Un padre giusto punisce per insegnare e premia quando i figli imparano.
All’inizio dei tempi, Dio Padre Nostro ci mandò il diluvio. Per quaranta giorni e quaranta notti fece piovere sulla Terra, per insegnare ai suoi figli che non dovevano rovinare il dono perfetto che gli aveva fatto. Mandò le dieci piaghe d’Egitto, per insegnare ai suoi figli che non dovevano essere superbi. Oggi vediamo ogni giorno i segni del suo Insegnamento. Dio ci manda onde giganti, terremoti e tempeste di grandine per dirci che è deluso da noi. Ma gli uomini e le donne non capiscono i segni e continuano a sfidarlo.
C’è chi osa dire che questi fatti sono la prova che Dio non esiste, perché altrimenti sarebbe un Dio cattivo. Ma è cattivo un padre che sacrifica sulla croce il più amato dei suoi figli per salvare gli altri? È cattivo un padre che potrebbe scacciare dalla Terra i figli indegni e invece dà loro ancora un’altra possibilità di imparare?
Questo è il significato dei segni che Dio ci manda. Ci sta avvisando che si sta avvicinando il giorno in cui scenderà nel mondo per togliere la Terra ai figli che la stanno rovinando e lasciarla a chi ha vissuto nella sua grazia. Da quel giorno noi missionari di Dio vivremo in armonia con la natura e con gli animali, senza armi, senza guerre, senza soldi, prendendo dalla Terra quello che ci serve per vivere.
Il rumore di un’anta che sbatte fa sobbalzare Marco. Ha le palpebre incollate e il collo dolorante perché si è addormentato sul divano senza nemmeno aprirlo, ma ha l’impressione di non aver dormito, come se avesse continuato a rileggere le fotocopie del diario di Emilio anche nel sonno. O forse sono le ultime dodici ore ad avergli lasciato la sensazione di muoversi in un sogno. Prima che uno dei due ammettesse ad alta voce il significato di quell’elenco, Lucia è corsa in bagno. Marco l’ha sentita vomitare dall’altra parte della porta, le ha chiesto se avesse bisogno di aiuto sapendo che lei avrebbe risposto di no, ha sentito lo sciacquone, il getto del lavandino, l’ha vista uscire con il viso pallido e gli occhi ancora scuriti dall’angoscia. Si è messa in bocca una sigaretta e con quel gesto ha ritrovato la lucidità, anche se non il colorito. Dopo un paio di telefonate è corsa via mollandolo nella stazione dei carabinieri di un paese sconosciuto.
Mentre un taxi lo riportava a casa nel buio della notte, Marco si è rannicchiato sul sedile, illuminando con la torcia del cellulare le pagine che gli sono rimaste impresse nella retina.
La casa e i diari di Emilio hanno portato alla luce i pattern dell’Angelo Custode: un uomo intelligente, forse più della media, capace di costruire un bunker sotterraneo e di elaborare un credo con una propria coerenza; un uomo narcisista, persuaso di essere il missionario di Dio sulla Terra; un uomo antisociale, che ha saputo evitare i contatti con gli altri convincendoli al contempo di essere una brava persona.
Dopo il primo sequestro, nel 1996, Emilio ha continuato a rapire bambini per più di vent’anni, raccontando a se stesso e a loro di essere stato chiamato a formare un nuovo popolo, degno della grazia di Dio; la verità è che li ha rapiti perché non poteva farne a meno. Una volta esaurita l’ebbrezza del controllo, una volta conseguito l’intento di possedere e soggiogare un essere umano, ha dovuto assecondare quella voce interiore che gli chiedeva di farlo ancora, a cui ha dato il nome di Dio.
Per vent’anni è riuscito a tenere in equilibrio il lato ombra dell’Angelo Custode e l’apparenza di normalità, senza mai crollare: una mente criminale pura, istintiva e al tempo stesso organizzata.
La domanda a cui né la casa né i diari hanno saputo dare risposta è “perché”: perché ha iniziato, perché ha scelto proprio la religione per dare un senso alle sue azioni, perché i bambini.
