Fiat, la frontiera del Sud
La frontiera meridionale della crisi industriale inizia alla fermata del treno della Circumvesuviana di Pomigliano d’Arco. Basta scendere le scale, passare davanti ai cancelli chiusi delle prime aziende, osservare lo squallore attorno, parlare con i cassintegrati impauriti ed emerge subito un’altra dimensione. Da qui in giù il dramma sociale italiano appare al primo sguardo subito più grave. La recessione colpisce ovunque, in tutto il Paese lavoratori e famiglie sono in difficoltà. Ma a Pomigliano, paradigma dell’industrializzazione del Mezzogiorno, appare evidente che il separatismo non è solo uno slogan della rozza propaganda leghista, c’è qualche cosa di più e di più pericoloso. Questa crisi accentua le differenze anche tra le fabbriche in difficoltà al Nord e al Sud: c’è chi nelle difficoltà può contare sulla comunità, sulla solidarietà diffusa e chi, invece, deve fare i conti con la rabbia, la criminalità, la disgregazione. Stiamo perdendo per strada un pezzo d’Italia, forse l’abbiamo già perso.
«Siamo alla disperazione, il tessuto sociale non tiene, se la Fiat non produce più si ferma tutto, la gente resta in ostaggio della criminalità, la camorra ci assedia» racconta Andrea Amendola, 51 anni, sindacalista della Fiom, che si sbatte dalla mattina alla sera con i suoi pochi compagni per tenere in piedi il sindacato, dare una mano ai lavoratori, ai disoccupati. Indica con la mano una grande area industriale, delimitata da un alto muro e da cancelli di ferro. Si chiama «Consorzio il sole». All’interno operano decine di piccole imprese, spesso al servizio dei grandi nomi della zona. «Qui dentro il sindacato non può entrare, non possiamo nemmeno varcare il cancello a meno di non voler rischiare la nostro incolumità, vedi che situazione…».
Nella sua stanza sono appese le foto di famiglia, il Cristo del Cimabue, una vecchia dedica di Umberto Terracini. In questi simboli è racchiusa la missione di chi vive sul territorio in mezzo all’emergenza. Ci sono i sindacalisti e i sacerdoti. La Fiom e la parrocchia accanto guidata da don Antonio Gambardella non negano mai un aiuto. C’è chi si fa controllare i giorni di cassa integrazione e chi invoca una mano, dieci euro per comprare il pane, per fare la spesa. «Ormai il sindacato fa la carità e mi chiedo, davanti a questi drammi, se non dobbiamo pensare a qualcosa di diverso, se il nostro lavoro sia obbligato a cambiare, non ci occupiamo solo di vertenze e contratti: ci stiano sostituendo alla politica, al governo che non si vedono, sono scomparsi» sostiene Amendola.
Pomigliano è una città industriale di 43 mila abitanti. Tutto ruota attorno alla Fiat. La grande fabbrica è appena fuori il centro abitato. Sergio Marchionne ha dato una ripulita all’immagine. Lo stabilimento è stato dedicato al filosofo Giovan Battista Vico, la palazzina dell’ingresso è stata sgombrata dai vecchi simboli dell’Alfa Romeo (il biscione degli Sforza mai dimenticato), sono stati messi nuovi sistemi di controllo. La crisi ha svuotato le linee. Da oltre un anno si lavora tre o quattro giorni al mese. Il Lingotto qui occupa 5193 dipendenti diretti (4720 operai e 473 impiegati), dal 2003 a oggi sono uscite più di 2500 persone. L’età media è bassissima, quasi tutti giovani sotto i trent’anni. I contratti a termine sono i primi a essere eliminati, come se essere giovani fosse la colpa più grave in quest’Italia.
