Sul mio corpo
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Sul mio corpo

Emily Ratajkowski

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Sul mio corpo

Emily Ratajkowski

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Emily Ratajkowski è una modella famosissima, un'attrice, un'attivista politica di sinistra, una formidabile imprenditrice, un fenomeno mediatico e social internazionale tra i più seguiti.
Sul mio corpo è un'autobiografia sincera che racconta l'ascesa della protagonista nel jet set americano e allo stesso tempo una esplorazione profonda sul femminismo, sul ruolo della donna nelle nostre società, sulla sessualità, sul potere che essa determina, sulla maniera in cui gli uomini trattano le donne e sulle donne vittime dei comportamenti che gli uomini riservano loro. Partendo dal suo vissuto e da alcune traumatiche esperienze personali nel corso dell'adolescenza e poi della sua prima vita adulta - uomini che l'hanno delusa, offesa, umiliata, amata, oggettivizzata -, Emily ci offre una riflessione mai banale su che cosa sia oggi la bellezza femminile e quali siano i feticci che crea, sulle ossessioni del corpo, sulle dinamiche pericolose e manipolatorie del mondo della moda e del cinema, sulla linea di confine tra consenso e abuso che molti "maschi" fanno finta di ignorare.
Un'opera sorprendente e consapevole che tocca i temi più attuali del dibattito pubblico, riguardo le donne, il femminismo (o neo-femminismo) e il potere degli uomini.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858527924