Il rumore della chiave che scatta nella serratura rivela che a svegliarlo non è stata un’anta che sbatteva, ma lo sportello della macchina di Lucia. A varcare la soglia è però la brutta copia dell’amica; la rughetta sulla fronte è diventata un solco e i suoi movimenti sembrano stentati, come se fosse invecchiata di colpo.
«Che ore sono?» le domanda.
«Non lo so e non voglio saperlo» risponde lasciandosi cadere sul divano. «Ma fuori è giorno.»
«Che è successo?»
«La direzione dell’indagine è passata al Servizio centrale operativo. Domani, anzi, ormai oggi pomeriggio, ho appuntamento con il dirigente che coordinerà la task force per le ricerche nei boschi.»
«Bene, perché ho trovato un altro elemento a favore dell’esistenza di una complice.»
Marco mette l’elenco dei bambini rapiti sotto gli occhi di Lucia.
«Vedi com’è formulato? Mi sono chiesto perché di alcuni bambini riporta anche il nome vero e di altri no.»
Lucia osserva la copia della pagina my drawings, in cui a Donatella, rinata Rosa, e Alessandro, rinato Vento, si alternano Neve, Aria e Stella.
«Forse quando li ha rapiti erano così piccoli che non sapevano neanche dire come si chiamavano.»
«Può essere. L’altra possibilità è che non abbiano mai avuto un altro nome, perché sono nati nei boschi.»
Per alcuni secondi Lucia lo guarda senza capire, rallentata dalla mancanza di sonno, poi si rizza all’improvviso sulla schiena, come se le avessero gettato addosso una secchiata d’acqua fredda.
«Credi che siano figli suoi?»
«Suoi e della complice. Guarda: dal 1996 al 2002 rapisce quattro persone. Poi iniziano a comparire i nomi dei bambini non “rinati”. Penso che abbia iniziato da solo e che dopo qualche anno ha trovato una compagna.»
«Non è una prova certa, ma di sicuro può essere utile» dice Lucia ripiegando il foglio e infilandolo in borsa. «A questo punto l’esistenza di una complice è tutto ciò in cui possiamo sperare per ritrovare quei bambini ancora vivi.»
Lucia ha parlato con l’aria di chi ribadisce una cosa scontata, che a Marco però non era passata per la mente. Ha sprecato l’intera notte a interrogarsi sulla personalità di Emilio, concentrandosi sulle motivazioni di un morto invece che sull’urgenza di aiutare i vivi.
«Se è stata lei a uccidere Emilio, come penso, vuol dire che nell’equilibrio che avevano creato qualcosa ha smesso di funzionare» dice realizzando quella verità nel momento stesso in cui la pronuncia. «Potrebbe volersi liberare anche dei bambini. Se avessi modo di parlare con Leone…»
«Ci aspettano in ospedale in tarda mattinata» lo interrompe Lucia con un mezzo sorriso in cui Marco ritrova la bellezza della sua amica. «Prima di rimetterci al lavoro però riposiamoci almeno un paio d’ore, ok?»
«Ok.»
Marco appoggia la testa sulla spalliera del divano e chiude gli occhi, ma li riapre dopo nemmeno due minuti. Lucia ha già gli occhi aperti.
«Vado a fare il caffè» gli dice mentre lui riprende a leggere il diario di Emilio Giuliani.
L’ingresso dell’ospedale è assediato da una decina di giornalisti. Appena Lucia mette un piede fuori dall’auto, un ragazzo con le braccia ricoperte di tatuaggi e una grossa macchina fotografica al collo scatta su. Il suo movimento è sufficiente ad attivare gli altri, che si levano come uno sciame di insetti senza nemmeno sapere verso cosa stanno correndo. Chi corre più veloce di tutti è però l’ispettore Mori, che frappone le sue grosse spalle tra Lucia e la selva di microfoni, scortando lei e Marco oltre le porte a vetri dell’accettazione, dove i giornalisti non possono entrare.
«Mi dispiace, commissario, è da ieri che è così.»
«Ce lo aspettavamo, no? Cosa sanno?»
«Soltanto che è stata trovata la famiglia del ragazzo scomparso. Di Emilio Giuliani ancora niente.»
«Dobbiamo cercare di mantenere così le cose. Se arrivano al collegamento con Giuliani rischiano di sputtanarci tutta l’indagine su di lui.»