Dall’estate 2008 i lavoratori sono in cassa integrazione, è finita quella ordinaria di 52 settimane, è iniziata quella straordinaria. Per andare dove? Non si sa. Sulle linee si producono l’Alfa 159 e la 147, modelli vecchi, esclusi dai benefici degli incentivi. I vantaggi sono andati alla Panda, alla 500, che la Fiat produce in Polonia. La Fiat di Pomigliano vale il 20% del Pil della Regione Campania (Bassolino ha dato una mano ai cassintegrati con corsi di formazione, finanziati con fondi europei), ma oggi non vede la luce, così come l’impianto di Termini Imerese (abbandonato dal Lingotto, non produrrà più auto nel 2011 e sarà riconvertito in qualche cosa di misterioso) e quello di Pratola Serra, dove si producono motori e i 1400 addetti sono a casa. Melfi, l’impianto più moderno, funziona anche se non è mancata la Cig ed è ormai svanita l’illusione del «prato verde», della fabbrica non conflittuale.
La fabbrica di Pomigliano d’Arco non è una creatura della Fiat. Ha una storia diversa, è stata progettata e realizzata dall’Alfa Romeo. È diventata di proprietà del Lingotto nel 1986 quando il governo di Bettino Craxi spinse l’Iri a vendere la casa automobilistica milanese alla Fiat, rinunciando all’offerta della Ford probabilmente più alta. L’impianto di Pomigliano portava fino a poco tempo fa il segno distintivo del marchio Alfa Romeo e proprio la vecchia casa del Biscione inventò negli anni sessanta lo sviluppo dell’industria dell’auto nel Mezzogiorno. È bene che, storicamente, si tengano a mente i fatti e le posizioni proprio nel momento in cui la multinazionale di Torino che guarda a Detroit conferma la sua vocazione nazionale e poi passa a chiudere fabbriche e taglia posti di lavoro in Italia. Già nel 1966 Giuseppe Luraghi, allora alla guida dell’Alfa Romeo, propose all’Iri la costruzione di un nuovo grande impianto produttivo a Pomigliano d’Arco che si sarebbe aggiunto a quello di Arese, alle porte di Milano. Quel progetto, immediatamente ostacolato dalla Fiat con tutti gli strumenti possibili, rappresentava una importante, discussa novità in quegli anni caratterizzati dalla fuga dal Sud di milioni di persone che andavano a cercare lavoro e fortuna nelle grandi concentrazioni industriali del Nord. Fu Aldo Moro a porre la prima pietra dello stabilimento campano il 29 aprile 1968, le prime linee di produzione iniziarono a funzionare nel febbraio 1972.
Nonostante il successo dell’industria pubblica che allora realizzava un grande progetto anche se denso di problemi e di incognite, Pomigliano mantenne, anzi ha sempre mantenuto, le caratteristiche di un’iniziativa scandalosa che turbava gli interessi prioritari degli Agnelli e poi perché «i lavoratori erano assenteisti, i sindacati ingovernabili e si sa come sono i meridionali…». Questa campagna iniziò quando Luraghi e l’Iri decisero di costruire la fabbrica ed è poi continuata per anni. L’avversione e la critica totale verso Pomigliano erano alimentate da fatti e problemi concreti (le indebite intromissioni della politica, le continue tensioni sociali, la minaccia della camorra), ma spesso prevaleva la speculazione politica e un evidente pregiudizio antimeridionale.
A questo proposito è utile ricordare che gli Agnelli e la Fiat fino alla fine degli anni sessanta non avevano mai pensato alcuna strategia di sviluppo al Sud, né tantomeno avevano pianificato e realizzato un investimento produttivo nel Mezzogiorno. I «terroni» prendevano il treno e andavano a Torino per consumare la vita alla catena di montaggio a Rivalta e a Mirafiori. Ma la Fiat non era mai scesa al Sud. Oggi è utile scavare un po’ nella storia e ricordare che Gianni Agnelli nel febbraio 1969, quindi quando Pomigliano era già in costruzione, riferì alla commissione Industria della Camera, presieduta da Antonio Giolitti, che non era intenzione della Fiat dislocare alcuna iniziativa nel Mezzogiorno e che l’80% degli investimenti del gruppo era concentrato a Torino, il 10% nell’area del Mercato Comune, al Sud «abbiamo solo l’impianto di montaggio in Sicilia». Agnelli negava di dover costruire altri impianti per almeno un decennio, perché «abbiamo visto che il solo normale processo tecnologico porterà la nostra capacità produttiva a un livello superiore a quello che saranno, nel 1978, le possibilità di assorbimento del mercato».
