L'ultimo tabù
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L'ultimo tabù

Giornalisti, blogger e utenti dei social media alle prese con il suicidio

Carlo Bartoli

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L'ultimo tabù

Giornalisti, blogger e utenti dei social media alle prese con il suicidio

Carlo Bartoli

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Un ultimo tabù resiste ormai in una società che nella propria autorappresentazione metabolizza qualsiasi cosa: il suicidio. Giornalisti, blogger, comuni cittadini utenti dei social media non riescono a scrollarsi il peso di uno stigma secolare, retaggio di ancestrali pratiche apotropaiche e di riti pagani, che i sistemi assolutistici e poi i regimi totalitari hanno trasformato in tabù.
Nelle nostre pratiche comunicative il suicidio è avvolto da un alone di mistero e incomprensione. Se ne parla solo in occasione di singoli episodi, quasi che il fenomeno non rappresentasse la seconda causa di morte tra giovani e adolescenti.
Ma una maldestra comunicazione può generare un effetto imitativo, l’effetto Werther, una responsabilità a cui nessuno può sfuggire. Il libro affronta il tema esaminando alcuni casi esemplari: le storie di Robin Williams, Dolores O’Riordan, Océane, una giovane francese che ha integralmente rappresentato il proprio suicidio sui social, e il caso Blue Whale.

