Ogni prefazione è una conclusione. È una ricapitolazione sommaria e schematica dei principî e dei criteri che hanno presieduto alla stesura di un'opera. È una veduta di scorcio sui risultati che saranno via via esposti e dispiegati nel corso del lavoro.
Questa prefazione è una conclusione in un duplice significato.
Prima cioè di additare le linee sulle quali è stata concepita, evocata e guidata questa Storia integrale del fatto cristiano, vorrebbe e dovrebbe ricapitolare e fissare le direttive di marcia di una evoluzione spirituale, al cui decorso è intimamente legata la concezione del cristianesimo che pervade questa ricostruzione storica.
Perché è un vieto e logoro pregiudizio immaginare che si possa dare storia degna di questo nome – e in particolarissimo modo storia di fenomeni spirituali e religiosi – che non coinvolga valutazioni generali e attitudini personali; che non tragga cioè spunto e valore da una visione normativa del fatto collettivo di cui si vuole ricostruire la genesi, il decorso e il tramonto.
Quando io per la prima volta, non ancora ventenne, fui iniziato agli studi di teologia e di storia ecclesiastica nelle Scuole che venivano addestrandomi all'esercizio del Sacerdozio cattolico, due postulati erano pacificamente acquisiti. E i due postulati erano questi: il primo che la rivelazione cristiana fosse prevalentemente patrimonio conoscitivo; il secondo che il cristianesimo fosse, in tutto e per tutto, una cosa sola con le definizioni dogmatiche dei Concilî, soprattutto dei due piú vicini: quello di Trento e quello del Vaticano. Il professore di teologia dogmatica non aveva altro còmpito che quello di portare a rincalzo delle definizioni conciliari, frammentari e isolati passi scritturali. Quello di storia ecclesiastica, dal canto suo, aveva unicamente il còmpito di dimostrare che la dogmatica e la disciplina di Trento e del Vaticano erano già tutte intiere nella Chiesa di San Cipriano, anzi di Clemente Romano.
Non ci volle molto perché mi accorgessi che se il professore di dogmatica doveva fare il piú crudele scempio delle testimonianze bibliche e patristiche per trarle a sostegno del Tridentino e del Vaticano, il professore di storia ecclesiastica era costretto a fare scempio crudelissimo della realtà storica, per costringerla sul letto di Procuste dei suoi schemi dogmatico-teologali.
Fu il primo colpo alla mia convinzione ortodossa. Ma non fu il decisivo e il definitivo.
In contrapposizione alla dogmatica riformata, che fa della parola rivelata la fonte esclusiva della verità religiosa, la dogmatica cattolica riconosce un secondo principio e una seconda fonte di certezza spirituale. Di questo secondo principio mi parve allora si potesse e dovesse fare un uso ben piú vasto e duttile di quanto in pratica non ne facessero gli interpreti canonici ufficiali della dottrina ortodossa. Questo secondo principio è la tradizione.
È del novembre 1905 un mio articolo sulla «Rivista storico-critica delle scienze teologiche» circa il dogma nella storia . Questo articolo mi valse il primo violento attacco della «Civiltà Cattolica» e di conseguenza mi costò il posto di insegnante nelle Scuole teologiche del Pontificio Seminario Romano.
A buon conto, quasi presentendo la bufera, io avevo cercato un riparo all'ombra di una porpora venerata e mai sconfessata: quella del Cardinal Newman.
Io prendevo lo spunto da alcune auree parole del grande convertito nell'Essay on the Development of Christian Doctrine (Ch. II): «Se il cristianesimo è un fatto, se incide un concetto di se stesso nell'anima nostra, e si offre alla ragione come argomento di riflessione, col tempo questo concetto si rifrangerà in una moltitudine di idee e di aspetti di idee, fra loro armonicamente connessi in un tutto integrale e immutabile, come il fatto oggettivo di cui sono la rappresentazione. È una proprietà singolare del nostro spirito il non poter cogliere un oggetto ad esso presentato, nella sua naturale integrità».
E io, da buon latino, sensibile cioè all'apporto della esperienza associata alla delineazione e alla delimitazione di ogni credenza normativa, parafrasavo con ogni cautela cosí:
«La Chiesa ci insegna che la fonte della rivelazione è duplice: la Scrittura e la tradizione: i libri sacri, cioè, e quella trasmissione della dottrina cristiana compientesi ore, scripto, praxi, mediante la quale tutte le generazioni dei fedeli passano nei secoli avvinte da un indissolubile nesso di dipendenza morale. Ora, il concetto della tradizione non è un concetto statico, ma è un concetto intimamente, eminentemente dinamico. Vale a dire: esso non sbarra la via al cammino fruttuoso del pensiero evangelico, ma lo accompagna, lo esprime, lo rivela, in tutte le sue reviviscenze progressive. Riflettiamo che una delle conquiste piú notevoli della psicologia contemporanea è la determinazione di una sfera di fenomeni spirituali che sfugge alla presa della coscienza riflessa e si cela in una indecifrabile penombra di interiorità. Qualcosa di simile sussiste nella vita perenne della Chiesa. Non tutto ciò che in essa palpita, non tutto ciò che essa nasconde, non tutto ciò onde è ininterrottamente alimentata, cade sotto la percezione della scienza. C'è nel vasto operare dei fedeli, nelle impercettibili vibrazioni dell'anima religiosa collettiva, una parte che si ribella alla luce della cultura e che sfugge alla esplorazione della ricerca metodica. Ebbene: è in questa parte, refrattaria ai ricercatori di dati positivi, che si compie l'intima fecondazione della dottrina cristiana.
«Noi possiamo sostenere questo a...