I treni della felicità
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I treni della felicità

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Giovanni Rinaldi, tessendo sottili fili di memorie sparse, anni fa si è messo in cerca dei bambini che erano saliti su quelli che vennero chiamati «I treni della felicità». Si trattava di una straordinaria rete di solidarietà sostenuta dalla neonata UDI e dal PCI che, a partire dal secondo dopoguerra, affidò per mesi (talvolta anni) a famiglie del Centro Italia oltre 70.000 figli del Sud vittime delle conseguenze belliche, di rivolte operaie sedate col sangue, di calamità naturali. Bambini che lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese. Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati. Il libro ricostruisce le storie di alcuni di quei bambini che su malandati vagoni ferroviari arrivarono al Nord e racconta la storia di «due Italie» e di un Sud ancora socialmente arretratissimo.

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Information

Publisher
Ediesse
Year
2011
Print ISBN
9788823013353
eBook ISBN
9788823015760
Zazà e i maccheroni nelle tasche
Sto leggendo nel mio studio il libro Cari bambini vi aspettiamo con gioia. Sono passati alcuni mesi dagli ultimi incontri con i protagonisti del viaggio dei bambini di San Severo. È una miniera di notizie. Leggo della fatica organizzativa di questi spontanei comitati alle prese con problemi mai affrontati prima: la selezione dei bisognosi evitando preclusioni politiche, la predisposizione dei mezzi per i trasferimenti, la selezione e scelta delle famiglie ospitanti.
Una di queste «missioni», forse la più imponente, fu quella che dal Natale 1946 all’estate del 1947 trasportò 12.000 bambini napoletani verso le famiglie del Nord che si erano offerte di ospitarli e accudirli per alcuni mesi. La campagna «per la salvezza dei bambini di Napoli» fu la più estesa e duratura, quella che nella vita del paese lasciò il segno più profondo.
Uno dei principali organizzatori fu Gaetano Macchiaroli, personalità della vita culturale e dell’editoria napoletana, che in una bellissima testimonianza raccontò le modalità e gli obiettivi del grande lavoro collettivo a favore dell’infanzia. Presidente del Comitato era Giorgio Amendola, mentre tra i partecipanti vi erano Litza Cittanova e Maurizio Valenzi, Mario Alicata, Maria Antonietta Macciocchi, Luciana Viviani figlia di Raffaele, il grande artista napoletano, Francesca Spada e Rubes Triva sindaco di Modena.
Napoli era stata, tra le grandi città, la più devastata dalla guerra. Gli strati popolari erano i più colpiti e grande era l’angoscia per la salute dei bambini. Ambienti malsani e alimentazione inadeguata costituivano terreno di coltura per ogni tipo di malattia. Mancava, a livello familiare e di pubbliche strutture, la possibilità di prevenzione e di cura.