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Information

Year
2019
ISBN
9788869955907

INTRODUZIONE

Di suicidio si parla non solo male, ma anche poco nel dibattito pubblico e lo si fa in maniera discontinua, sull’onda momentanea di singoli fatti di cronaca, come se tutto potesse essere riassunto come una somma di eventi individuali. A differenza di quanto accade nella narrativa, nel cinema, nelle serie televisive, l’informazione non pone la questione all’attenzione dei cittadini. Se ne parla poco, se ne parla male e se ne parla in maniera tangente, soprattutto per gli aspetti, certo importantissimi, che riguardano l’accanimento terapeutico, il fine vita, l’eutanasia. Si tratta di problemi che scuotono e dividono la società, ma non esauriscono la totalità del problema. Sotto il tappeto resta una questione cruciale: quella che riguarda l’atto stesso di togliersi la vita, ossia la libera decisione, non determinata da drammatiche situazioni di salute o di sofferenza, con la quale un individuo pone fine alla propria vita. Eppure, le dimensioni del fenomeno sono di assoluto rilievo. L’Organizzazione mondiale della sanità inquadra così la situazione:
«Ogni anno circa 800mila persone si tolgono la vita e ci sono molte più persone che tentano il suicidio. Ogni suicidio è una tragedia che colpisce famiglie, comunità e interi paesi e ha effetti di lungo termine sulle persone coinvolte. Il suicidio si verifica in tutte le età della vita ed è stata la seconda causa di morte tra i giovani in età compresa tra i 15 e i 29 anni nel 2015. Il suicidio non si verifica solo nei paesi ad alto reddito, ma è un fenomeno globale in tutte le regioni del mondo. In effetti, oltre il 78% dei suicidi si è verificato nei paesi a basso e medio reddito nel 2015»1.
Le ultime statistiche disponibili diffuse da Eurostat ci dicono che nel 2014 si sono verificati in media undici decessi per 100mila abitanti nei 28 paesi dell’Unione europea2. Per dare un’idea dell’entità del fenomeno, solo in tre nazioni (Grecia, Romania e Cipro) si muore più spesso a causa di incidenti stradali che in seguito a suicidio3. Ma i numeri, per una volta, non ci dicono tutto; a rendere meno efficaci le cifre ci sono una serie di fattori culturali, legati allo stigma con cui viene considerato l’atto di togliersi la vita, e politici, in quanto il suicidio è un segnale di sofferenza e di scarsa efficacia e efficienza della società che pertanto genera un disagio. Infatti, «essendo un fenomeno assai delicato e considerato illegale in alcuni paesi, è molto probabile che sia sottostimato e che molti decessi possano essere erroneamente classificati come dovuti a un’altra causa di morte»4.
Per questo, il suicidio dovrebbe costituire una delle principali preoccupazioni sul fronte della salute pubblica. Il fenomeno ha una straordinaria rilevanza:
«Il rapporto pubblicato dall’Organizzazione mondiale della sanità relativo all’anno 2012 ha evidenziato, sulla base delle statistiche relative ai tassi di suicidio nel mondo, come il suicidio globale costituisca uno dei più gravi problemi di salute pubblica, rappresentando la quindicesima principale causa di morte a livello globale e la seconda principale causa di decesso nella popolazione di età compresa tra i 15 e i 29 anni»5.
I governi svolgono costanti sforzi, in particolare con campagne mirate, per indurre i cittadini ad adottare comportamenti che possano ridurre il numero di incidenti stradali, ma in molti Paesi europei non altrettanto viene fatto, a livello di campagne pubbliche, per sensibilizzare la popolazione allo sviluppo di atteggiamenti consapevoli nei confronti del suicidio. Eppure, sempre secondo l’Oms,
«Il suicidio è un serio problema di salute pubblica; tuttavia, i suicidi sono prevenibili con interventi puntuali, basati su evidenze e spesso a basso costo. Affinché le risposte nazionali siano efficaci, è necessaria una strategia multisettoriale globale di prevenzione del suicidio»6.
