Cazzi miei
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Gianna Nannini

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Cazzi miei

Gianna Nannini

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"Ci ho lavorato ma è dura in tour, come sai, due ore e mezzo di concerto e nei giorni off poi sono senza forze. Ma è bellissimo, mai stata così!… Mentre sto scrivendo, sento i polpastrelli sbriciolarsi dalla voglia che ho di raccontare." Così scriveva l'autrice di questo libro al suo editor che le chiedeva notizie. Eh sì, Gianna ci ha lavorato eccome, al suo testo, e in quella lettera confessava emozionata tutta la sua gioia di scriverlo. Cazzi miei, lo scoprirete leggendolo, è molto più di un libro autobiografico, molto più di una confessione: è una seduta di psicoterapia. Frenetica, drammatica, violenta e autolesionista.

Il dialogo è tra lei, china sul computer, e se stessa, la Nannini innocente e vulnerabile dei primi anni Ottanta, travolta dal successo di Fotoromanza e dalle pretese dell'industria discografica. Ma è anche un dialogo tra lei e i suoi fan, il suo pubblico adorato, i suoi lettori. Ai quali sente il bisogno di raccontare le sue "morti" e le sue rinascite, i momenti bui, le paranoie, gli incubi, la lunga scia di incidenti, gli inevitabili conflitti familiari, la lotta senza quartiere contro un misterioso Qualcuno che vuole distruggerla. E infine l'approdo a un equilibrio, la riappacificazione con la vita, la gioia indescrivibile di mettere al mondo una figlia…

