Calabria malata. Sanità, l'altra 'ndrangheta
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Calabria malata. Sanità, l'altra 'ndrangheta

About this book

I fatti presi in considerazione vanno dal 12 marzo 2015 al 18 aprile 2019. I comportamenti, invece, sono antichi.
Attraverso l’analisi degli eventi e delle decisioni, non necessariamente illegittime, cerco di dimostrare che la Calabria non interessa a nessuno, se non quando si avvicinano le elezioni.
La Calabria non è importante per Roma né, purtroppo, per i calabresi, che si sono arresi a quanto giudicano inevitabile e immutabile.
Questa assuefazione collettiva è la droga venduta dall’altra ’ndrangheta, silenziosa, che si insinua nella vita quotidiana, in particolare della sanità pubblica, una miniera d’oro, per far proliferare i propri affari.
Anche il nuovo si è subito adeguato. I parlamentari 5 stelle, con le dovute eccezioni, sono come gli altri in Calabria.
I privati, quando si sentono minacciati, si rivolgono alla politica o addirittura alle istituzioni. Anche la Chiesa è poco attenta a non esporsi in affari non sempre trasparenti. I funzionari delle aziende sono spesso tacciati di essere conniventi con i privati. Le organizzazioni sindacali hanno parzialmente perso la loro identità.
Un Presidente di “sinistra” cerca di far annullare un mio decreto per l’assunzione di quasi mille operatori. Ma non dovrebbe esserne felice? Capisco: li voleva assumere lui. Le assunzioni portano voti.
La Ministra, per calpestare la Calabria, cita dati sui livelli essenziali di assistenza che i suoi collaboratori conoscono come fasulli. Nessuno si indigna, tranne il sottoscritto.
L’Asp di Reggio Calabria viene commissariata per infiltrazioni ’ndranghetiste. E viene nominato un prefetto a gestirla. E le competenze? Non servono.
La media borghesia si è costruita una nicchia di benessere: manda i figli a studiare e a lavorare fuori regione e si gode il sole e il mare della Calabria.
Chiunque provi a mettere a fuoco i problemi, cercando la verità, diventa scomodo. Se poi ci mette anche passione e disinteresse, diventa un virus urticante.
Vogliamo reagire? Il primo passo è conoscere.

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1. Il mio amore per la Calabria

Il mio amore per la Calabria si perde nella notte dei miei tempi. Avevo un anno quando i miei genitori neolaureati cercavano lavoro al Nord ed io diventavo il “nono figlio” di nonna Marietta, nella casa di Vaccarizzo Albanese, un paese arbëreshë della provincia di Cosenza.
Sono stato ospite dei nonni paterni per diversi mesi, accolto con calore dai fratelli e sorelle di papà, primogenito di otto figli.
Era il 1945 ed ero troppo piccolo per capire che stavamo vivendo uno dei capitoli più difficili della nostra storia nazionale.
I miei genitori si trasferirono a Borgosesia, in provincia di Vercelli, ed è lì che sono cresciuto con i miei fratelli Maria Barbara e Marco, pensando però sempre alla Calabria. Del resto “i ricordi battono come un secondo cuore”.
La casa dei nonni era per me un piccolo paradiso: attendevo impaziente le vacanze estive per farvi ritorno. Era una casa piuttosto grande, equidistante dal centro del paese e dalla frazione S. Nicola, sulla strada provinciale; era costruita su tre livelli: a piano terra c’era la caserma dei carabinieri, visti da noi bambini come super eroi, con due celle per reclusi che, a mia memoria, non ospitarono mai nessuno. Al secondo piano c’era un enorme forno dove la nonna, aiutata da qualche figlia e da Ersilia, una donna del posto, ogni quindici giorni preparava un pane fragrante che sarebbe bastato per le due settimane seguenti e, nell’occasione, le gabmarite (gabba il marito). Erano pizze saporitissime che sparivano in un batter d’occhio, anche perché per l’occasione gli zii che vivevano da Corigliano, Rossano e Cosenza ne approfittavano per salire a Vaccarizzo. Una bella festa familiare.
