La Grande Italia
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Il mito della nazione nel XX secolo

Emilio Gentile

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Il mito della nazione nel XX secolo

Emilio Gentile

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Alla fine del Novecento fu annunciata in Italia la 'morte della patria'. All'inizio del 2000 ci fu una rinascita del mito della nazione, ma molti temono tuttora la perdita dell'identità nazionale. Gli italiani, in realtà, non hanno mai avuto una comune idea di nazione, anche se fin dal Risorgimento, per oltre un secolo, il mito di una Grande Italia ha influito sulla loro esistenza. Sono state molte le Italie degli italiani, divisi da ideologie antagoniste, sfociate talvolta in guerra civile. Con un'analisi rigorosa e avvincente, unica nel suo genere, Emilio Gentile narra la storia del mito nazionale nelle sue varie versioni, durante il moto risorgimentale, lo Stato liberale, la Grande Guerra, il fascismo, la Resistenza e la Repubblica, fino a scoprire le ragioni per le quali, dalla metà del secolo scorso, la nazione è scomparsa di nuovo dalla vita degli italiani. Per riapparire talvolta, ancora oggi, ma con un incerto futuro.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858147658

XVIII
Le Italie dell’Italia repubblicana

I reduci del fascismo

Fra i motivi della rivalutazione del mito nazionale, da parte dei partiti fondatori della Repubblica, vi era stato anche il proposito di impedire che il retaggio del sentimento patriottico presente, nonostante tutto, nella coscienza degli italiani potesse essere sfruttato dai movimenti neofascisti per delegittimare il nuovo Stato.
I timori per la rinascita di un nazionalismo di ispirazione fascista non erano infondati. Infatti, in primissima fila, fra gli apologeti della nazione nell’Italia repubblicana, anche se in posizione del tutto isolata, troviamo coloro che avevano militato nella Repubblica sociale e tutti quelli che erano rimasti idealmente fedeli ai miti del fascismo. L’atteggiamento di quanti tornarono alla milizia politica fu, in un certo senso, simile a quello dei mazziniani dopo l’unificazione: i neofascisti si consideravano stranieri in uno Stato nel quale vedevano incarnato il tradimento ai danni della nazione, in cui essi si identificavano.
Sorti all’indomani della fondazione della Repubblica, i movimenti neofascisti miravano a far leva sul risentimento per la sconfitta, sull’umiliazione per il trattato di pace e per la questione di Trieste, sulle difficoltà del nuovo regime, sulla litigiosità dei partiti, sulla minaccia del comunismo e sull’evocazione nostalgica dei trionfi del regime, per alimentare un nuovo nazionalismo contro la Repubblica antifascista. Gran parte dei reduci del fascismo si era riorganizzata in partito, dando vita al Movimento sociale italiano, con la pretesa di essere gli unici interpreti, i soli rappresentanti autentici della «vera Italia», contro la «falsa Italia» antifascista. Il Movimento sociale era «il partito della patria»1, «l’unico partito politico depositario dell’idea dello Stato Nazionale unitario e indipendente»2. Per i neofascisti, lo Stato repubblicano non aveva alcuna legittimità: era un regime politico nato dal tradimento perpetrato contro la nazione l’8 settembre, messo su da partiti antinazionali, che avevano operato contro la patria, avevano collaborato con il nemico per la sconfitta della nazione in guerra, e avevano sfasciato lo Stato nazionale per ricostruire sulle sue rovine, con l’aiuto dello straniero, uno Stato senza nazione, asservito agli Stati Uniti o all’Unione Sovietica.
Nei reduci del fascismo, il mito nazionale si manteneva vivo così come essi l’avevano sentito e concepito in passato, anche se ora il loro nazionalismo non era più alimentato dall’entusiasmo per la modernità e forse neppure dalla fede nel futuro dell’Italia come grande potenza. La dissociazione del mito nazionale dal mito del nazionalismo modernista è forse l’elemento più significativo nell’ideologia del neofascismo, fortemente intriso di nostalgia per una perduta grandezza. In molti reduci del fascismo, il mito nazionale era congiunto al rimpianto per l’ideale di una Grande Italia, così come essi l’avevano vagheggiata nei loro giovanili sogni di potenza, sorretti allora dalla visione di una nazione che camminava con orgoglio e con baldanza a fianco delle grandi potenze, con l’ambizione di competere con esse e superarle. Alla nostalgia del passato si univa il disprezzo per il presente, per l’Italia sconfitta, annullata nel suo prestigio, mutilata nel suo territorio, governata da partiti che si erano installati al potere passando sul corpo lacerato della patria, relegata fra le nazioni che nulla contavano nella politica internazionale.