Ma evidentemente il progetto di Pomigliano, davvero un’idea di industrializzazione coraggiosa e forse temeraria per l’impatto sociale ma anche per il suo valore imprenditoriale e di mercato, aveva suscitato qualche dubbio ai vertici della Fiat tanto che nell’autunno del 1969, passati appena sei mesi dalle affermazioni di Gianni Agnelli, il Lingotto annunciava in pompa magna un nuovo piano di investimenti per il Mezzogiorno da realizzare tra i 1970 e il 1972, in particolare con la costruzione degli stabilimenti di Cassino e di Termoli dotati di una capacità produttiva complessiva di 500 mila vetture l’anno. Così, sotto la spinta competitiva dell’industria di Stato, anche la Fiat scese al Sud dove si è sempre trovata bene e dove ancora oggi mantiene due tra le maggiori fabbriche: Melfi e Pomigliano, appunto. Ma la realtà oggi non rassicura.
I contratti a termine, gli interinali vengono falcidiati senza pietà. Tutti a casa. Sono i giovani a pagare per primi gli effetti della crisi e delle scelte della Fiat. Il direttore dell’Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Napoli, don Aniello Tortora, ha scritto una lettera a Marchionne all’inizio di gennaio 2010 per chiedergli «il coraggio del cambiamento», cioè di garantire il lavoro a quei 93 giovani operai di Pomigliano d’Arco il cui contratto a termine, scaduto il 31 dicembre 2009, non è stato rinnovato. «I soldi non sono tutto» scrive don Aniello, «nella vita esistono altri valori e non dimentichiamo mai che un giorno tutti risponderemo al Signore delle nostre azioni. E allora le chiedo il coraggio di mettersi nei panni di tanti papà e mamme che chiedono solo di guardare negli occhi i loro figli, senza sentirsi uomini inutili, solo perché stanno perdendo un lavoro, senza nessuna colpa». La lettera continua: «A nome del vescovo ho partecipato anche all’incontro del 30 dicembre in Prefettura a Napoli e devo dire che mi sono molto arrabbiato per l’assenza di rappresentanti autorevoli della Fiat. È stato un atto di un’arroganza unica, quanto più di disumano e di antidemocratico ci sia al mondo, e noi volevamo solo confrontarci sul futuro dei lavoratori e della fabbrica di Pomigliano. Non ci si comporta così nella vita. Qui si tratta di persone, non di cose». Ma la Fiat ha ben altro a cui pensare, altri sono i suoi obiettivi e le buone maniere non sono adatte al momento.
Il 22 dicembre 2009 Sergio Marchionne ha illustrato a governo e sindacati il piano strategico della Fiat per l’Italia, non prima di aver comunicato che senza un ulteriore programma di incentivi pubblici alla rottamazione il gruppo sarebbe stato costretto a chiudere le fabbriche. Silvio Berlusconi ha subito dato la disponibilità del governo per proseguire nell’erogazione di questa specie di metadone al mercato dell’auto, ma le fabbriche in Italia chiuderanno lo stesso. Sulla questione degli aiuti all’auto e il legame con il mantenimento degli impianti italiani c’è stata una manfrina indecente tra Marchionne e Berlusconi: un mese dopo la presentazione del piano, l’amministratore delegato della Fiat ha comunicato alla Stampa che poteva fare a meno degli incentivi, il premier ha abboccato e ha detto che il Lingotto non era più interessato. La verità è che Marchionne, sempre più con la testa a Detroit, vuole avere mani libere, senza alcun condizionamento politico, che potrebbe derivare dalla concessione di aiuti, nella scelta di dove e come produrre.