Dunque, riguardo al suicidio, si impone con urgenza l’avvio di un ragionamento che ha per oggetto l’informazione o le variegate forme di comunicazione che sono a nostra disposizione: è necessario per le dimensioni del fenomeno e per gli effetti che ogni atto comunicativo determina. Riuscire a avere un approccio corretto al suicidio non è facile. Su di noi pesa un retaggio secolare. La nostra società e non solo il sistema dei media, si porta sulle spalle un fardello enorme, il peso di uno stigma nato e rafforzatosi nei secoli e poi trasformato in un vero e proprio tabù. Se è vero che è tanto difficile riuscire a impostare in maniera corretta un’informazione sul suicidio, allora occorre capire perché. A questo aspetto è dedicato il capitolo di apertura, nel quale si cerca tra l’altro di dare conto molto succintamente dei principali studi sulla storia e la storia culturale del suicidio. Lo stigma e poi il tabù tendono da una parte a nascondere un fenomeno che imbarazza e mette a disagio la famiglia, gli amici, la comunità, lo Stato. Dall’altra, sul versante comunicativo, rendono appetibile un contenuto che avrebbe poco da offrire al lettore e trasformano in notizie una serie di piccoli drammi individuali che talvolta sarebbero meritevoli solo di umana compassione. Il meccanismo di rimozione ci induce ad archiviare in fretta l’argomento appena “l’emergenza” della notizia è finita. Ci sono fattori culturali e religiosi di cui tenere conto, ma senza mai perdere di vista i punti centrali su cui deve concentrarsi il giornalismo: la salvaguardia della vita umana, la protezione dei sopravvissuti che sono sottoposti a un trauma terribile, l’informazione dell’opinione pubblica su un tema così rilevante, affinché ci sia maggiore consapevolezza sulle dimensioni e sulle dinamiche del fenomeno. Fino ai primi del secolo scorso, nella civilissima Inghilterra si continuavano a pronunciare sentenze di condanna nei confronti di chi si era tolto la vita, unica eccezione al principio giuridico in base al quale la morte del colpevole estingue il reato; in tutta l’Europa fino alla Rivoluzione francese si è continuato a fare scempio del cadavere di chi si era ucciso, lo si condannava alla perdita della memoria, gettando i suoi resti nelle discariche; si impediva che alla sua anima potessero essere rivolte delle preghiere; i suoi eredi si vedevano confiscare i beni. Una serie di pratiche inumane che affondano le loro radici in riti e credenze pagane sono arrivate fino alle soglie della nostra società. Questo retaggio non si cancella con un tratto di pena. Il tabù si neutralizza solo affrontandolo e sostituendo alla rimozione, la comprensione. Senza dimenticare la compassione per un dramma che non può essere oggetto di un processo di fronte a un tribunale, come accadeva in una macabra e grottesca messa in scena che vedeva, fino alla fine del Settecento e oltre, la presenza dell’imputato imbalsamato in aula.
Una corretta informazione sul suicidio è dunque, prima di tutto, un’esigenza essenziale per la società e una via per poter ridurre l’incidenza delle morti autoinflitte, soprattutto quelle che la casistica medica definisce come “suicidi d’impulso”. Non è un caso che l’Organizzazione mondiale della sanità abbia dedicato due pubblicazioni monografiche al ruolo dei media riguardo al suicidio, senza considerare la miriade di decaloghi, linee guida, suggerimenti elaborati da centinaia di istituzioni e associazioni che si occupano del problema. Queste osservazioni sembrano smentire quanto affermato all’inizio di questo lavoro e testimoniare un’attenzione importante. In realtà, il dibattito sulle modalità attraverso cui fare informazione (e comunicazione) in materia di suicidio è rimasto confinato in una ristrettissima cerchia di professionisti. Eppure, ognuno di noi quasi ogni giorno promuove, partecipa a vario titolo o semplicemente viene a contatto con notizie di questo genere. Difficile che possa succedere diversamente, vista la diffusione del fenomeno e la rilevanza delle reazioni emotive che si producono. Ci colpisce la notorietà di chi si toglie la vita, le modalità scelte per farlo, la decisione di darne una spiegazione o rappresentazione pubblica, dalle lettere di addio così diffuse nell’Inghilterra del Settecento fino alle dirette messe in rete sui social dai protagonisti di morti autoinflitte. Il fenomeno suicidario penetra nelle nostre vite con sempre maggior frequenza: anche se il numero dei casi non aumenta, sempre meno spesso la scelta di chi ha deciso di darsi la morte resta un dramma privato e quindi le notizie sui casi di suicidio aumentano costantemente di numero e, talvolta, tengono banco nel dibattito pubblico per mesi e mesi. Queste pagine, è bene chiarirlo, non vogliono rappresentare una ricostruzione storica di come la società ha giudicato nei secoli il suicidio; non vogliono affrontare il tema dal punto di vista filosofico, non vogliono inserirsi nel complesso dibattito su eutanasia, fine vita, diritto a disporre liberamente della propria vita. Non vogliono essere una raccolta e una rielaborazione degli studi che in ambito medico e medico-statistico sono stati dedicati al tema e nemmeno sostituirsi al lavoro svolto da tante istituzioni in materia di politica sanitaria. Di tutti questi aspetti – impossibile non farlo - se ne darà conto, ma