Giorgio Amendola – in un articolo per La Voce del 22 dicembre 1946 – annuncia così l’avvenuta costituzione del comitato promotore: «Il dovere più imperioso è quello di salvare i bimbi di Napoli, il nostro patrimonio più prezioso, la garanzia del nostro domani […] Convinti della necessità di agire e di fare qualche cosa, anche se limitata, ma subito, onde portare un primo aiuto in attesa di più vaste e durature soluzioni degli enormi problemi incombenti, ci siamo raccolti in un primo gruppo di pediatri, insegnanti, uomini e donne di buona volontà per lavorare uniti per i bimbi di Napoli. Fiduciosi che altri cittadini di ogni classe sociale e opinione politica vorranno unirsi a noi, ci siamo proposti un primo obiettivo pratico: strappare per questi duri mesi invernali qualche migliaio di bimbi al freddo e alla fame inviandoli presso famiglie che possono offrire loro una generosa ospitalità. Già tra il ’45 e il ’46 più di trentamila bambini di Milano, Torino, Roma e Cassino sono stati accolti nelle regioni del Centro e del Nord d’Italia con una grande manifestazione di solidarietà nazionale che ha permesso di salvarli dalle sofferenze e dalle malattie e restituirli dopo mesi alle loro famiglie, irrobustiti e rasserenati. Quest’anno abbiamo pensato di convogliare verso Napoli, la più devastata tra le grandi città, il movimento di solidarietà e abbiamo lanciato un appello che sarà accolto, come già testimoniano le autorevoli adesioni dei sindaci di Bologna, Modena, Reggio Emilia, mentre altre ne stanno giungendo da Como, Siena, Livorno ecc. Ma se possiamo contare sulla solidarietà attiva dei lavoratori del Nord e del Centro-Italia, c’è un lavoro non facile che spetta a noi, a Napoli; per reperire i bambini e metterli in condizione di poter partire: un lavoro difficile che esige mezzi finanziari, cure, attenzioni infinite. Ci sorregga il pensiero che quando i bimbi ritorneranno fisicamente irrobustiti avremo anche rafforzato la salute morale del nostro paese e stretto più fraterni legami tra Nord e Sud. In questo grande miracolo di solidarietà umana e nazionale che farà dei bimbi di Napoli gli amici e i fratelli dei bimbi emiliani, toscani e di altre regioni, noi vediamo la premessa di una più umana e fraterna convivenza di tutti gli italiani».
Mi domando chi possa ancora raccontarci queste storie. I mezzi per una ricerca di massa, sostenuta magari da sindacati e partiti, non siamo riusciti a trovarli. Stiamo procedendo in modo saltuario e frammentario, con richieste di informazioni attraverso e-mail e telefonate a quanti lavorano in istituti di ricerca storica, archivi e Camere del lavoro. Talvolta rispondono di aver sentito parlare di questo movimento, in alcuni altri casi arrivano anche indicazioni di tesi di laurea, fotografie o citazioni tratte da libri sul ruolo delle donne nella militanza politica e sindacale. Non molto, insomma; quindi il libro che ho davanti sembra essere l’unico vero documento a cui riferirsi.
Tra le tante e-mail inviate in giro per l’Italia, una l’ho diretta a Elisabetta Perazzo, per tutti Betty, che lavora alla Camera del lavoro metropolitana di Bologna ed è presidente dell’Archivio storico sindacale «Paolo Pedrelli». Betty mi ha risposto scrivendo di essere rimasta affascinata dalla storia dei bambini e proprio l’averla riproposta in ogni occasione con amici e colleghi ha sortito l’effetto desiderato. In una serata in trattoria una sua cara amica le ha detto che anche suo padre aveva ospitato un bambino napoletano nei primi anni del dopoguerra. Nella e-mail Betty mi indicava i recapiti della sua amica Cristina, che appena ricevuta la mia richiesta di ulteriori informazioni ed eventuale disponibilità a collaborare, ha immediatamente risposto:
Bologna, 20 aprile 2005
Caro Rinaldi, Le premetto la mia disponibilità ad un incontro per gli eventuali approfondimenti. Mi è comunque indispensabile precisarLe che la storia a cui faccio riferimento riguarda la mia famiglia paterna che negli anni dell’immediato dopoguerra (1945-1946) su richiesta dell’Amministrazione del Comune di Crespellano (luogo di residenza del mio papà), organizzatore insieme alle famiglie del comune, dette la propria disponibilità ad ospitare i Bambini del Sud.
Quello che la mia nonna prima e mio padre dopo mi hanno sempre raccontato (e quindi ho dei ricordi incerti) è stato che la mia famiglia ospitò due fratelli della Campania, la maggiore era una bambina e il minore un maschietto di 6/7 anni.
Il bambino è rimasto diversi mesi presso la mia famiglia e se non mi inganno ha superato i 12 mesi, comunque il rapporto è stato tanto importante sia per i ragazzi che per la mia famiglia, tanto che il Sig. Pasquale Matrisciano, così si chiama il bambino di allora, ha continuato a scrivere a mio padre e in alcune occasioni a salire da Portici (NA) a Bologna, anzi per la precisione a Crespellano, per venire a trovare mio padre o per fare conoscere la moglie Stella e i figli.