La mattina il banditore scendeva dal centro per informarci dei nuovi arrivi. Pepè! Pepè! Pepereperepè! Si annunciava con una trombetta. “Pisci alla chiazza, facioli reci lire o chilo”.
Le scuole allora iniziavano il primo ottobre e io mi trattenevo fino al 26 settembre per la festività dei Santi Cosmo e Damiano, patroni del vicino paesino San Cosmo Albanese.
Se il fervore devozionale animava migliaia di fedeli provenienti anche dalla Campania, Puglia e Basilicata, oltreché da ogni parte della Calabria, in pellegrinaggio per il santuario di San Cosmo, un diverso ardore muoveva i miei passi da ragazzo. Infatti, durante la novena che precedeva la festa, nel pomeriggio, gruppi di donne partivano a piedi alla volta del santuario, distante circa 3 km e in quell’occasione si potevano ammirare le ragazze, bellissime nei loro variopinti costumi tradizionali albanesi, ed era lecito pregare per un miracolo.
Altrimenti gli sguardi erano solo furtivi: in chiesa, durante la santa messa domenicale, o alla fontana dove le giovani accompagnavano le madri a riempire di acqua fresca di sorgente gli orciuoli che, una volta pieni, riportavano a casa ritti sulla testa, come indossatrici ante litteram. Allora non c’era l’acqua corrente nelle case.
Corteggiavamo con costanza, tenacia e soprattutto a distanza!
In quel mese, esclusi i giorni della novena, alle 16.00 in punto, dopo aver bevuto a crudo un uovo che la nonna mi obbligava a succhiare, praticando due fori alle estremità del guscio – conditio sine qua non per poter andare a giocare – si andava al campo.
Così, semplicemente, veniva chiamato un piano ricavato da una collina rocciosa, spianata a suon di piccone dai nostri padri. Le porte erano senza rete e le linee delimitanti il terreno di gioco non esistevano. Semplicemente, quando la palla colpiva la roccia da un lato, oppure si perdeva lungo il pendio della collina dal lato opposto, era fallo laterale. Sulla linea di fondo si andava a occhio, con buona sportività. Cadere significava tornare a casa con ginocchia e gomiti sanguinanti e, peggio, rovinare i panni che indossavamo. Non tutti possedevano molti ricambi. Per non parlare delle scarpe.
In caso di braciole, come chiamavamo le ferite, ci pensava Ciuchino, soprannome dato a Salvatore, ottimo portiere e allo stesso tempo staff medico che, raccolta una manciata di polvere di roccia, la passava sulla parte sanguinante a mo’ di emostatico. Nessuno ha mai avuto infezioni. E poi dicono che non esiste l’angelo custode!
Si giocava fin verso le 18,30 (l’ora legale sarebbe stata introdotta nel 1966), quando quasi non si vedeva più il pallone e si rischiava di perderlo, se rotolava giù dalla collina, cosa che durante le partite, accesissime, capitava di frequente. Poi tutti alla fontana a rinfrescarci. Di fianco c’era il lavatoio e poco più in là l’abbeveratoio per gli animali.
La vita in paese era estremamente interessante. Passavamo le mattinate andando a trovare gli artigiani intenti ai loro lavori. Il fabbro, il sarto, il falegname, il barbiere, il maniscalco e il calzolaio, il mio preferito. Costruiva le scarpe ed era uno spettacolo vedere come riusciva a modellare il manufatto con una destrezza che gli strumenti a disposizione non lasciavano sospettare.
Poi una partita a carte, a stop o a briscola e tressette o a bocce costituite da pezzi di piastrelle sagomate, in mancanza di meglio!
