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Rione Sanità
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Si può cambiare un destino e sconfiggere un ponte, quello del rione Sanità? Si può fare con il lavoro, la bellezza, la cultura? Si può in un quartiere che, non solo per un dato di realtà, ma anche per disinformazione e luoghi comuni, è diventato sinonimo di illegalità, degrado, isolamento, ignoranza? Si può fare oggi, in questa Napoli declinante, nuda come le sue élite senza qualità, classi dirigenti rapaci invece che capaci? Le risposte si trovano nelle storie di donne e uomini che, nel cuore di Napoli, il coraggio che serve per sperare e per cambiare hanno deciso di darselo ogni giorno. Scommettendo sulla loro voglia di farcela, assieme.
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Information
LE STORIE

L’associazione L’Altra Napoli
Ernesto Albanese
Voi conoscete la storia di Ernesto Albanese? Facciamo conto di sì, tanto anche se non la conoscete, leggendo leggendo la capirete.
Nella vita Ernesto fa il manager, cerca di trasformare in numeri tutto quello che gli passa per le mani, e così quando hanno ucciso suo padre si è letto un bel po’ di statistiche per capire come può accadere, a Napoli, che uno esce di casa e non ci torna più.
Lui l’avrebbe detto impossibile, una cosa da paese sud americano, e invece ha scoperto che a Napoli è un aspetto tipico dei fenomeni criminosi, che al di là della camorra, a cui la gente attribuisce capacità, meriti e demeriti anche quando non li ha, in questa città il problema è la criminalità diffusa. Napoli ha un elemento distintivo molto chiaro rispetto ad altre regioni come la Sicilia o la Calabria: il reato predatorio per strada è dieci volte superiore, Napoli ha insomma dieci volte le rapine di Palermo, tanto per dare un’idea.
All’epoca dei fatti Ernesto incontrò vari e autorevoli esponenti della comunità locale, sindaco, rappresentanti della Regione, prefetto, e a tutti quanti faceva la stessa domanda: «Scusate, ma cosa deve succedere perché vi rendiate conto di dove vivete?». Cosa gli rispondevano? Tendevano a minimizzare, a normalizzare ciò che normale non è.
L’altra sua domanda era: «Ma come sarà Napoli tra cinque anni se non fate niente?»; e anche qui le risposte erano talmente vaghe e fumose che a Ernesto parve evidente che non solo non avevano idea di cosa fare, ma anche che in fondo non gliene fregava niente: aveva incontrato la tipica cultura del tirare a campare che, portata all’ennesima potenza, occupava posizioni apicali nelle istituzioni. A tutto questo faceva da contraltare la rassegnazione di grandissima parte della società civile, che di certo ha le sue colpe – ad esempio quando ci si domanda perché non si ribella, si dovrebbe riflettere sul fatto che una parte consistente di essa vive di soldi pubblici, soldi che provengono dalla Regione, dal Comune, ed è difficile che ci si ribelli a chi rappresenta la fonte del proprio reddito –, ma forse ne ha meno di quante non gliene vengano imputate.
Ernesto pensa che per fare le rivoluzioni c’è bisogno di un leader carismatico, che se non c’è chi mobilita le coscienze, la gente da sola non va da nessuna parte; e a livello istituzionale il leader dovrebbe essere chi presiede il Comune, la Regione, dovrebbe essere lui ad animare e a presiedere la società civile, e invece a Napoli di tutto questo non c’è traccia.
Indifferenza da una parte, rassegnazione dall’altra, e lui in mezzo a chiedersi: «Ma è possibile che non si possa fare niente?». Sì, perché anche chi come Ernesto vive da tanti anni lontano da Napoli a un certo punto lo capisce che la Questione Napoli non è conosciuta nella sua essenza, che se ne parla quando c’è l’agguato di camorra e trasmettono la notizia nei Tg, ma che poi finisce lì, resta la normalità che non è normale, questa intricata situazione di degrado sociale, che non è nota al grande pubblico mentre quelli che la conoscono, in primo luogo le istituzioni, volutamente la trascurano. Il governo per esempio sa come stanno le cose, tra l’altro tra i suoi componenti ci sono diversi esponenti meridionali, però prevale la volontà di non agire, si fa finta di non vedere.