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TERZA VITA NUOVA

Eccomi in Giappone.
E, per ritrovare la mia femminilità, repressa durante l’adolescenza, decido di prendere lezioni di kabuki, alta forma di teatro danza in cui però gli attori possono essere soltanto uomini.
Comunque, la mia insegnante di kabuki è una donna, perché sono le donne a insegnare agli uomini a essere donna. Le donne, qui in Giappone, hanno molto rispetto dell’altro sesso e, andando oltre il mito delle geishe, una personalità ben definita.
Chi potevo trovare di meglio, io, che spesso venivo considerata un tipo mascolino?
Io voglio essere al cento per cento tutti e due i sessi, penso, perché al cento per cento tutti e due mi sento.
E così per un mese seguo le pesanti lezioni “medievali” di questa danza-teatro: per l’esattezza venti lezioni di “Lion Dance”. Senza dormire o quasi, perché ogni sera mi mangio il gelato al tè verde.
Ma non ho più paure, solo coraggio.
La maestra è stupenda, è completamente rapita da me, si esalta, chissà come mi vede. E una sera mi invita a casa sua, dove mi serve il tofu fatto in casa: una bontà unica. Buonissimo.
E intanto mi affina nell’arte del kabuki, insegnandomi anche a camminare tenendo in mano il ventaglio.
Per una come me, che viene dalle arti marziali come il karate e il tai chi, col kabuki comincio a camminare come una piuma.
«Se riesci a mettere femminilità nei tuoi gesti» mi dice lei «sarai ancora più forte.»
Con l’arte di usare il ventaglio mi sembra di imparare a scacciare via il nero intorno a me. Lo apro e lo chiudo, assaporo il suo suono, lo sventolo delicatamente come una poesia nell’aria, con quel modo di muovermi senza che nessuno si accorga che mi muovo, un modo che io, da elefante cucciolo che sono, faccio fatica a comprendere.
Lei mi vede possente, marziale. D’altronde le arti che ho imparato a Milano per difendermi da sola a qualcosa saranno servite.
E in questa meravigliosa Tokyo che mi entra nello sguardo, tutta stirata di effetti di luce dalla mattina alla sera, io rovesciata dentro e senza dormire mai, incontro Hiromi Ito, in arte Phew, un’artista elettro-noise che viene dal punk e di cui Conny Plank aveva prodotto il disco. Il suo era l’unico indirizzo che avevo.
Un incontro pazzesco.
Arriva camminando su due piedi che volano, e con in mano un cestino di fiori, stile Ikebana. Poi fa un inchino, compita, il che, per un giapponese, vuol già dire grande affetto.
Io provo a salutarla con un bacio-e-abbraccio all’italiana, ma vedo che non è abituata.
Le dico che, per prima cosa, vorrei vedere uno spettacolo di teatro no¯ o di kabuki.
Fa una faccia tipo “oh no, veramente?”. Un misto tra un “che schifo” alla giapponese e “mi ero dimenticata che esisteva questo tipo di teatro”.
Ma poi sorride. «Va bene.»
Mi fissa ancora un po’, crede che l’idea non mi divertirà, ma io insisto che mi interessa, e alla fine prenota.
Arriva a prendermi all’hotel con tante scatoline di sushi.
Le dico: «Grazie, non ho fame...».
«Ma no» mi fa lei, «servono a teatro.»
«Ah, okay.»
Lo spettacolo, infatti, dura quattro ore, non finisce mai. E a ogni intervallo tutti mangiano, almeno tre volte. Così pure io mi adeguo e mangio.
La sera tutt’altro programma: andiamo a vedere un gruppo punk che suona.
Che sballo, sono ritmi tiratissimi, simili a quelli di certe band che avevo sentito in Germania, ma sembrano strani.
Dico a Hiromi: «Ma voi come sentite il battere e il levare?».
«Oh, sorry, io non ci penso mai.»
«Ma voi lo sentite tutto in quattro? Avete gli accenti? Andate in tre o in sei? Gli stornelli ce li avete anche voi?»
Ride. «I am, hu/hu/hu!», e fa il gesto con il braccio in avanti, in one senza two.
«Ah, tutto in battere come punto forte principale?»
«Sì, me too
Le faccio un esempio del mio ritmo toscano.
E ride ancora. Ah ah, sì quello anche qui, prima, dice, «but now here only four/four».
“Tradizione”, parola in estinzione.
Infatti, chi se ne frega della tradizione? No, a noi ce ne frega. Ride, ci tiene ma ha perso la speranza, o meglio no, non del tutto. Infatti quasi piange quando mi racconta che lei, dopo aver litigato con Ryu¯ichi Sakamoto, ha poi trovato se stessa e il suo paese grazie a Conny Plank e Moebius.
Dopo qualche giorno io e Hiromi ci troviamo nel mio albergo a Tokyo per una session insieme con un pianoforte elettrico, che mi sono fatta arrivare.
Entra e mi dice: «Questo non è un hotel giapponese, è un hotel fatto per gli occidentali».
«Ah bene» faccio io, «allora magari mi fai vedere uno veramente giapponese, io non voglio fare la turista.»
Intanto Hiromi prova a improvvisare con la voce. Vorrei scrivere una canzone con lei, ma mentre l’accompagno mi accorgo che non c’è una tonalità a cui fa riferimento, e penso che probabilmente il suo è un tradizionale modo giapponese di sentire la musica e che ha difficoltà ad adeguarsi al concetto di tonalità occidentale. Forse prende dei quarti di tono, sento, e infatti perché non cantare anche i quarti di tono, che un pianoforte non ha, ma il moog, il synth, per esempio, sì?
E poi dicono che c’è gente stonata... Non è vero, non esiste lo stonato, lo stonato è solo una persona a cui hanno rubato la propria cultura per sostituirla con un indottrinamento musicale.
Intanto si prende un treno velocissimo che porta a Kyoto in un batter d’occhio.
Hiromi parla poco, mi spiega però com’è il Giappone, mi fa conoscere il cibo vero, non quello che si trova nei ristoranti in Europa, e mi porta nei templi e nei giardini zen, mi fa conoscere il Silenzio e il rapporto che i giapponesi hanno con la morte. Un rapporto di accettazione, in cui la morte è una cosa normale, di vita quotidiana.
I giapponesi non hanno paura di morire, mi racconta, o almeno lei non ce l’ha, e la religione non è una religione, è una celebrazione, e la si pratica anche nella vasca da bagno, quando si ha un momento in cui si può finalmente pensare a se stessi. Almeno, lei fa così.
Mi dice che Conny ha combattuto troppo contro il cancro, l’ha preso di punta, come sfida.
Anche lei, come me, con la sua scomparsa si è trovata senza un riferimento, lui era l’unico che aveva capito il suo modo di cantare e difeso la sua cultura.
«Ci manca molto» diciamo, e facciamo un brindisi col sake nei bicchieri quadrati di legno.
Si beve e ci si rilassa, in questo albergo di Kyoto dove le camere sono veramente giapponesi.
«Bello» le dico io mentre mi stendo sul tatami. Non c’è un letto, no, il letto è rasoterra, e mi accorgo che le pareti di carta di riso disegnano non-confini.
Le chiedo: «Ma qui, scusa, non ci sono pareti? Si dorme tutti insieme?».
«No, non ci sono. Guarda lì per terra, c’è il tatami, quello è il letto, e io dormo poco distante. Là» mi indica.
«Ah, va bene, buonanotte allora.»
Mi giro e mi rigiro, e nella notte sento un odore di bruciato.
«Aiuto, che succede?»
Mi guardo intorno e c’è Hiromi, seduta con tanti piccoli vulcanini che fumano su tutte e due le sue braccia aperte e rivolte verso l’alto.
«Oh Hiromi, ma che fai?»
Dice: «Non ho sonno e uso questo sistema per cercare di dormire».
Boh, non capisco, penso, e mi rimetto a dormire.
Al mattino ci aspetta un’altra giornata in giro a conoscere il suo mondo, con la sua ospitalità simile a quella dei siciliani che, in modo sempre unico, ti offrono quello che hanno della propria terra.
Nel frattempo io e Hiromi ci conosciamo meglio, e vedo che lei si apre un po’. Mi racconta del fidanzato che sta per sposare, ma ci divorzia già mentre mi dice che è un maguro, parola giapponese che sta per “tonno”, e dice che lo lascerà proprio perché troppo maguro, e poco sensibile. Insomma, da noi diresti un “ottuso”. Ce la ridiamo a pensare al suo fidanzato come a un pesce, con lei che ha cambiato idea e non ci vuole più andare a nozze.
Insomma, tutto il mondo è paese, e non mi piace dire “i giapponesi”, “i tedeschi”, “gli americani”, “gli italiani”, “i maschi”, “le femmine”, ecce...

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