In quel mese passavo alcuni giorni a Cosenza da mio zio Giulio, ingegnere, ora navantaseienne. Mi portava con sé sui cantieri in costruzione: la scuola di Castrovillari, l’acquedotto di Frascineto, la diga sul Fiume Crati. Ce n’era abbastanza per un ragazzo per scegliere di diventare ingegnere “da grande”. Il Premio Nobel per la Chimica assegnato nel 1963 a Giulio Natta e Karl Ziegler per le loro ricerche sui polimeri, la sintesi del polipropilene isotattico, il famoso moplen delle pubblicità, avrebbero indirizzato la mia specializzazione in ingegneria chimica.
Il 27 settembre il nonno mi accompagnava a Cosenza dove prendevo il treno per Roma. Mi affidava a qualche passeggero dello scompartimento e io, a 10 anni, viaggiavo solo. A Roma trovavo alla Stazione Termini uno zio, che il giorno dopo, con la stessa raccomandazione, mi metteva sul treno per Milano, dove ad attendermi trovavo mio padre. Altri tempi, sicuramente più difficili, ma più sicuri e sereni.
Nel 1965 morì mio nonno Gennaro. Aveva solo la quinta elementare ed era rimasto orfano di padre in età adolescenziale; ciononostante seppe costruire una fortuna, condivisa con suo fratello Francesco, realizzando le Autolinee Scura. Avevano iniziato acquistando a basso prezzo un autocarro in svendita dall’esercito, dopo la prima guerra mondiale e gli avevano montato una carrozzeria in legno, costruita con le loro mani. Poi, via via dei pullman sempre più moderni. Oggi le Autolinee IAS, sotto la guida dei miei cugini Gennaro e Francesco Scura, percorrono le strade regionali e nazionali, trasportando i calabresi anche fino a Milano, Torino e in Sicilia.
Come il nonno, anche nonna Marietta aveva una visione proiettata al futuro. Infatti aveva sostenuto le figlie negli studi universitari a Napoli e Messina, suscitando commenti non sempre benevoli, “così lontano da casa!”
Praticamente fino alla laurea un mese a Vaccarizzo era assicurato con grande gioia mia e dei nonni.
Dal 1969, anno del mio matrimonio con Tani e inizio di una famiglia allietata da tre figlie, Paola, Emanuela e Francesca e poi da cinque nipoti, Giada, Cora, Lorenzo, Ambra e Martina, le mie visite a Vaccarizzo si diradarono. Quando andavo, una volta l’anno, accompagnavo zio Angiolino, costretto sulla sedia a rotelle, al quale ero affezionatissimo fin da bambino, a verificare lo stato d’avanzamento lavori della costruenda centrale termoelettrica ENEL di Rossano Calabro, che nessun comune aveva voluto in altri siti siciliani, calabresi e pugliesi. L’effetto “nimby” esisteva già allora.
Alfedena (AQ) 6 marzo 2015
Alfedena è il paese dove è nata mia madre. Oggi 940 residenti, cui si aggiungono nella stagione dello sci (Roccaraso è a due passi) e nei periodi estivi oltre 5.000 villeggianti. Il mio interesse per questo comune in provincia dell’Aquila al confine con il Molise è sensibilmente aumentato quando, nel 2011, su invito di un gruppo di giovani, ho accettato di candidarmi a sindaco e abbiamo vinto le elezioni con una lista civica che raccoglie sensibilità politiche diverse, ma è cementata da onestà intellettuale e materiale e amore per il nostro paese. Uno scrutinio al cardiopalmo, 288 a 282! Saremmo stati confermati cinque anni dopo con uno scarto di 70 voti.
Come ogni venerdì, la Ciurma si incontra, dopo cena, in Comune per fare il punto della situazione. Così amano definirsi gli assessori e i consiglieri di maggioranza che ho il piacere di guidare. D’un tratto mi vibra il cellulare e appare sul display il nome di Federico Gelli, l’ex vicepresidente della Giunta Regionale Toscana, ai tempi in cui ero direttore generale delle Asl, di Livorno prima e di Siena poi. Quasi dodici anni di lavoro intenso e di grandissime soddisfazioni palesate anche da riconoscimenti importanti.