Comunque è per questa voglia di non arrendersi che sono nata io, l’associazione L’Altra Napoli, quando Ernesto decide di mettere insieme un po’ di napoletani che se ne erano andati e che però si erano anche stancati di essere mortificati nelle proprie radici. Le radici sono importanti per tutti, a qualunque emigrato del mondo fa piacere tornare a casa; a Ernesto invece non faceva più piacere tornare a Napoli, e per taluni versi gli accade ancora oggi, gli piacerebbe trovare una città diversa, comunque adesso gli fa un po’ di più piacere perché vede crescere le piccole cose che sono state fatte alla Sanità e che danno un senso di speranza, la speranza che forse anche in posti così dalle idee possono nascere azioni che possono produrre risultati concreti.
Come dicevo, a un certo punto Ernesto ha chiamato un po’ di amici che stavano tra Roma e Milano, si sono incontrati, si sono detti mettiamoci insieme ed è così che sono nata io, che all’inizio non ero una onlus, lo sono diventata dopo, ero semplicemente un’espressione della società civile. Mi sembra utile dire che Ernesto e i suoi amici hanno volutamente evitato di coinvolgere politici, cantanti, nani, ballerini, calciatori, insomma tutta la parte spettacolare della quotidianità, si sono detti badiamo alla sostanza, mettiamo insieme gente che lavora onestamente e che si fa rispettare tutti i giorni per quello che fa fuori da Napoli, e così sono, siamo, partiti.
Il padre di Ernesto è stato ucciso nel maggio del 2005, io sono nata nell’autunno dello stesso anno; a dicembre 2005 c’è stata la prima iniziativa, la sponsorizzazione dell’albero di Natale nella galleria Umberto, a via Roma, realizzata con il supporto del Mattino, chiaramente senza fondi, io non ero ricca, anzi in cassa non c’era una lira, e perciò tutto quello che veniva fatto doveva essere fatto senza costi.
Il Mattino ci diede spazio e risonanza mediatica, l’agenzia pubblicitaria Saatchi & Saatchi mise a disposizione il proprio know how e la propria creatività e avviammo questa campagna con la quale sostanzialmente invitavamo i napoletani ad andare in galleria e ad appendere sull’albero di Natale i propri desideri, promettendo che poi avremmo dato loro voce.
La sera che mettemmo l’albero ce lo incendiarono, era quasi tutto bruciato ma lo lasciammo così volutamente, bruciacchiato fino alla punta, segno ancora più evidente della situazione di degrado. No, non fu una cosa fatta contro di me in quanto associazione L’Altra Napoli, era un segno di ordinaria inciviltà, quando si arriva a non rispettare nemmeno più l’albero di Natale capisci dove sei arrivato come comunità dal versante dei valori: qualunque bambino del mondo ha rispetto per Babbo Natale, a Napoli neanche più questo.
Furono raccolti così circa quattromila messaggi che furono selezionati e utilizzati tre o quattro mesi dopo per una campagna di sensibilizzazione a ridosso delle elezioni amministrative.