«Hai ragione, ma lo sai anche tu come funziona, meno hanno da pubblicare più ficcano il naso.»
Lucia accoglie sbuffando il suggerimento implicito di Fabrizio, ma decide di metterlo ugualmente in pratica: «Posso parlarvi un attimo?» chiede a Flavio e Camilla davanti alla porta della stanza numero 306.
«È vero che avete scoperto chi era l’uomo che ha rapito Leone?» le domanda Camilla.
Lucia nota che ha smesso di chiamarlo Francesco, come se stesse iniziando ad accettare lo sconosciuto che ha preso il posto del fratellino scomparso.
«Sì, è vero, ma al momento non posso dirvi di più, se non che mantenere segreta la sua identità è fondamentale per le indagini. Per questo dovrei chiedervi un favore.»
In tutta risposta, Flavio manda platealmente gli occhi al cielo.
«Va bene, se possiamo» risponde invece Camilla.
«Dovrei chiedervi di farvi intervistare.»
Stavolta l’incredulità si materializza nello sguardo di entrambi.
«Ma perché, che c’entra?» prova a ribattere Camilla.
«C’entra perché se gli date qualcosa da scrivere è più facile che si accontentino, almeno per qualche giorno.»
«E cosa dovremmo dirgli?»
Ribattere al tono duro di Flavio le riesce più difficile.
«Quello che vogliono» gli risponde, approfittando della loro differenza di statura per non guardarlo negli occhi. «Che siete felici, che è una specie di miracolo, che non vedete l’ora di riportarlo a casa con voi.»
La risata sprezzante di Flavio le ferisce le orecchie.
«Va bene, se è importante per Leone lo faremo. Io, almeno, lo farò» dice Camilla.
Flavio guarda la sorella con un’espressione tradita che fa sentire Lucia ancora più piccola.
«Vi accompagno» si offre Mori avviandosi lungo il corridoio. Camilla lo segue senza aspettare il fratello, che si decide a raggiungerli solo dopo alcuni istanti, come se avesse improvvisamente realizzato di essere rimasto solo.
Lucia si volta per entrare nella stanza, ma appena vede Leone cristallizzato nella solita posizione tutte le emozioni degli ultimi giorni – per Marco, per Emilio, per Flavio e Camilla, per i bambini rapiti – si concentrano in un unico sentimento: rabbia. Un’intensa e irrazionale rabbia nei confronti della persona che potrebbe evitare tutte le indagini, le notti insonni, la paura di trovare soltanto un covo di piccoli cadaveri, se solo le dicesse dove sono nascosti i bambini. In quel momento, il ragazzo seduto a disegnare non è un’altra vittima di Emilio Giuliani, ma un suo complice.
«Ciao, cosa disegni?» gli domanda prendendo in contropiede Marco, che probabilmente si aspettava di condurre come sempre la conversazione.
Leone si sposta quel tanto da permetterle di sporgersi sul foglio.
«Bellissimo» dice senza guardarlo, approfittandone per sedersi accanto a lui. Non è mai stata così vicina a Leone. Per la prima volta respira il suo odore, che sa di pianta selvatica, vede la consistenza della sua pelle bianca e delicata, dei suoi capelli sottili, che il sole trapassa come fili di ragnatela.
«Senti, ti abbiamo chiesto mille volte se nei boschi eravate soltanto tu e tuo padre, e tu hai sempre risposto che non c’era nessun altro. Ma adesso sappiamo che non è vero, sappiamo che lì fuori ci sono altre persone, altri bambini.»
La reazione di Leone dimostra che ha fatto centro. Il ragazzo smette di colorare e si immobilizza, come un animale che cerca di rendersi invisibile agli occhi del predatore.
«Ormai è inutile raccontare bugie, lo capisci? Adesso devi dirci dove sono nascosti gli altri.»
Le sue labbra carnose iniziano a tremare, così come la sua mano, stretta al pennarello.
«Lo sai che se continui a raccontare bugie puoi essere arrestato?»
Lucia prova un piacere perverso nel vedere sul suo viso i segni della paura. Una parte di lei se ne vergogna, ma è una parte piccola. Il resto è ancora invaso dalla rabbia.
«Ti rendi conto che ...