Altro non so. Per contattare eventualmente mio padre, possiamo fissare un incontro purché prima io possa avvertirlo e chiedere la sua disponibilità anche perché mio padre è già un po’ anziano, ha 82 anni.
Spero comunque di esserle stata un po’ di aiuto
A presto Cristina Bertusi
Passato qualche giorno telefono alla Bertusi. Cristina mi fissa un appuntamento con il papà a Crespellano. Non posso aspettare di avere a disposizione la troupe di Piva e quindi, prendo la mia videocamera e parto in treno. Una volta arrivato a Bologna, trovo ad attendermi Betty Perazzo, felicissima di essere stata mio tramite per il colloquio, e più tardi incontriamo Cristina e suo marito. Andiamo a Crespellano, che è a circa 20 chilometri da Bologna verso l’Appennino modenese.
In un piccolo appartamento, al primo piano di una casa ricoperta di mattoncini rossi con l’ingresso direttamente sulla strada che attraversa il paese, ci aspettano Giorgio Bertusi e la sua seconda moglie Ida Zini. Sono già alla finestra, guardano in strada il nostro arrivo.
Saliamo, Cristina e Betty mi presentano come «lo storico venuto dalla Puglia» e poi ci accomodiamo nel loro piccolo tinello. Li faccio sedere vicini, di fronte a me e alla mia piccola videocamera che poggio, con un treppiedi, al centro del tavolo. È il mio modo di prendere appunti, gli spiego.
Giorgio dice di non aver mai detto nulla di questa storia a nessuno, ma Betty non è d’accordo: «Quando io ho raccontato per caso, mentre eravamo a cena con la Cristina, che era venuto Giovanni, che era venuto a trovarmi, e allora ci siamo messi a parlare… Allora io dico: “Lui cerca i bambini, bambini adottati per un po’ di tempo dalle famiglie quassù”, e Cristina ha subito detto: “Anche nella famiglia del mio babbo!”, e io: “… ma non è possibile!”. Quindi a Cristina lei l’ha raccontata questa storia, eh?».
Giorgio spiega allora che la figlia è nata dopo questo episodio: «Lei ha 55 anni e io parlo del ’45. Di questa storia forse ne ha sentito parlare in famiglia e solo quando mi ha parlato di questa ricerca ha cominciato a chiederne di più». In quel 1945 Giorgio era appena rientrato dopo quattro anni di guerra, subito dopo la Liberazione, perché dopo l’8 settembre era scappato.
«In quegli anni un mio fratello era ancora prigioniero in India, a Bombay, è tornato a casa dopo undici anni, sì. L’altro mio fratello, che era in Jugoslavia, riuscì a venire a casa. Io ero al confine. Dopo quattro anni riuscii a tornare… a piedi! A piedi, rischiando grosso, perché allora se ti prendevano i tedeschi o le brigate nere ti fucilavano senza processo!».
Si alza scusandosi e torna con una vecchia scatola piena di documenti e fotografie. Tira fuori un cartoncino che ci tiene a farmi vedere e che gli ricorda quei momenti difficili. «Le voglio fare vedere… loro, i tedeschi, lo chiamavano “Papìr”. Cos’è il Papìr? Era con il Papìr che potevi girare…».
E la moglie Ida spiega «Il lasciapassare».
«Ecco, era un tesserino per circolare, un documento di riconoscimento rilasciato dal comando tedesco. Repubblica Italiana e Repubblica Sociale Italiana. Con quel tesserino lì, ovviamente falso, allora potevo girare da Bologna a Crespellano. Quando incontravo le pattuglie tedesche e mi chiedevano: “Papìr”, rispondevo tranquillo: “Eccolo, pronto!”. E allora mi mandavano via».