Ancora un mese prima delle elezioni, quelle che poi riportarono alla conferma, purtroppo, della Iervolino, nessuno dei tre candidati a sindaco, né la Iervolino, né Malvano, né Rossi Doria avevano pubblicato il loro programma sul sito, cosa di per se stessa scandalosa. Per fare un esempio, a Roma Veltroni aveva pubblicato il suo programma sei mesi prima, a Milano la Moratti otto mesi prima, Chiamparino a Torino addirittura un anno prima. Ernesto ritiene ancora oggi inconcepibile il fatto che nessuno dei tre avesse avuto la decenza, il pudore sociale, di fare questo atto nei riguardi di coloro che avrebbero dovuto votarli liberamente. Sta di fatto che mise su una conferenza stampa e a quel punto le iniziative dell’associazione furono seguite da tutti e tre i candidati. Ricordo che facemmo una campagna stupenda con soggetti bellissimi, chiedemmo a un fotografo napoletano, Spada, di fare tre scatti con le tre questioni che erano emerse dall’albero, e cioé degrado, immondizia e traffico, ci sparammo sopra la poltrona rossa del sindaco e facemmo un lancio su tutti i quotidiani. Anche il Corriere e Repubblica ci vollero seguire, naturalmente «a gratis», facemmo anche uno spot che girò nei cinema, anche questo molto carino, realizzato da Saatchi & Saatchi, che diceva al sindaco: «Caro sindaco, chiunque tu sarai, la gente si aspetta che tu lavori qua, te la senti?».
Comunque, alcuni giorni dopo la conferenza stampa i programmi vennero pubblicati, anche se poi sono rimasti lettera morta, e si arrivò alle elezioni con la già ricordata riconferma della signora Iervolino, la quale, peraltro, quando Ernesto era andato a trovarla dopo la morte del padre, aveva affermato che sicuramente non si sarebbe più ricandidata, perché non ce la faceva proprio fisicamente; purtroppo invece poi i giochi beceri della politica, le pressioni di Bassolino da una parte, De Mita dall’altra, la costrinsero a candidarsi cosicché Napoli si è fatta altri cinque anni di purgatorio per l’incapacità dei suoi governanti.
Dopo questa prima iniziativa si decise di evidenziare ancora di più il problema della criminalità diffusa e sponsorizzammo una ricerca sulla criminalità a Napoli, fatta – secondo Ernesto molto bene – da Booz Allen e Censis, che presentammo in una sala del Senato. Anche qui ci fu una bella conferenza stampa, fu promosso addirittura un gruppo interpartitico di parlamentari campani perché si creasse una lobby a favore di Napoli, firmarono più o meno in trenta, anche se poi soltanto in quattro o cinque si sono dati davvero da fare; tra questi Antonio Polito, che Ernesto dice essere una persona di grande qualità, non a caso ha smesso di fare politica, e Pasquale Viespoli, anche lui persona capace e competente. La maggior parte dei firmatari se n’è fregata totalmente dell’associazione e della firma che aveva messo, e forse anche questo suggerisce qualcosa intorno a ciò che è diventata la politica.
Bisogna riconoscere che l’associazione ha continuato ad avere, sia a Napoli sia fuori, una visibilità mediatica che pochissime associazioni così piccole e così prive di mezzi e di diffusione popolare riescono ad avere. Ernesto è stato a Matrix da Mentana, da Belpietro a L’Antipatico, insomma ha fatto televisione, radio, giornali di tutti i tipi, fino a quando non si è reso conto che se fossimo andati avanti su quella strada avremmo rischiato presto di passare per dei visionari, in pratica la gente avrebbe detto, va bene, voi parlate ma intanto state fuori, siamo noi che stiamo qua, che per certi versi sono le classiche cose che dice chi non vuole affrontare i problemi, ma per altri è giusto, sono argomenti di cui bisogna tener conto; in ogni caso Ernesto lo fece avviando una riflessione tra tutti i soci.
Così si approdò alla decisione di mettere a disposizione le loro competenze manageriali e di fare un progetto operativo sul territorio da affrontare come fa una start up, come fa un’azienda. Fu deciso quale era il progetto, dove si doveva fare, perché farlo proprio lì, quali erano i personaggi chiave, quali i punti fondamentali, come promuoverlo e come finanziarlo.
