavo questo pezzo di pane e me lo portavo nella baracca e me lo mangiavo. Questo per far capire la fame. A che punto siamo per la fame. Se avrà occasione di parlare con qualsiasi deportato, gli faccia 'sta domanda: mi dica sinceramente la verità: lei la sua razione di pane l'avrebbe data a un altro amico, fraterno, qualsiasi?». Dall'intervista di Alessandro Portelli a Giuseppe Di Porto
Giuseppe Di Porto nasce a Roma nel 1923. Preso nel rastrellamento degli ebrei a Genova, dove si era trasferito dopo le leggi razziali, è deportato ad Auschwitz, destinato al campo di Monowitz-Buna (lo stesso di Primo Levi). Dopo due anni, si salva durante la «marcia della morte» scappando verso il fronte. Entrato in contatto con l'Armata rossa, rientra in Italia nel 1945. La sua vita nel campo non è molto diversa da quella terribile degli altri deportati. Nel suo racconto, tuttavia, ci sono episodi carichi di significato, che hanno a che fare col pane, come cibo e come simbolo, e con un cucchiaio, utensile che nel campo assume un valore straordinario. Il pane torna di continuo nella sua storia: segno di quanto la fame fosse costante, capace di uccidere le persone nel corpo e nell'animo, tirandone fuori gli istinti più animaleschi. Lui la chiama «demoralizzazione»: una disumanizzazione che coinvolge le vittime, ma anche gli aguzzini. Una fame che induce a commettere azioni indicibili e a provare indicibili sentimenti di rabbia e negazione verso un Dio che non può esistere. A meno di un miracolo. Questo è il contesto del «fatto del cucchiaio» che costituisce la svolta cruciale della sua vita, ma che Giuseppe non racconterà subito, neppure nell'importante intervista rilasciata per la Usc Shoah Foundation. Vi darà voce solo in un'occasione, in dialogo con Alessandro Portelli. Una storia detta due volte non è mai detta allo stesso modo. E l'aneddoto, calato in un quadro narrativo più ampio, arriva a illuminare un'intera esistenza. Il lavoro di Alessandro Portelli e Micaela Procaccia porta alla luce una vicenda simbolica di perdita e ritrovamento della propria umanità, e al tempo stesso costituisce una riflessione su metodo e pratica della storia orale, sulla differenza fra «testimonianza» e «racconto» e sul processo della memoria. Raccontare e ascoltare la storia di questo ebreo, di quest'uomo semplice e insieme complesso, orgoglioso e insieme umile, è un modo per rivendicare in questo tempo di morte la dignità di una semplice umanità in cerca di pace e di uguaglianza per tutti.
Giuseppe Di Porto nasce a Roma nel 1923. Preso nel rastrellamento degli ebrei a Genova, dove si era trasferito dopo le leggi razziali, è deportato ad Auschwitz, destinato al campo di Monowitz-Buna (lo stesso di Primo Levi). Dopo due anni, si salva durante la «marcia della morte» scappando verso il fronte. Entrato in contatto con l'Armata rossa, rientra in Italia nel 1945. La sua vita nel campo non è molto diversa da quella terribile degli altri deportati. Nel suo racconto, tuttavia, ci sono episodi carichi di significato, che hanno a che fare col pane, come cibo e come simbolo, e con un cucchiaio, utensile che nel campo assume un valore straordinario. Il pane torna di continuo nella sua storia: segno di quanto la fame fosse costante, capace di uccidere le persone nel corpo e nell'animo, tirandone fuori gli istinti più animaleschi. Lui la chiama «demoralizzazione»: una disumanizzazione che coinvolge le vittime, ma anche gli aguzzini. Una fame che induce a commettere azioni indicibili e a provare indicibili sentimenti di rabbia e negazione verso un Dio che non può esistere. A meno di un miracolo. Questo è il contesto del «fatto del cucchiaio» che costituisce la svolta cruciale della sua vita, ma che Giuseppe non racconterà subito, neppure nell'importante intervista rilasciata per la Usc Shoah Foundation. Vi darà voce solo in un'occasione, in dialogo con Alessandro Portelli. Una storia detta due volte non è mai detta allo stesso modo. E l'aneddoto, calato in un quadro narrativo più ampio, arriva a illuminare un'intera esistenza. Il lavoro di Alessandro Portelli e Micaela Procaccia porta alla luce una vicenda simbolica di perdita e ritrovamento della propria umanità, e al tempo stesso costituisce una riflessione su metodo e pratica della storia orale, sulla differenza fra «testimonianza» e «racconto» e sul processo della memoria. Raccontare e ascoltare la storia di questo ebreo, di quest'uomo semplice e insieme complesso, orgoglioso e insieme umile, è un modo per rivendicare in questo tempo di morte la dignità di una semplice umanità in cerca di pace e di uguaglianza per tutti.
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Informazioni
Argomento
StoriaCategoria
Biografie in ambito storicoIndice dei contenuti
- Copertina
- Abstract
- Biografia
- Frontespizio
- Copyright
- Indice
- Introduzione
- Pane e lavoro: il miracolo. di ridiventare umani. di Alessandro Portelli
- La parola al testimone. di Micaela Procaccia
- Per ricordarvi della mia presenza. di Alessandro Portelli
- La storia detta due volte