«Crespellano è un paese di poche migliaia di abitanti. L’amministrazione comunale di allora, dopo la guerra, si interessò per questi bambini, che erano stati abbandonati. Li accolse e invitò la popolazione ad ospitarli. Quindi noi facemmo del nostro meglio. Allora era stata fatta una propaganda quasi capillare, e il Comune si fece promotore, con il passaparola…».
Il principale organizzatore di questi viaggi, Gaetano Macchiaroli, descrive un episodio avvenuto alla partenza del primo convoglio da Napoli, che evidenzia le condizioni familiari di estrema povertà che si lasciavano alle spalle questi bambini: «Il primo treno era pronto. Tutto era stato disposto con cura. I bambini affluivano all’Albergo dei poveri per le docce e per la colazione calda. Lì ricevevano i cappotti che ci aveva fatto avere il ministro per l’assistenza post-bellica, Emilio Sereni. Distribuiti i cappotti secondo le “taglie”, le compagne dell’UDI cucivano i numeri corrispondenti agli elenchi e alle schede sociosanitarie che avrebbero seguito i bambini. Ogni aula corrispondeva all’autobus e poi al vagone ferroviario. Mi pareva, come responsabile dei trasporti, che tutto fosse stato previsto. Invece non avevamo previsto che alla stazione le madri avrebbero sottratto i cappotti ai loro figli in partenza per darli ai fratelli che rimanevano a casa. Ai partenti avremmo pensato noi o le famiglie ospiti!
Che fare? Le madri erano andate via, erano scomparsi i cappotti e con essi i numeri di riferimento. Non partire significava una resa per il momento, un ingorgo per il domani, perché erano stati programmati i treni successivi e uno choc tale da compromettere il prestigio del Comitato e la realizzazione dei suoi obiettivi. Ma portare i bambini nel Nord mal coperti, in una fredda giornata di fine gennaio, era un rischio grande. Noi napoletani eravamo preoccupati sul piano umano e anche politico. I modenesi Silvestri e Triva spinsero per la partenza, suggerendo di avvertire Bologna e Modena dove il treno era diretto. Avevamo stima dei compagni di Modena e avevamo visto il loro stile di lavoro nei giorni della loro permanenza a Napoli. Ci lasciammo convincere dalla loro fiducia nello slancio morale e nella capacità organizzativa del popolo emiliano. Chiedemmo alle ferrovie se potevano rafforzare il riscaldamento del treno e quanto tempo impiegavano i telegrammi di servizio da stazione a stazione. Le risposte furono incoraggianti. Così mentre i ferrovieri aggiungevano un secondo carro riscaldatore, telegrafai alle stazioni di Bologna e di Modena chiedendo di avvertire Giuseppe Dozza e Alfeo Corassori e firmando, Giorgio Amendola, presidente del Comitato.
Per fortuna le madri avevano sottratto i cappotti quando i bambini erano già entrati nei vagoni secondo il “menabò” e se li erano fatti lanciare dai finestrini. Evidentemente fu una sorpresa per noi, ma non per i figli che dovevano essere stati rapidamente istruiti, tanto veloce fu l’operazione. Disponemmo che nessun trasferimento fosse consentito e così il riconoscimento vagone per vagone fu semplificato». Quindi il treno partì.
Questa era la Napoli che lasciavano i bambini, ma guardando Giorgio gli domando: anche voi però eravate appena tornati dalla guerra… stavate male, certo non bene, perché la vita era difficile e precaria. A un certo punto il Comune vi chiede: «Chi vuol ospitare dei bambini?», e voi fate una scelta che già oggi, per chi sta bene, è difficile. Chi vi dava questa forza?
«Bè, lo spirito di solidarietà e poi, avendo una conoscenza diretta, perché anche noi stavamo male, figurarsi queste famiglie abbandonate, hai capito? I miei genitori erano operai. Mio padre Giovanni faceva il muratore, qualche volta l’oste, il carpentiere e mia madre, Maria Zuffi, la sarta. In quel momento ero militare e quindi mi adoperavo per guadagnare qualche cosa.