Sì, come associazione ci muovemmo così, e alla fine di questo percorso identificammo nel rione Sanità il posto giusto. Perché? Perché è un posto fatto di luci e ombre, diciamo pure più ombre che luci, ma comunque qualche luce c’è. Perché la Sanità ha tutti i problemi tipici dei quartieri degradati ma ha anche delle potenzialità straordinarie, non solo le catacombe, le Fontanelle, alcuni palazzi meravigliosi, ma anche un’umanità che è ancora più tradizionale, antica, la puoi trovare nella vecchia Napoli ma non nella periferia suburbana che è ormai devastata da altri tipi di traffici e di situazioni. Secondo Ernesto, persino la camorra nella Sanità ha caratteristiche sue proprie. Perché anche dal punto di vista urbanistico è un posto chiuso, un’enclave dove vivono diverse decine di migliaia di persone che non di rado si sposano anche tra di loro, insomma è una comunità molto chiusa anche se accogliente per la sua umanità; le stesse strade di comunicazione sono chiuse, hanno solo un ascensore e una strada, una cosa spaventosa, la salita che porta ai Colli Aminei è chiusa da vent’anni, insomma si sono isolati e sono stati isolati dal resto del mondo. Anche se molti sono convinti del contrario, Ernesto pensa che la chiusura dello Scudillo non sia stata solo subita ma anche voluta. Certo hanno influito i crolli, il fatto che gli abitanti dei Colli Aminei e del Vomero a quelli della Sanità non li vogliono, ma secondo lui anche una buona parte degli abitanti della Sanità è convinta che stando chiusi si sta meglio. In ogni caso la Sanità presentava queste caratteristiche, un rione molto particolare che sta al centro della città, che è la pancia della città.
Deciso il posto, il passo successivo è stato individuare i personaggi chiave.
Come associazione chiedemmo del parroco e, ovviamente, ad Ernesto parlarono di padre Antonio Loffredo, che lui non conosceva; quindi andò a trovarlo ed entrò in contatto con questa persona straordinaria. Per il nostro progetto era indispensabile avere un ambasciatore: altrimenti, qui, non si riesce neanche a parlare con le persone.
Naturalmente ci sono stati incontri anche con altre persone, ad esempio il presidente della municipalità, un signore che tendenzialmente è una brava persona anche se era evidente che un po’ per una questione di mancate competenze, un po’ per l’ecosistema in cui era inserito, non era in grado di produrre risultati, però almeno non ti scoraggiava.
Comunque come associazione siamo partiti così, sviluppando un progetto articolato su undici punti di riqualificazione urbanistica e sviluppo sociale, fortemente finalizzato alla sostenibilità, nel senso che le cose da realizzare dovevano prevedere fin dalla fase progettuale le condizioni per la loro sostenibilità nel tempo.
A settembre 2006 è stato messo su il progetto che poi Ernesto ha portato a New York e alla Clinton Foundation. Sia chiaro, c’è da seguire un percorso impegnativo per poter avere questa opportunità, la Clinton Foundation non regala una lira, non dà soldi, se approva il tuo progetto ti fornisce una sorta di marchio di qualità che poi ti serve per la raccolta fondi e siccome Albanese aveva intenzione di non chiedere un centesimo né al Comune, né alla Regione, né alla Provincia, né a qualunque altro soggetto pubblico, voleva rivolgersi esclusivamente a istituzioni finanziarie o comunque a istituzioni private, avere un marchio di qualità di quel tipo è stato importante. Come dice Ernesto: «Tu all’inizio non sei nessuno, e convincere un’azienda a darti 50, 100, 150 mila euro non è affatto facile».
Tutto quello che è stato fatto in questi anni era contenuto in quel progetto. Ernesto aveva fatto con padre Antonio una mappatura delle possibili aree da recuperare e da valorizzare, anche attraverso lo sviluppo di microimpresa e da lì siamo partiti fino a quando finalmente non sono saltate fuori le prime luci.
La prima cosa che abbiamo fatto è stata l’apertura del giardino alla Salita Cinesi, un posto storico dal punto di vista cinematografico: Ieri, oggi e domani con Sofia Loren che scende per la strada, L’oro di Napoli con Totò che saluta dal balcone, tante cose belle a fronte di una situazione attuale veramente devastata. Se si guardano le immagini del film della Loren, che è del 1963, si vede che da allora nessuno ha più piantato un chiodo su quel muro che delimitava il giardino e che pure ha avuto il merito di proteggerlo dalla totale devastazione; di fatto è stato tutto lasciato all’incuria del tempo, c’è stata una totale mancanza di presenza non solo delle istituzioni, ma di chiunque, a tutela del suo aspetto.