Ricomprare me stessa

Il primo marito di mia madre, Jim (che fino a otto anni avevo creduto uno zio), aveva impostato un Google Alert su di me. Ogni volta che venivo citata da un sito di notizie – ammesso di poter definire così le testate di gossip – lui riceveva una notifica. Le sue intenzioni erano buone: voleva mantenere un rapporto con me e credeva che quegli alert servissero allo scopo.
Un giorno ero a Tompkins Square Park, a sorseggiare caffè da asporto mentre passeggiavo con un’amica e il suo cane, quando ricevetti un messaggio. «Ho visto che ti hanno querelata. Il mio consiglio...» scriveva Jim. Da avvocato, la gente lo chiamava di continuo per un parere legale, perciò si era abituato a dispensarne anche di non richiesti. «Immagino che certi inconvenienti facciano parte del gioco, quando sei un personaggio pubblico» scrisse, in un messaggio successivo.
Forse, pensai io.
Sedetti su una panchina, inserii il mio nome su Google e scoprii che era vero: questa volta la denuncia era per aver postato su Instagram una foto di me scattata da un paparazzo. L’indomani appresi dalla mia legale che pur essendone il soggetto involontario, la foto di fatto non mi apparteneva. A presentare l’esposto era stato un avvocato noto per una sfilza di cause identiche, tanto che in tribunale lo chiamavano “troll del copyright”. «Chiedono centocinquantamila dollari di danni per il tuo “utilizzo” della foto» mi informò, con un sospiro rassegnato.
Nella fotografia, reggo in mano un gigantesco vaso di fiori che mi copre completamente la faccia. Li avevo comprati per il compleanno della mia amica Mary, in un negozio dietro l’angolo del mio vecchio appartamento di NoHo. Mi ero occupata da sola della composizione, scegliendo io stessa i fiori e spiegando alle commesse al bancone che la mia amica compiva quarant’anni. «Voglio che il bouquet la rappresenti!» avevo detto, aggiungendo un rametto di limone.
Lo scatto fatto dal paparazzo mi piaceva, ma non perché ritraesse me. Nell’immagine non mi si riconosceva nemmeno; si vedevano soltanto le mie gambe nude sotto una giacca classica di tweed, taglia extralarge. Al posto del busto e della testa c’è il mazzo sconclusionato, come se ai fiori fossero spuntate due gambette magre con un paio di sneaker bianche e polverose e fossero andati a farsi un giretto in centro.
Quando la foto era comparsa online, l’avevo inviata a Mary, con il messaggio: «Adesso vorrei proprio avere un mazzo di fiori al posto della testa».
«Ah! Anch’io» aveva risposto subito lei. Qualche ora dopo avevo postato lo scatto su Instagram, sotto una didascalia a grandi caratteri bianchi: «MOOD FOREVER».
I paparazzi avevano iniziato a puntarmi nel 2013, da Blurred Lines, e ce n’era sempre qualcuno appostato davanti a casa mia. Ormai non mi sorprendevo più di vedere uomini corpulenti che sbucavano all’improvviso tra due macchine o da dietro l’angolo della strada, con un obiettivo che copriva loro la faccia. Avevo pubblicato quella foto perché mi pareva la prova del mio buon rapporto con i fotografi, invece mi ero beccata una querela. Mi capita più spesso di vedermi attraverso l’obiettivo di un paparazzo che di guardarmi allo specchio.
Ma ho imparato che la mia immagine, il mio riflesso, non appartiene a me.
Un ragazzo con cui stavo parecchio tempo fa diventò amico di un tizio che lavorava per un’importante galleria d’arte, il quale ci informò di un’imminente personale di Richard Prince, intitolata Instagram Paintings. Di fatto, i cosiddetti “dipinti” erano soltanto immagini di post di Instagram, commentate dall’artista dal suo account e stampate su tele sovradimensionate. Una di quelle immagini ritraeva me: una foto in bianco e nero in cui sedevo nuda e di profilo, con la testa appoggiata a una mano e gli occhi socchiusi, ammiccanti. Era stata scattata per la copertina di una rivista.
Tutti, compreso il mio fidanzato, sembravano ritenere che dovessi sentirmi onorata di essere stata inclusa nella mostra. Richard Prince era un artista di grido, perciò dovevo essergli grata di aver giudicato la mia immagine degna di una sua opera. Era un riconoscimento. E una parte di me era davvero onorata. Avevo studiato arte alla UCLA e apprezzavo il taglio “alla Warhol” con cui Prince aveva approcciato Instagram. Ciò detto, io mi guadagno da vivere posando per le foto e non mi sembrava giusto che un artista celebre e quotato, il cui lavoro veniva pagato infinitamente più del mio, si sentisse in diritto di soffiarmi un post Instagram e di rivenderlo come proprio.
I suoi quadri erano valutati a ottantamila dollari l’uno, e il mio ragazzo voleva comprare quello con la mia foto. Al tempo io avevo appena risparmiato a sufficienza per pagare metà dell’anticipo sul nostro primo appartamento insieme. Ero lusingata dal suo desiderio di acquistare il quadro, ma non sentivo il bisogno di possederlo. Mi sembrava strano che lui o io dovessimo pagare per ricomprare un mio ritratto, e soprattutto una foto che io stessa avevo postato su Instagram, una piattaforma che fino ad allora avevo considerato l’unico posto al mondo in cui ero io a controllare il modo in cui mi presentavo agli altri, un santuario alla mia autonomia. Se avessi voluto vedere quella foto tutti i giorni, bastava collegarmi al mio account.
Qualche giorno dopo, con grande delusione del mio fidanzato, l’amico gallerista gli scrisse per informarlo che un grosso collezionista aveva già fatto un’offerta.