Lui arrivò dopo il raduno che fecero in Comune. Allora mio fratello andò a prelevare questo bambino e lo portò a casa. Io ne potevo prendere uno, Pasquale, mentre il fratello Aldo era andato in un’altra famiglia, non so dove. Allora, quotidianamente, questo bambino voleva andare a prendere o a trovare suo fratello.
Io avevo ventitrè anni. In famiglia eravamo in cinque. Però c’era una sorella più grande che era già sposata, la Pina. Sì, cinque fratelli, di cui quattro in casa» e, guardando fuori dalla finestra, indica un punto indefinito «… in quella casa lì, sull’angolo. Pasquale l’abbiamo sistemato in un letto in una camera vicino a noi…».
Ma quante famiglie si offrirono per questa ospitalità?
«Non ricordo quante famiglie furono coinvolte… se ci fosse lui qua, Pasquale, vi direbbe il numero esatto, perché andava a interpellare tutti, oltre suo fratello, anche gli altri, e delle volte tardava, e mia mamma diceva: “Ma dove sei stato, Pasquale?”, ché all’ora di pranzo bisognava essere a casa, invece lui andava a trovare gli altri bambini… così diceva!» e ride bonario. «Ogni famiglia manteneva il bambino che le era stato affidato. Non avevamo tempo per incontrarci tra di noi. Non c’erano mica allora delle possibilità economiche per fare delle festicciole. Credo ci fosse ancora la carta annonaria, nel ’45, ’46. Ero tornato dalla guerra, avevo ventitrè anni, ero un meccanico, sì, avevo fatto un po’ di scuole serali e allora erano richiesti quelli che avevano le mani in pasta nella meccanica e io trovai subito lavoro, in un’officina specializzata, la Cevolani», dove facevano macchine e linee automatiche per la produzione di scatole metalliche in banda stagnata.
E Betty, la sindacalista, aggiunge con prontezza: «Aristocrazia operaia!?».
«Sì esattamente, aristocrazia operaia», conferma Giorgio.
«È un aristocratico!» ironizza Betty, e Giorgio, orgoglioso, «Operaio, però! Nei confronti di uno che va a zappare la terra… E allora eravamo anche remunerati un po’ meglio!», e Betty chiude: «Molto meglio…».
Qualcuno controllava come gestivate l’affidamento?
«Era una cosa fatta in famiglia e stava al buon cuore della gente trattarli bene. Si figuri che questo bambino, perché da noi una volta era costume fare la polenta, diceva: “Ma che cos’è quella roba là? Io non ne voglio!”. Pasquale la rifiutava, la mangiavamo noi e buonanotte. Mangiava i maccheroni, ma della polenta non ne voleva sapere.
E mi ricordo un piccolo particolare: allora c’era in voga quella famosa canzone Dove sta Zazà…? e mia mamma era sempre assillata da questo bambino che cantava “Mamma! e dove sta Zazà?”, “Dimmi nonna, ma dove sta Zazà?”, “Poverino, che vuoi che sappia io, sono sempre qua in casa!”. Mia mamma, era anche un po’ avanti con l’età, capito? e quindi…».
Ricordo che Michele Straniero, nel suo saggio Antistoria d’Italia in canzonetta, scrivendo di questo motivetto dà concisamente il quadro della Napoli del dopoguerra: «Nella confusione che segue la fine delle ostilità, mentre si tirano le somme dell’immenso disastro, gli italiani si mettono a cantare con volenterosa allegria una canzone di tipo infantile, Dove sta Zazà: c’è dentro la festa di San Ge...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Prefazione
  5. Prima di partire
  6. Parte prima: Pane e lavoro! I figli della rivolta
  7. Parte seconda: I comunisti mangiano i bambini
  8. Riferimenti bibliografici minimi
  9. Ringraziamenti