il fuoco rimarrà centrato sulle modalità con le quali si fa informazione e comunicazione nella società contemporanea. Si cercherà di analizzare, individuandone i punti critici, le modalità attraverso cui l’informazione, quella prodotta dai giornalisti e dalle testate tradizionali, si confronta con questo fenomeno e di approfondire la riflessione sul ruolo e le responsabilità dei cittadini nel momento in cui entrano nel flusso comunicativo e se ne appropriano. In passato, i mutamenti nella concezione e nella valutazione dell’atto suicidario sono stati scanditi da un ritmo secolare. Dall’Ottocento in poi, il ruolo dell’informazione, all’inizio con i primi fogli a stampa e poi in un crescendo sempre più tumultuoso, hanno accelerato questo ritmo. A dettare il cambiamento non sono più solo i grandi intellettuali, i filosofi che hanno scandito le epoche, i grandi drammaturghi. Siamo tutti noi a contribuire a costruire la nostra visione su un fenomeno così importante e drammatico, sulla morte liberamente scelta.
DI sicuro, l’informazione sui casi di suicidio è uno dei banchi di prova per un giornalismo rispettoso non solo della deontologia – che in Italia si occupa ben poco del tema – ma anche dell’etica, di un’informazione che abbia a cuore il necessario rispetto dovuto nei confronti dei protagonisti, delle persone indirettamente coinvolte, dei lettori. Il suicidio è l’esito di un disagio fortissimo, a cui il soggetto decide di mettere fine in maniera traumatica alla propria vita, rinunciando definitivamente a percorrere la strada, spesso lunga e dolorosa, della cura. Moltissimi studi sono stati condotti su questo fenomeno: si tratta di studi di carattere storico e culturale o giuridico; del tema si è occupata la sociologia, ma anche la psichiatria e gli esperti di politica sanitaria, molte organizzazioni internazionali, centinaia di associazioni di volontariato, numerose agenzie governative. Dalla vasta letteratura in materia emerge la complessità del fenomeno, le sue variazioni nel corso dei secoli, lo stratificarsi di condizioni individuali e sociali che hanno favorito la sua espansione o la sua contrazione. Questo studio non ha la finalità di condurre a sintesi i tanti contributi prodotti che, peraltro, hanno talvolta spinto gli studiosi a conclusioni discordanti. Non ci occuperemo in maniera diretta neppure dell’individuazione delle strategie più opportune di prevenzione: molte istituzioni nazionali e internazionali si sono dedicate a questa ricerca e sono affiancate da un gran numero di associazioni, fondazioni e centri di ricerca. Non si tratta neanche di concentrarsi solo su una ricostruzione storico-culturale del fenomeno, anche se a questo aspetto è stato necessario dare adeguato spazio. Il cuore della riflessione condotta in queste pagine riguarda la ricerca del modo più opportuno con il quale i media possono affrontare questo problema, ricerca che non può prescindere da una approfondita consapevolezza del fenomeno e delle sue implicazioni.
Ma non divaghiamo cercando di eludere la domanda che ci assilla e andiamo al cuore del problema: i media svolgono così male il proprio compito? Difficile dare una risposta ben ponderata: i comportamenti sbagliati o addirittura censurabili saltano agli occhi molto di più delle molte pratiche corrette e certamente molto rimane da fare, ma dare una misura precisa dell’adeguatezza o meno di quanto viene prodotto sul tema da parte del sistema dell’informazione in un determinato paese non è semplice. Può comunque essere interessante consultare il termometro di qualche indagine statistica. Diversi sono, infatti, gli studi sul comportamento tenuto dai media a fronte del suicidio. Uno di questi, realizzato in California, è stato condotto in modo molto approfondito, anche se la dimensione geografica e temporale è inevitabilmente ristretta. I risultati dello studio realizzato da Theresa Ly, Anara Guard, Sandra Black, hanno portato le autrici a concludere che
«i quotidiani e le televisioni della California negli ultimi sei mesi del 2011 non hanno rispettato coerentemente le Recommendations per la segnalazione dei suicidi. Sebbene i servizi a carattere sensazionalistico non abbiano costituito la prassi abituale, si potrebbe fare molto di più per promuovere i concetti di prevenzione, informare il pubblico sulle risorse disponibili e ridurre l’impatto a livello tipografico»7.
I media si sono dimostrati sufficientemente attenti a rispettare le Recommendations per quanto riguarda la necessità di non utilizzare un linguaggio sensazionalistico e di non riservare eccessivo spazio a questo genere di notizie. Al contrario, è stata riscontrata scarsa sensibilità circa la necessità di fornire informazioni riguardanti i servizi di aiuto e di prevenzione. Le Recommendations sollecitano l’adozione di queste pratiche
