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Un'avventura alle origini della Silicon Valley

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Un'avventura alle origini della Silicon Valley

About this book

Era il 1987 quando Jerry Kaplan, allora un giovane imprenditore, ebbe un'intuizione di quelle che hanno l'aria di poterti cambiare la vita. Perché limitare a uffici e case private l'uso dei computer? Bisognava mettere a punto un modello tascabile, da avere sempre con sé. Fu così che la sua startup, GO, realizzò il prototipo del primo tablet della storia. Erano anni eccitanti per chi sapeva accettare la sfida dell'innovazione e per Jerry quel progetto rappresentava tutto quello che aveva sempre sognato: trovare un'idea radicale, attrarre investitori, fondare una nuova impresa, creare posti di lavoro e ricchezza, mettere il proprio tassello nel mosaico del mondo. Ma il gioco del business è riservato ai più duri, e ritrovarsi al posto giusto nel momento sbagliato, puntando su una tecnologia troppo avanzata per un mercato non ancora pronto, può risolversi nel disastroso fallimento di una giovane impresa dal grande potenziale. Startup è il memoir di un guru dell'hi-tech e dell'intelligenza artificiale, il racconto di un'epoca avventurosa e il romanzo delle origini di una cultura, quella della Silicon Valley, che era destinata a cambiare per sempre il mondo in cui viviamo.