Proprio nel momento in cui il Lingotto conferma in linea generale la sua presenza strategica, mentre promette investimenti, modelli e produzioni per le fabbriche nazionali, arriva la decisione di chiudere la produzione dello stabilimento di Termini Imerese: 1350 occupati diretti, almeno 3000 posti di lavoro con l’indotto. Un paio d’anni fa Marchionne aveva promesso che non avrebbe chiuso alcun impianto in Italia e che ci sarebbe stato uno spazio industriale anche per gli stabilimenti del Sud, compreso Termini Imerese. Ma evidentemente la scelta americana, il progetto di salvataggio della Chrysler, con i soldi di Obama e quelli dei fondi pensione dei lavoratori americani, ha cambiato le strategie del Lingotto. Meglio l’America della Sicilia. «Sarebbe da pazzi non chiudere Termini Imerese» è stata la sentenza del manager pronunciata non casualmente al salone dell’auto di Detroit.
Marchionne si propone come manager planetario capace di risollevare anche un’impresa sull’orlo del collasso come la Chrysler, preferisce andare con il maglioncino girocollo alla Casa Bianca piuttosto che a Palazzo Chigi. Anche la Fiat, dove gli eredi Agnelli non sembrano così attaccati alla missione italiana come Gianni o Umberto Agnelli, cambia pelle e filosofia, assieme al suo amministratore delegato. Cosa resterà della Fiat italiana tra qualche anno è davvero un mistero. Marchionne non si sente vincolato all’Italia, opera come il capo di una multinazionale che sceglie dove produrre sulla base delle convenienze economiche, lo spirito patriottico se mai è esistito per il Lingotto non è più una condizione decisiva. Per la Fiat è molto più conveniente produrre in Polonia piuttosto che a Termini, o magari, in futuro, a Mirafiori. La Fiat vende in Italia molte più auto prodotte nelle fabbriche all’estero che in quelle nazionali, così gli incentivi vanno a sostenere vendite di vetture che arrivano da impianti non italiani. La distanza della Fiat, o almeno di Marchionne, dal Paese sta diventando ampia rispetto alla storica presenza in Italia. L’amministratore delegato è pronto a fare a meno degli incentivi, dopo averli più volte richiesti, e il presidente della Fiat, Luca di Montezemolo, è arrivato al punto di affermare che «da quando ci siamo noi, la Fiat non ha mai avuto una lira dallo Stato». Al di là della polemica, delle battute, dei toni aspri del confronto sindacale e politico, questi episodi sono il segno di un progressivo distacco del Lingotto dall’Italia. Non ci sarà da stupirsi se tra qualche anno il cervello della Fiat sarà a Detroit e se l’assetto azionario del gruppo sarà molto diverso da quello attuale, magari con una presenza residuale degli ultimi eredi Agnelli che si occuperanno della Juventus e della Stampa.
In questo clima a Termini Imerese rimangono la protesta, la paura, la delusione. È una storia già vista, che si ripropone. Il Mezzogiorno si sta desertificando, le imprese chiudono e se ne vanno. Roberto Mastrosimone, leader operaio della Fiom nella fabbrica siciliana, analizza: «Non si possono provocare questi lavoratori dicendo che la Sicilia è troppo lontano dal Nord e quindi non si possono produrre più auto. Bisognerebbe almeno avere più rispetto per questa gente che in questi anni ne ha sentite di tutti i colori. È evidente che i lavoratori e il sindacato non possono accettare la chiusura della fabbrica con le mani in mano. Se cresce la tensione non siamo noi i responsabili». Anche in Sicilia si ripropone quello che accade in altre parti d’Italia: gli appelli, la lettera del vescovo, la solidarietà delle famiglie, i pullman per andare a protestare a Palermo. Sembra quasi un rito, è tutto già noto. Nonostante le manifestazioni e le assemblee, alla fine, rimane la solitudine dell’operaio. «Ho votato Berlusconi, intervenga lui, almeno», afferma Vincenzo, operaio di 35 anni. «La Fiat vuole chiudere, ha deciso, se ne frega di noi. Mia moglie ha perso il lavoro l’anno scorso, adesso tocca a me. E chi mantiene la famiglia? Lo chiedo ai politici siciliani, Schifani, Alfano dove sono? Dov’è finito Gianfranco Micciché? Si fanno vedere solo quando ci sono le elezioni».