Nel 2008 l’Asl 7 di Siena è stata insignita del Premio Qualità della Pubblica Amministrazione (unica Asl) per il proprio sistema organizzativo basato sul modello EFQM, (European Foundation for Quality Management) e i risultati conseguiti in ambito sanitario ed economico. Dove sta scritto che per risanare un bilancio occorra tagliare linearmente la spesa!? Nel 2009 ancora l’Asl 7 ha ricevuto dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il cosiddetto Premio dei Premi, per l’innovazione organizzativa. Ricordo che, evidenziandogli che i morti sul lavoro, argomento che gli stava molto a cuore, in provincia di Siena erano passati da sei all’anno a zero, mi rispose “Anche questa è innovazione”.
Nello stesso anno l’EFQM ha attribuito all’Asl 7 di Siena 5 stelle, prima pubblica amministrazione italiana su oltre 700, che applicavano quel modello di Total Quality, ad avere quel riconoscimento. Solo una società privata si era vista riconoscere 5 stelle.
Erano almeno 18 mesi che non sentivo Gelli e, oltre due anni, che non ci vedevamo.
“Massimo, sono diventato il responsabile PD per la sanità, vuoi fare il Commissario alla sanità in Calabria?” Mi sorprese.
“Sono ad Alfedena. Se fosse in Abruzzo o in Molise, ti direi subito di sì. Per la Calabria fammici pensare un po’”. “Mi devi dare una risposta entro domani a mezzogiorno”.
Il tempo di parlarne a casa, considerare che avrei avuto un appoggio logistico e, soprattutto, affettivo da parte dei miei zii Giulio e Lina e cugini calabresi Gennaro, Renata, Maria Patrizia, Giuliana, Daniela e Alfonso, oltre che degli amici di Vaccarizzo Albanese, Lucrezia e Antonio in primis, e l’indomani do la mia disponibilità.
Il mercoledì successivo incontro la ministra Lorenzin, che aveva apprezzato il mio curriculum.
“Mi piacciono le persone che hanno esperienze in più settori lavorativi” – esordisce – “resti nei paraggi domani pomeriggio”.
Il domani pomeriggio era il 12 marzo. Mi sono fatto trovare alla Camera dei Deputati, dove sono stato raggiunto da una telefonata proveniente da Palazzo Chigi. Ero stato nominato dal Consiglio dei Ministri “Commissario ad Acta per l’attuazione del Piano di rientro dai disavanzi del servizio sanitario della Regione Calabria”.
Le urla del presidente Oliverio, che am...

Table of contents

  1. Introduzione
  2. 1. Il mio amore per la Calabria
  3. 2. Gli inizi e una rottura senza perché
  4. 3. Oliverio: una sciagura per la sanità calabrese
  5. 4. Reggio Calabria, una provincia fuori dall’Italia e, forse, anche dalla Calabria
  6. 5. ASP di Cosenza. Ovvero… Se Atene piange, Sparta non ride.
  7. 6. “La ’ndrangheta non esiste”. Vangelo secondo Francesco Cannizzaro deputato FI di Reggio Calabria
  8. 7. I rapporti con i privati
  9. 8. L’integrazione “Mater Domini”-“Pugliese-Ciaccio”
  10. 9. I sindacati: come conquistare la loro fiducia
  11. 10. Le assunzioni, inizio di un serio conflitto con Roma
  12. 11. Il personale sanitario, le cose belle e quelle un po’ meno
  13. 12. I conti non tornano
  14. 13. Una Ministra contro, quasi due
  15. 14. La guerra dei bottoni dei 5 stelle
  16. Conclusioni. La battaglia finale
  17. Glossario
  18. Ringraziamenti