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Information

Capitolo 1

L’idea
“È un residuato bellico?”
“Cosa?”
Il tassista non aveva capito la battuta. Stavamo percorrendo a tutta velocità una stradina nei sobborghi di Boston, rimbalzando tra una buca e l’altra. A ogni buca il taxi emetteva un rumore di ferraglia, come se stesse per disintegrarsi. Il logo marrone sulla portiera recitava “Veterans Taxi”. Il guidatore sembrava uscire anche lui dalle campagne degli anni Sessanta contro la guerra – barbetta grigia tagliata corta, coda di cavallo trattenuta da un elastico e un cappello da cosacco con il paraorecchie per difendersi dal freddo pungente di febbraio. Dovevo incontrare Mitchell Kapor a Hanscom Field alle nove in punto per esaminare il suo nuovo giocattolo, un jet privato. Il percorso dagli uffici di Cambridge al quartier generale di Lotus Development Corporation – l’azienda che aveva fondato nel 1982, appena cinque anni prima – sarebbe dovuto durare meno di trenta minuti, ma ero in ritardo, ed ero disorientato. Mitchell mi aveva detto chiaramente che voleva partire immediatamente in modo che potessimo arrivare a San Francisco per l’appuntamento che aveva fissato a pranzo.
Tutt’a un tratto la strada si è allargata, e un semaforo ci ha segnalato il nostro rientro nella civiltà. Quella strada circondava il terminal della Butler Aviation, dov’erano parcheggiati i velivoli privati. Secondo le istruzioni, abbiamo attraversato il cancello aperto che dava sul campo di volo. Nella zona di imbarco sostavano alcuni aerei da turismo e un jet, sparpagliati come animali che si tengono a distanza di sicurezza l’uno dall’altro nei pressi di un abbeveratoio. Mi sono sentito sollevato vedendo Mitchell proprio davanti a noi, che tirava fuori valigie e borsoni dal bagagliaio della sua Audi grigio scuro del 1984.
L’aereo senza insegne era beige e marrone. A metà della fusoliera era stata ricavata una scaletta di quattro o cinque gradini ripidi. Due tipi grandi e grossi in uniforme blu scuro con le spalline e il cappello stavano in piedi ai due lati della scaletta in attesa della limousine che avrebbe dovuto recapitare il loro nuovo capo, il fondatore dell’azienda indipendente di software più grande del mondo. Sbirciavano nervosamente i due giovani in blue jeans che avanzavano verso di loro con delle borse appese a entrambe le spalle.
“Potete darci una mano per favore?” ha gridato Mitchell. I due lì per lì sono rimasti folgorati, rendendosi conto che il ragazzo con la camicia che usciva dai pantaloni sotto la giacca a vento era il tizio che aspettavano. Ci sono corsi incontro per prendere i nostri bagagli.
“Buongiorno, Mr. Kapor” ha detto uno dei due.
“Chiamatemi Mitchell, e questo è Jerry. Oggi gli diamo un passaggio. Pagheremo a metà la benzina.”
Mitchell ha riso alla sua stessa battuta. Il costo operativo dell’aereo era più di mille dollari all’ora, in gran parte per il carburante. I due si sono guardati increduli e si sono presentati, rispettivamente, come il pilota e il co-pilota.
Abbiamo salito i gradini per ritrovarci in una cabina angusta ma elegante, con la tappezzeria scura e i pannelli di legno. Sembrava un vecchio club maschile in miniatura. Era divisa a metà da un corridoio stretto, alta a malapena da riuscire a stare in piedi, con quattro sedili sulla destra e solo due sulla sinistra, seguiti da un divano abbastanza lungo da potercisi sdraiare. Immaginavo che fosse lì nell’eventualità che il proprietario facesse colpo su una passeggera – una versione aerotrasportata del materasso che si tiene sul retro di un pickup. Mitchell, un devoto padre di famiglia, non la vedeva in questo modo, ma io ero single e più attento a queste possibilità. Un bar su misura, con le sagome intagliate per le bottiglie, ospitava i liquori preferiti dal vecchio proprietario – una banca i cui dirigenti se la passavano molto bene prima della crisi. C’erano anche parecchi sigari cubani e alcuni mazzi di carte da gioco.
“Possiamo sbarazzarci di questa roba” ha detto Mitchell. “Qualche Diet Coke e dei chewing gum senza zucchero andranno benissimo.”
Restando impassibile, il pilota ne ha preso nota.
Ho conosciuto Mitchell Kapor nel 1984, quando si è presentato nel mio ufficio senza farsi annunciare e mi ha chiesto cosa potesse significare l’intelligenza artificiale per i personal computer. Ero la persona giusta a cui chiederlo, avendo preso il dottorato in quella materia cinque anni prima.