Principale collettore del neofascismo, il Movimento sociale elaborò la sua ideologia mescolando varie correnti discendenti dal fascismo del regime e dal fascismo della Repubblica di Salò, che convissero tumultuosamente al suo interno, con scontri anche aspri: ma il caposaldo ideologico rimase, per tutto il neofascismo, il primato del mito nazionale o, come lo definiva Costamagna, il «dogma della nazione», precisando che «è soltanto alla stregua di una dogmatica nazionale che noi possiamo differenziarci da tutti i partiti dello schieramento democratico, ciascuno dei quali, sia pure in modo diverso, ora sopranazionale, ora antinazionale, nega il principio della nazione»3. Ostentando la loro fedeltà al fascismo e alla sua eredità ideologica, i militanti del Movimento sociale non esitavano a definirsi «nazionalisti», ripetendo alla lettera la concezione fascista della nazione come «una unità morale, politica ed economica che trova la sua piena realizzazione nello Stato, ente politico ed etico per eccellenza»4. Di conseguenza, il neofascismo osteggiò qualsiasi progetto di decentramento regionale, vedendovi un attentato all’unità della nazione, così come sosteneva il necessario primato dell’autorità dello Stato, che «trascende gli individui ed è il depositario degli interessi permanenti e della perenne volontà di vita della nazione»5.
La nazione e il nazionalismo costituivano tuttora, per i neofascisti, le forze motrici della storia, anche quando, come nel caso della Russia comunista, il nazionalismo assumeva le vesti ideologiche dell’internazionalismo. Nel confronto fra nazione e comunismo, sosteneva nel 1949 Augusto De Marsanich, è sempre «la nazione ad assorbire e superare il comunismo». Nel definire il suo nazionalismo, il partito neofascista volle tuttavia distinguerlo dal generico patriottismo, che era pure la bandiera dei nostalgici della monarchia, per far risaltare la socialità nella sua concezione della nazione, fino a parlare nuovamente di socialismo nazionale, come «una intuizione nuova ed un nuovo senso del concetto nazionale». «Da noi», affermava De Marsanich, «è sempre difficile distinguere fra Patria e nazione, fra sentimento e realtà», e per lungo tempo «il sentimento patriottico ha ricoperto di un retorico velario l’ingiustizia sociale, il dominio di classe, la supremazia del denaro». A differenza della patria, la nazione non è sentimento, ma è «un’idea morale e politica, un dato storico, un sistema economico, che debbono essere considerati indipendenti dal naturale amore per il luogo natio» e che consentono, nella formula proposta dal socialismo nazionale, di «colmare le distanze sociali» e di «superare il dissidio di classe, per dare, infine, alla secolare questione dei rapporti economici fra gli individui e le categorie, una soluzione non ideologica, il che è facile e inconcludente, ma una soluzione storica e vitale»6. Il Movimento sociale si richiamava esplicitamente alla tradizione del sindacalismo nazionale e al fascismo socializzatore di Salò, e proponeva una versione populista del mito nazionale, considerando come «principio di orientamen­to» la nazione «che riassume l’ansia, il dolore, il lavoro, le idee di tutto un popolo», non la nazione «delle fanfare e dei pennacchi nei giorni della rivista»7.
Riproponendo i miti del fascismo anti-individualista e corporativista, il partito neofascista rinnovava anche il mito del primato italiano nella creazione di una Nuova Civiltà, una «concezione originale del mondo e della vita, una civiltà dello spirito, un nuovo umanesimo italiano e universale», in alternativa alla civiltà materialistica dell’americanismo e del comunismo, come affermava «La Lotta Politica» alla fine del 1953. I neofascisti credevano fermamente «che fra l’Italia e l’idea di civiltà vi sia come un ­rapporto naturale di causa ed effetto; un vincolo perenne che fa dell’Italia la bussola di orientamento di tutta la storia umana». Ciò, tuttavia, non significava che essi fossero propensi a prefigurare, per il fu­turo, un superamento dello Stato nazionale, come aveva immaginato il fascismo totalitario negli anni del trionfo. È vero che taluni gruppi neofascisti, più prossimi al neonazismo che al neofascismo, vagheggiavano un’Europa della razza ariana; altri agitavano l’ideale di un’Europa-Nazione mescolando nostalgie medioevali con spiritualismi romantici, incitando a una crociata degli europei contro il materialismo americano e russo. Ma la maggior parte dei neofascisti restava saldamente ancorata allo Stato nazionale come insopprimibile realtà spirituale e politica, e schernivano le «illusorie astrazioni siglate», le varie organizzazioni internazionali, dall’Onu alla Nato alla Comunità Europea, che pretendevano di superare la realtà nazionale: «Perché l’idea di Europa, l’idea di unità europea, non sia astrazione siglata, ma realtà viva occorre che prima l’idea nazione non sia astrazione ma una realtà altrettanto viva. Negare la nazione, e giudicare il nazionalismo da degeneri contraffazioni di esso, tentare di superare questo primo dato per giungere a formazioni dilatate significa costruire sulla sabbia»8.
Alla perennità della nazione e del nazionalismo continuavano a credere anche coloro che, pur appartenendo alla schiera dei reduci del fascismo, consideravano ormai chiusa definitivamente l’esperienza fascista, ma non ritenevano dignitoso rinnegare quanto aveva rappresentato, ai loro occhi, un ambizioso e generoso tentativo di fare più grande l’Italia, benché tale sforzo fosse infine naufragato nella più rovinosa disfatta della storia nazionale. Era il caso, per esempio, di Gioacchino Volpe, che si dichiarava orgoglioso di non essere appartenuto «alla onorata società di coloro che al proprio paese impegnato in guerra, qualunque esso sia, augurano la sconfitta e lavorano per la sconfitta». Lo storico ribadiva...

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