Il gallerista l’avevo incontrato un paio di volte, ma avevamo un mucchio di conoscenze in comune, perciò non impiegai molto a scoprire che fine avesse fatto quell’opera. La gigantografia era appesa sopra il divano del suo appartamento nel West Village.
«È un po’ imbarazzante» commentò una mia amica in merito alla collocazione della foto. «Ci sei tu, completamente nuda, appesa al muro, e lui seduto sotto.»
Scoprimmo però che nella serie Instagram Paintings c’era anche un altro mio ritratto, ancora disponibile. Era la riproduzione della mia prima apparizione su «Sports Illustrated». Mi avevano pagata centocinquanta dollari per quel servizio e un paio di migliaia all’uscita della rivista, per l’“utilizzo” della mia immagine. Io avevo detestato quasi tutte le foto, perché non mi somigliavano affatto: il trucco era troppo pesante, avevo troppe extension e i responsabili della redazione continuavano a insistere perché mi stampassi in faccia un sorriso posticcio. Invece mi piacevano le immagini in body paint, e ne avevo postata una, la stessa poi riutilizzata da Prince nel suo “dipinto”.
Il commento dell’artista a quel post, riprodotto insieme a parecchi altri nella parte inferiore della tela, allude a una giornata sulla spiaggia che immaginava di aver passato con me: «Sei stata sincera. Hai perso [
]. Nessun problema. Nessun dolore. Sei piena di energia, ora che splende il sole». Mi piaceva più del commento al ritratto in bianco e nero: «Sei stata costruita in laboratorio da un’équipe di maschi adolescenti?».
Quando venni a sapere che potevamo ancora comprarci quel quadro, di colpo mi sembrò importante diventarne quantomeno coproprietaria: io e il mio fidanzato l’avremmo acquistato direttamente dall’artista, pagandolo metà per uno. Mi piaceva l’idea di inaugurare una collezione d’arte, e un pezzo firmato da Prince mi sembrava un buon investimento. Il guaio era che non riuscivo a immaginare di non poter accampare pieni diritti su un oggetto che avrei appeso nella mia casa. Sapevo che il mio fidanzato la considerava una sorta di conquista: si era impegnato parecchio ad aggiudicarsi quell’opera. Dimostragli un po’ di gratitudine, dissi a me stessa. Accontentati di possederlo a metà con lui. E poi avevo solo ventitré anni: non guadagnavo abbastanza da spendere con disinvoltura ottantamila dollari per un quadro.
Quando il pezzo ci fu consegnato, ero seccata. Avevo letto online che altri soggetti degli Instagram Paintings avevano ricevuto in dono dall’artista copie più piccole, bozze dell’opera finale. Il mio fidanzato chiese una copia per me e qualche mese dopo il mio regalo arrivò. Era una stampa di sessanta centimetri in cornice, e rappresentava uno scatto diverso da quello del pezzo più grande che avevamo comprato, ma io sentii comunque un senso di rivalsa.
Circa un anno e mezzo dopo, quando la relazione finì, io diedi per scontato che il mio ex non avrebbe voluto quella tela: a che scopo tenersi in casa una mia gigantografia, ora che non stavamo più insieme? Come previsto, quando spartimmo i nostri averi, compresi gli oggetti d’arte comprati insieme, io diventai titolare del Prince, in cambio di altre due opere.
Ma a distanza di qualche settimana mi svegliai di soprassalto, nel cuore della notte, a denti digrignati. Mi ero resa conto di non aver recuperato la “bozza” in bianco e nero. Il mio ex disse che gli era «sfuggito di mente» e che era finita in deposito. Scambiammo una serie di email, finché lui dichiarò che gli dovevo diecimila dollari per averla, un prezzo che aveva calcolato in base alla sua «conoscenza del mercato».
«Ma era un regalo per me!» scrissi, di rimando.
Mi rivolsi all’atelier di Prince. Potevano darmi chiarimenti o una qualche assistenza? Aiutarmi a dissuadere il mio ex da quella ridicola pretesa di riscatto? I miei contatti mi garantirono che l’atelier avrebbe confermato al mio ex che lo studio era stato un dono di Prince, destinato solo ed esclusivamente a me. Lui non reagì bene.
Tutti quegli uomini, alcuni che avevo conosciuto intimamente, altri mai visti in vita mia, discutevano tra loro su chi fosse titolare di una mia immagine. Stavo ancora soppesando le alternative quando mi venne in mente che nel corso della relazione, durata tre anni, il mio ex aveva collezionato innumerevoli miei nudi sul cellulare.
Ripensai a un episodio capitato un paio di anni prima. Ero sdraiata sul bordo di una piscina, sotto il sole bianco di Los Angeles, quando un’amica mi inviò un link al sito 4chan. Un utente annunciava la pubblicazione di centinaia di foto intime, sottratte a iCloud con l’espediente del phishing. Il sito elencava una sfilza di attrici e modelle i cui nudi sarebbero apparsi senza autorizzazione su internet. I riflessi del sole sulla superficie dell’acqua mi accecavano, costringendomi a strizzare gli occhi mentre scorrevo dieci, venti, cinquanta nomi. Ed ecco il mio, scritto nero su bianco, come sul registro dell’appello a scuola: una cosa così semplice, come se non significasse niente.
A distanza di pochi giorni, le foto diventarono di dominio pubblico. Immagini destinate solo a una persona che mi amava, inviate sulla base di un patto di fiducia e intimità, erano diventate oggetto di febbrili scambi online e venivano discusse in forum dove le si votava come più o meno “sexy”. La scrittrice Rebecca Solnit ha affrontato la questione del messaggio implicito comunicato dal revenge porn: «Credevi di avere un cervello, invece sei solo un corpo; credevi di avere una vita pubblica, ma noi useremo la tua vita privata per sabotarla; credevi di avere potere, perciò adesso verrai distrutta». Accadde anche a me. Persi cinque chili in cinque giorni e, una settimana dopo, anche una ciocca di capelli, che mi lasciò un perfetto cerchio di pelle bianca sulla nuca.