Dopo essermi laureato alla Penn nel 1978, sono entrato nell’équipe di ricerca della Staff University. Stanford aveva i ritmi e lo stile di un country club, pieno com’era di vincitori di borse di studio. Dopo aver sgobbato per anni all’università, facendo lavori di tutti i tipi per pagarmi gli studi, avevo la sensazione di essere passato a miglior vita e di ritrovarmi in paradiso. Era un lavoro da sogno, praticamente senza altre responsabilità che riflettere su qualche argomento interessante e mettere di tanto le mie idee per iscritto. In assenza di qualunque indicatore obiettivo di successo, i professori di ruolo del dipartimento di computer science ricorrevano a mezzi alternativi per appagare la propria autostima, principalmente farsi la guerra e collezionare titoli accademici. Dopo un anno e mezzo di beatitudine pastorale, sono giunto alla conclusione che a ventotto anni era ancora un po’ troppo presto per tirare i remi in barca.
All’inizio del 1981 sembrava che tutti avviassero nuove imprese. Così ho avuto inaspettatamente la possibilità di entrare in una nuova azienda specializzata nello sviluppo dell’intelligenza artificiale chiamata Teknowledge, fondata da un gruppo di professori di Stanford. Teknowledge costruiva sistemi esperti, programmi per computer che usavano conoscenze messe assieme da esperti umani in carne e ossa per studiare problemi complessi, come diagnosticare forme asintomatiche di tumore.
Abituati com’erano all’ambiente accademico, i ricercatori svolgevano il proprio lavoro su grosse macchine a programmazione simbolica, i LISP, ignorando la rivoluzione dei personal computer che prendeva piede intorno a loro. Il LISP era l’archetipo della macchina inefficiente, costruita con i finanziamenti pubblici e venduta quasi esclusivamente a enti e progetti di ricerca finanziati dal governo. Con le sue dimensioni e le sue performance, il LISP stava al personal computer come un caccia F-15 stava a un Cessna 150.
Un paio d’anni dopo, secondo me, risultati analoghi si potevano ottenere a un costo molto minore su un personal computer. Perciò mi sono impossessato abusivamente di un PC IBM e ho iniziato a scrivere programmi nel tempo libero. Di lì a pochi mesi avevo già in funzione dei prototipi promettenti. Per una straordinaria coincidenza, è stato proprio allora che Mitchell è venuto a farmi visita, ponendomi la famosa domanda.
Siamo diventati subito amici, e ci siamo messi a parlare di come costruire un database flessibile per gestire le informazioni personali – appunti, idee, elenchi di cose da fare, messaggi telefonici eccetera – anziché dati aziendali come fatture e record di magazzino. Mitchell mi ha offerto un contratto di consulenza per trasformare queste idee in un prodotto, lavorando direttamente insieme a lui e a un altro esperto di informatica, Edward Belove. Potevo lavorare da casa mia, tra le colline boscose immediatamente a ovest di Stanford, recandomi di tanto in tanto negli uffici di Lotus a Cambridge.
Per circa un anno ho vissuto e lavorato da solo, eccezion fatta per il mio gatto Critter P. Spats, l’unico lascito di una fidanzata che se n’era andata da tempo. Rendendomi conto che avrei potuto trarre beneficio da un po’ più di contatti umani, ho preso il ricavato della vendita delle mie azioni Teknowledge e ho acquistato un alloggio affacciato sulla “malfamata” Lombard Street di San Francisco. Il flusso ininterrotto di turisti su questo famoso acciottolato dava l’impressione di aver lasciato il deserto per approdare sulle rive del fiume dell’umanità. Al gatto piaceva un mondo.
Lavoravo sul progetto Lotus in stretto contatto con Mitchell e Ed, anche se mi recavo a Boston sì e no una volta al mese. I nostri sforzi hanno prodotto un nuovo tipo di programma, che abbiamo soprannominato personal information manager, o PIM. Quando il progetto era ormai prossimo al completamento, abbiamo denominato ufficialmente il prodotto Lotus Agenda. Nel febbraio 1987 stavo tornando a San Francisco sul jet privato di Mitchell per mostrargli alcune caratteristiche extra che avevamo aggiunto all’ultimo momento al prodotto.
Una volta a bordo, Mitchell si è messo a cercare affannosamente qualcosa nei suoi bagagli. C’erano borsoni e valigette dappertutto. Era essenziale che il grande tecnofilo si portasse dietro tutta una serie di computer, telefoni cellulari, organizer, caricabatterie, adattatori, cavi e batterie di riserva, nonché le ultime edizioni di settimanali tecnici, riviste specializzate in informatica e una pila di quotidiani. Mi chiedevo se era per quello che Mitchell sentiva il bisogno di un aereo personale – portarsi dietro tutta quella roba su un volo commerciale sarebbe stato un incubo. Quando si è finalmente accomodato in quella fortezza elettronica, si è tolto la giacca a vento, svelando la sua peculiare eleganza: una formale camicia hawaiiana (a sfondo bianco) su jeans sformati. Mitchell era alto e ben piantato, più di un metro e ottanta, e camminava con una elasticità da ragazzo. Aveva una gran massa di capelli neri con una sfumatura di grigio sulle tempie che tradiva i suoi trentasei anni. I due denti davanti erano lievemente obliqui, il che gli conferiva un vago aspetto da marmotta, assecondato dal suo zelo e dalla sua diligenza. Potevo vedere dalla sua lieve sudorazione che il nostro frettoloso imbarco l’aveva messo un po’ in affanno.