Per il futuro di Termini Imerese girano alternative un po’ fragili: una riconversione in non si sa che cosa, un ipotetico progetto di auto ecologica (anche ad Arese lo volevano realizzare, infatti quel che resta dell’impianto dell’Alfa Romeo chiuderà definitivamente) mentre si parla di interessi cinesi e indiani. C’è pure un’improbabile cordata siciliana. L’unica certezza è la volontà della Fiat di chiudere e la possibilità per metà dei dipendenti di andare in pensione dopo un periodo di mobilità. A Pomigliano, invece, se va tutto bene, dovrebbe arrivare la Nuova Panda, ma bisognerà aspettare almeno un anno. Nessuna illusione, comunque. Marchionne non regalerà nulla, chiederà condizioni nuove e dure, in termini di flessibilità e contenimento di costi, per «concedere» la nuova produzione. Pomigliano, oggi e in prospettiva, resta una fabbrica a rischio.
Gli operai di Pomigliano d’Arco vivono nell’angoscia. Francesco Percuoco, 43 anni, vive a Napoli, sposato con due figli, da vent’anni in fabbrica. «La Fiat ha introdotto il Wcm (World Class Manufacturing), una nuova organizzazione del lavoro che dovrebbe aumentare la produttività ed eliminare i tempi morti della catena. Ma non abbiamo nulla da produrre, siamo fermi. Hanno detto che ci faranno fare la Nuova Panda, ma non è certo, fin quando non si vede la produzione non ci crede nessuno. Troppe promesse, troppe delusioni. Dovevamo produrre il Suv “Kamal”, progettato qui, ma non è mai partito. E ora che facciamo? La Fiat manterrà tutti i 5000 occupati? Ho pensato di trasferirmi al Nord, ma non è più il momento: ormai stanno tornando indietro quelli che se ne erano andati. I miei amici che erano saliti al Nord sono anche loro in cassa integrazione o hanno perso il lavoro. Senza occupazione non ce la fanno a vivere e tornano a casa, sconfitti anche loro».
Mimmo Castello, 47 anni, lavora alla Plastic Components and Modules (ex Ergon, gruppo Fiat), viene da Torre Annunziata. «Per molti anni ho fatto il “cucitore” della Tipo, poi ho svolto attività diverse. La Fiat non ha mantenuto gli impegni che aveva preso e oggi siamo senza lavoro, tutto l’indotto primario è in crisi, quello di minor qualità è già fallito. Hanno chiuso. Sai cosa succede, adesso? La Fiat fa arrivare i parabrezza per la Punto dalla Cina, sbarcano al porto di Napoli, li portano qui e poi vanno a Melfi per essere montati. Ogni parabrezza cinese costa appena 13 euro. Con la cassa integrazione non si vive, ogni tanto arrotondo facendo il cameriere, dalle nove del mattino a mezzanotte per 50 euro, quando va bene. Ma è finita anche l’arte di arrangiarsi: voi del Nord dovete piantarla di scrivere come siamo bravi a tirare a campare in mezzo alle difficoltà. Ormai abbiamo finito anche la fantasia».
Antonio Buonomo, 33 anni, è stato buttato fuori dalla fabbrica dopo tre anni di contratto a termine: «Non è giusto: mi hanno cacciato due mesi prima del mio matrimonio. Ho lavorato seriamente, con impegno, non ho mai fatto un giorno di malattia, mai un’assenza, ho fatto trecento ore di straordinario. Ho preparato anche un progetto per migliorare la qualità del lavoro e sono stato premiato dal direttore dello stabilimento Garofalo. Alla fine sono rimasto senza occupazione e non trovo niente. Vorrei avere almeno la speranza di un lavoro, di poter vivere onestamente».