«perché promuovono il messaggio di prevenzione del suicidio e rendono la comunità consapevole delle risorse per aiutare i soggetti in difficoltà. Si può fare molto di più per fornire regolarmente numeri di telefono di aiuto quando si riferiscono casi di suicidio e per far conoscere i programmi e le attività di prevenzione»8.
Le ricercatrici hanno accertato che solo l’8% degli articoli giornalistici e appena il 2% dei servizi televisivi lo hanno fatto9. Le testate non si preoccupano a sufficienza di informare sui segnali di allarme e i fattori di rischio che possono aiutare a prevenire un suicidio. Questo scrupolo è stato totalmente disatteso dalle televisioni californiane, mentre i quotidiani si sono comportati in maniera confusa: il 56% degli articoli non ha fornito alcuna indicazione, l’11% ha elencato un solo fattore di allarme e il 40% un fattore di rischio. Sono scarsi, per fortuna, i casi in cui vengono riportati brani tratti da lettere o biglietti di addio, ma è anche molto bassa la percentuale di articoli che utilizzano termini appropriati, un’accortezza che quasi mai viene adottata dalle televisioni.
A questo proposito occorre precisare una questione: il punto non è costituito dalla ricerca di una ricetta universale che non esiste, di un canovaccio da utilizzare per casi molto diversi quanto a protagonisti, motivazioni, tempi e modalità di attuazione. Occorre piuttosto tentare di mettere a fuoco i vari aspetti della materia, in modo da promuovere un atteggiamento responsabile e consapevole della complessità del tema. A uno sguardo superficiale potremmo chiederci per quale motivo può essere utile indagare sul rapporto tra media e suicidio. Forse, potremmo chiederci, non sarebbe meglio evitare di diffondere notizie su casi di suicidio limitando così qualsiasi possibile effetto imitativo? In realtà non possiamo evitare di darne notizia: l’autocensura non è e non può mai essere la soluzione; il punto nodale è come gestire l’informazione su questi eventi. Parlare di suicidio è inevitabile per le dimensioni del fenomeno anche se l’attenzione dei media può provocare possibili effetti emulativi, soprattutto se le notizie su eventi suicidari non sono prodotte con attenzione e consapevolezza. Allo stesso tempo, però, una informazione attenta può diffondere una consapevolezza sui fattori di rischio, sui segnali di allarme e sulla possibilità di prevenire il suicidio.
Per informazione corretta si intende insomma un’informazione non omertosa o reticente, ma neanche un giornalismo che sfrutta un evento tragico per lucrare in termini di contatti o di copie vendute senza cautela e rispetto. Ovviamente, l’equilibrata trattazione di un caso di suicidio dipende da moltissimi fattori: dalla notorietà delle persone coinvolte, dalle modalità più o meno pubblicamente rilevanti con cui viene attuato, dai suoi risvolti sociali, dalla frequenza con cui si verificano i casi e da altri fattori tra cui, non ultimo, il possibile effetto emulativo. Non serve a niente tentare di stilare una tipizzazione dei vari casi di suicidio, incrociando diverse variabili, al fine di ipotizzare una serie di possibili risposte standard alle varie casistiche che un giornalista potrebbe essere costretto a affrontare. Non esiste un algoritmo che possa risolvere il problema di come scrivere un articolo corretto e rispettoso su uno o più casi di suicidio; serve la sensibilità, l’attenzione, la cultura, l’etica di un giornalista. La soluzione al problema di una corretta trattazione di questo fenomeno sta nel metodo, nell’accurata valutazione di tutti gli elementi immersi in un contesto sociale che inevitabilmente reagisce alla diffusione della notizia. Insomma, nell’affrontare un tema così complesso, non possiamo ignorare la responsabilità sociale a cui deve far fronte un giornalista.
Occorre dunque affrontare la delicata questione dell’esistenza e del peso del fenomeno imitativo, dell’effetto copycat o effetto Werther, com’è ormai definito questo fenomeno dopo la pubblicazione del celebre romanzo di Wolfgang Goethe. Proprio l’analisi di questo aspetto e il tentativo di darne una definizione meno approssimativa è un elemento decisivo per valutare i comportamenti comunicativi dei vari soggetti. Se non c’è rischio di imitazione, se le notizie di suicidio non generano nuovi casi di morte autoinflitta, se non inducono persone fragili e a rischio a prendere una de...

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