Io sembravo un Mitchell junior: ero alto come lui ma pesavo dieci chili di meno, anche se i miei capelli erano un po’ più grigi. Gli stessi jeans sformati – pensati per qualche ideale platonico da copertina di GQ, non per un comune mortale – si incurvavano sotto la cintola e mi penzolavano sul didietro, e l’ultimo bottone della mia camicia si allacciava sopra la fibbia della cintura, lasciando svolazzare i lembi per conto loro e mettendo in mostra un rotolino di ciccia. Come Mitchell, ero perpetuamente in guerra con il mio peso, ma la posta in gioco era più alta – non potevo permettermi il girovita del tipico marito di mezza età, per il timore di non diventarlo mai.
Ci siamo accomodati nei due sedili della fila davanti.
“Mettete lo schienale in posizione eretta e allacciate le cinture di sicurezza” mi ha detto Mitchell simulando un tono serioso.
Abbiamo trascorso i minuti successivi imitando gli ineludibili rituali da Grande Fratello delle compagnie aeree commerciali. Poi siamo scoppiati a ridere istericamente, e i piloti avranno pensato che fossimo fuori di testa. Dopo un breve rullaggio siamo decollati e abbiamo preso quota molto rapidamente. Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto, guardando la terra che si allontanava e sentendoci i padroni del mondo.
Quando l’aereo si è messo in assetto da crociera Michael ha tirato fuori il suo ultimo gadget – il portatile più leggero e più potente in circolazione. Quella macchina straordinaria, il Compaq 286, compattava tutta la potenza dei PC di ultima generazione in una scatola delle dimensioni e del peso di una piccola macchina per cucire. Il numero identificativo 286 non era stato scelto a caso. Indicava che il prodotto conteneva il microprocessore o chip 80286, progettato e fabbricato da Intel Corporation.
A metà degli anni Ottanta gli esperti di computer tendevano a sostituire il gergo tecnologico al linguaggio normale. Lo facevano per un scopo ben preciso. Per imparare a usare un computer – e tanto più a programmarlo – ci volevano un livello di impegno personale paragonabile a quello che occorre per imparare a suonare il pianoforte e un livello analogo di talento innato. Quell’attività attirava persone che avevano difficoltà nel complicato mondo delle relazioni umane e preferivano invece la compagnia di macchine prevedibili e infinitamente pazienti. La loro devozione veniva premiata con preziose competenze e nuove amicizie. Ex solitari per necessità e per scelta si ritrovavano quasi da un giorno all’altro ben accetti in una società di persone dalla stessa mentalità, che erano più a loro agio comunicando per posta elettronica che di persona. Adesso potevano nascondere il proprio disagio dietro CPU, RAM e modem. I maghi dell’informatica erano diventati chic.
Un linguaggio esoterico era la chiave di accesso al loro club, come il gergo usato da ogni generazione di teenager per identificare i propri simili ed escludere gli adulti insensibili e ignoranti. Il gergo tecnico faceva sentire i membri di questa casta speciali, e più intelligenti di tutti gli altri. L’imbarazzo che provava la gente comune per la propria mancanza di conoscenze informatiche non faceva che rinforzare questo sentimento. Ma il solo fatto di conoscere la sigla numerica che identificava un computer non vi avrebbe aiutato a entrare nella società segreta – dovevate anche imparare a pronunciarla. Non stava scritto da nessuna parte che 80286 si dovesse leggere “ottanta, due ottantasei”, anziché “otto-zero-due-otto-sei” o qualche altra variante. Benvenuti nel club.
“Ti chiedo un attimo di pazienza” mi ha detto Mitchell. “Devo aggiornare i miei appunti.” Si è messo a rovistare nelle tasche, tirando fuori dei pezzettini di carta. Erano bigliettini adesivi gialli e pagine strappate da un block-notes a spirale; ma c’era anche qualche fazzoletto o cartaccia della gomma da masticare. Mitchell era un prolifico scrittore di appunti: metteva per iscritto tutte le idee e tutti i riferimenti interessanti che gli arrivavano a portata d’orecchio. Non sapevi mai quando gli sarebbe venuto in mente di prendere il prossimo appunto. In un momento di particolare agitazione l’ho visto strappar via l’angolo di una pagina del New York Times e scribacchiare qualcosa sul margine a forma di L.
Dare un senso a ...

Table of contents

  1. Startup
  2. Indice
  3. Prologo
  4. Capitolo 1. L’idea
  5. Capitolo 2. Il patto
  6. Capitolo 3. L’azienda
  7. Capitolo 4. Il finanziamento
  8. Capitolo 5. Il cliente
  9. Capitolo 6. La proposta
  10. Capitolo 7. Il partner
  11. Capitolo 8. L’annuncio
  12. Capitolo 9. La guerra
  13. Capitolo 10. Lo spinoff
  14. Capitolo 11. La nuova strategia
  15. Capitolo 12. La bolla
  16. Capitolo 13. Il ribaltone
  17. Capitolo 14. Lo showdown
  18. Epilogo
  19. Nota dell’autore
  20. Cronologia
  21. Appendice
  22. Glossario