Arcangelo De Falco, 44 anni, ex logistica, licenziato. Ha inventato lo slogan: «Noemi aiutaci!». Racconta: «Il governo non ci sente, ho chiesto a Noemi di parlare col premier, di mettere una buona parola per noi operai di Pomigliano. Ma c’è poco da scherzare, sono stato licenziato dopo aver ricevuto una denuncia per estorsione di 1 euro e 50 centesimi, per un episodio che non c’entra nulla con il lavoro. Mi hanno buttato fuori perché alla Dhl ero il delegato più votato. L’azienda mi propose 100 mila euro e il passaggio a impiegato purché facessi il bravo, ma rifiutai. Aspetto la prima udienza del processo, voglio lavoro e giustizia».
Angelo Pulcrano, 31 anni, lavora in fabbrica da dieci anni. «Mi sono appena sposato, io sono in cassa integrazione e mia moglie pure. Per pagare il mutuo, le spese, i soldi non bastano mai. Chi può si fa aiutare dalla famiglia, ma fino a quando può durare questa situazione? Chi perde il posto, purtroppo, fa presto a finire nei guai. Qui attorno comanda la criminalità. Non si sa dove sbattere la testa. I lavoratori, purtroppo, stanno diventando egoisti, individualisti, pensano che da soli possono riuscire a salvarsi. Ma si sbagliano. O lottiamo tutti insieme oppure saremo sconfitti tutti quanti».
Sul vecchio palazzo del municipio sventolano le bandiere italiana e dell’Unione Europea. Al balcone è appeso un vecchio striscione della pace. Sul tetto hanno protestato a lungo i precari della Fiat che chiedono la conferma del contratto di lavoro. Il sindaco di Pomigliano è Antonio Della Ratta, 58 anni, un progressista. Un intellettuale del Sud sempre in prima fila dietro gli striscioni degli operai. È un cardiologo. Come va il cuore di Pomigliano? «È in fibrillazione» risponde, «la crisi, la perdita del lavoro aprono spazi enormi per la criminalità, creano mano d’opera a basso costo per la camorra. Viviamo una fase di disgregazione del tessuto sociale: qui le fabbriche, la solidarietà operaia, il sindacato hanno sempre impedito che la camorra attecchisse. La situazione sta diventando incandescente, i giovani perdono la speranza, non trovano sbocchi al loro impegno e alle loro speranze. Che futuro possono avere? Purtroppo nessuno si occupa più del Mezzogiorno, siamo scomparsi dall’agenda politica. Vorrei che il Pd avesse un profilo politico e ideale forte, qui ci aspettano tante battaglie». Dal bar della piazza sale un cameriere con l’aperitivo e le pizzette. Il sindaco brinda alla speranza di un futuro migliore. Alle pareti i riconoscimenti al comune per il riciclaggio dei rifiuti, un manifesto di un festival jazz a Pomigliano. Ma non è tempo di musica e poesia.
Secondo il prefetto di Napoli, Alessandro Pansa, metà dei comuni della provincia è a rischio camorra. A Casalnuovo, comune confinante con Pomigliano, il Consiglio era stato sciolto per irregolarità, abusivismi, infiltrazioni. Ora, a sorpresa, si torna al voto. Per il governo va bene così. Il partito delle costruzioni e dell’illegalità ha vinto e ha fretta di tornare agli affari.
Il paradiso perduto della lavatrice
Il ritratto di Aristide Merloni domina la stanza del sindaco di Fabriano che s’affaccia sulla splendida fontana Sturinalto. Anche il primo cittadino Roberto Sorci, un democristiano forlaniano traghettato nei mari procellosi della politica italiana fino al Pd, è un dipendente dei Merloni, lavora alla Indesit, la multinazionale degli elettrodomestici guidata da Vittorio, ex presidente della Confindustria. Se c’è una Company Town, un luogo dove una dinastia imprenditoriale si identifica con una comunità, questa è Fabriano.
Qui il fondatore Aristide mise le solide basi del gruppo (Ariston, in origine), portandolo al successo e miscelando la sua missione industriale con il ruolo di amministratore, di sindaco. Le sue intuizioni e la sua eredità imprenditoriale sono divise tra la I...