L’indomani feci il bonifico al mio ex. Avevo troppa paura di rivivere l’esperienza, temevo che mi avrebbe annientata. Comprai la riservatezza di quelle centinaia di Emily con un’unica immagine, un’immagine sottratta da un uomo al mio account e riprodotta come sua rinomata e costosa opera d’arte.
Appesi l’Instagram Painting con lo scatto dal servizio per «Sports Illustrated» in bella mostra su una parete della mia nuova casa di Los Angeles. Appena lo vedono, i miei ospiti corrono subito a guardarlo da vicino, strillando: «Oooh, ne hai uno anche tu!».
Incrociano le braccia sul petto, scrutano il quadro, leggono il commento di Prince, e sorridono. L’altro commento sopra il suo è di un utente sconosciuto, e spesso si voltano a chiedermi se so cosa significhi. «È in tedesco?» riflettono ad alta voce, chinandosi e stringendo gli occhi.
Alla fine mi stancai di sentir ripetere la stessa domanda e decisi di tradurlo.
«Dice che ho le tette mosce» spiegai a mio marito, che adesso vive con me. Lui si avvicinò, mi abbracciò da dietro e mi bisbigliò all’orecchio: «Per me sei perfetta». Senza volerlo, mi irrigidii. Avevo imparato che persino l’amore e l’apprezzamento di un uomo di cui mi fidavo potevano trasformarsi in possessività. E io mi sentivo protettiva nei confronti della mia immagine. Nei confronti di lei. Di me.
Quando mi chiesero di nuovo cosa dicesse il commento, mentii, rispondendo che non ne avevo idea.
Nel 2012, la mia agente mi disse di prendere un pullman alla Penn Station per andare nelle Catskills. All’arrivo avrei trovato il fotografo, un certo Jonathan Leder, e avrebbe pensato lui a rimborsarmi il costo del biglietto. L’agente mi aveva organizzato un servizio fotografico a Woodstock, per una rivista alternativa di cui non avevo mai sentito parlare, «Darius». Precisò che avrei passato la notte a casa del fotografo. Nell’ambiente, quel tipo di servizio è detto “redazionale”: la rivista pubblica le tue foto e il tuo compenso è la “visibilità”.
Lavoravo a tempo pieno con quell’agente da circa due anni. Ci eravamo conosciute quando io ne avevo quattordici, ed era stata lei a procurarmi i miei primi ingaggi da modella e attrice, ma cominciò davvero a interessarsi alla mia carriera quando avevo circa vent’anni. A quel punto anch’io avevo cominciato a prendere più sul serio il lavoro, rinunciando a frequentare la UCLA per dedicarmi solo a quello, e ottenendo ingaggi con una certa regolarità. Mi ero dotata di un piano pensionistico privato e avevo saldato la retta del mio unico anno di università. Non che ancora mi capitassero servizi importanti o prestigiosi, solo foto di e-commerce per siti tipo Forever 21 e Nordstrom, ma guadagnavo più delle amiche che lavoravano come cameriere o commesse. E mi sentivo libera: libera dai capi stronzi cui dovevano sottostare loro, libera dal debito universitario, libera di viaggiare, di mangiare al ristorante più spesso o in generale di vivere come diavolo mi pareva. Mi sembrava assurdo aver pensato che l’istruzione valesse più della sicurezza economica offerta dal lavoro di modella.
Cercai di farmi un’idea dello stile di Jonathan con una ricerca online, e trovai qualche scatto dei suoi redazionali di moda. Noiosetto, ricordo di aver pensato. Aspirante hipster. Su Instagram postava perlopiù foto della sua casa, e qualche strana immagine rétro di una ragazza russa, dall’aria giovanissima e con prominenti seni rifatti. Bizzarro, mi dissi, ma avevo visto di peggio. Magari queste sono solo le foto che mette su Instagram. Quelle trovate su Google erano abbastanza carine e meno esplicite. Nulla di sconveniente. Non mi presi la briga di indagare oltre. Comunque era la mia agente a gestire la mia carriera: io eseguivo gli ordini e in cambio lei si occupava di rimpinguare il mio curriculum, per permettermi di ottenere più lavori e farmi un nome nell’ambiente.
Come promesso, Jonathan venne a prendermi alla stazione dei pullman di Woodstock. Era basso, magro e con indosso un paio di jeans e una maglietta. Mi manifestò un totale disinteresse, senza degnarmi di uno sguardo durante il viaggio sulla sua auto scassata lungo strade fiancheggiate da campi di erba alta. Dava l’impressione di appartenere alla categoria degli artisti nervosi, nevrotici. Era molto diverso dagli altri fotografi “di moda” che avevo conosciuto fino ad allora, in genere degli autentici stronzi targati LA, con strategici colpi di sole ai capelli e grondanti acqua di colonia dolciastra.
Io indossavo un top senza maniche infilato negli shorts a vita alta e, seduta in macchina, fissavo la peluria bionda sulle mie cosce che si accendeva di riflessi alla luce del sole. Jonathan non si girò mai a guardarmi, ma ricordo che mi sentivo osservata, consapevole della nostra vicinanza, del mio corpo e di come potevo apparire ai suoi occhi. Più lui ostentava indifferenza e più io sentivo il bisogno di dimostrarmi degna della sua attenzione. Sapevo che il giudizio dei fotografi era importante per costruirmi una buona reputazione. Mi considera intelligente? Particolarmente carin...

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