Adesso sembra facile dire che come associazione abbiamo fatto demolire il muro di tufo e abbiamo recuperato il giardino facendo costruire al suo posto un cancello in ferro, ma in realtà facendo questo abbiamo fatto altre due cose importanti: abbiamo promosso la costituzione di una cooperativa di fabbri, gli Iron Angels, composta da tre ragazzi del quartiere, incaricando l’architetto Riccardo Dalisi di disegnare un progetto e di trovare un tutor che seguisse i ragazzi nella lavorazione del ferro; così i ragazzi hanno realizzato il cancello. In pratica siamo stati la prima commessa di questa microimpresa giovanile che poi nel tempo si è trasformata, due sono usciti e tre nuovi sono entrati, e, tra questi, uno, Francesco, sta avendo successo perché ormai è diventato un produttore di oggetti sullo stile di Dalisi. Ernesto racconta con molta soddisfazione che a una cena di gala con la Johnson & Johnson ha trovato i regalini per gli invitati fatti da lui; e non finisce qui, perché poi anche il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) per una cena a Napoli ha commissionato a Francesco tutti i regalini, insomma la sua sta diventando un esempio di piccola impresa sana che è decollata. Sì, questa del cancello è stata la prima cosa bella, perché poi se metti a frutto l’entusiasmo dei ragazzi riesci a tirar fuori un impegno che utilizza tutta la loro creatività e le loro capacità; la seconda cosa importante è che il giardino lo gestiscono gli abitanti, non c’è stato bisogno di pagare le guardie giurate, abbiamo raccomandato alla gente di gestirlo loro, e il giardino sta ancora lì. C’è un signore, si chiama Gennarino, Ernesto lo ha visto mezza volta in vita sua, che apre ogni mattina alle 9 e chiude alle 13, riapre alle 15 e chiude alle 19, cura il prato, innaffia. Come associazione sostituiamo il prato ogni anno, non possiamo seminare perché altrimenti dopo poche settimane i bambini non ci potrebbero giocare. Quindi noi rimettiamo le zolle ma poi è Gennarino che si occupa di tutto, mentre i papà dei bambini si sono messi assieme per montare tutti i giochi, noi li abbiamo comprati, ma ne hanno cura loro.
È un sistema di autogestione che Ernesto trova pazzesco, straordinario. A suo avviso tutto questo è la dimostrazione del fatto che al bello ci si educa, che se le cose sono tenute bene la gente sviluppa un senso di responsabilità civica, che se lo Stato, le istituzioni, facessero la loro parte per evitare il degrado ambientale si combatterebbe anche il degrado sociale, perché la gente adotta comportamenti virtuosi se vive in un posto virtuoso e se invece vede che va tutto a scatafascio gli viene giocoforza la voglia di dare un calcio nella porta o gettare le carte per terra.
A questo proposito vi voglio raccontare cosa è accaduto a Ernesto, alcuni mesi dopo che era partita l’attività dell’associazione nel quartiere. Una sera padre Antonio lo chiama per chiedergli di andare una domenica a Napoli per incontrare gli abitanti del rione, perché la gente voleva parlargli, voleva guardarlo in faccia. Così Ernesto va in questa chiesa dove trova un centinaio di persone che in pratica gli chiedono: «Ma tu chi sei, perché lo fai, che vuoi da noi, dopo che ci chiedi?». È la diffidenza che fa ragionare così. Ernesto rispose che non prometteva niente e non chiedeva niente, anzi no una cosa la chiedeva, che se fosse riuscito a realizzare qualcosa loro avrebbero dovuto rispettarlo e gestirlo come roba propria. Ma lo sapete che, nonostante le difficoltà dell’ambiente siano quelle che sono, questo patto non scritto con Ernesto finora queste persone lo hanno rispettato?
La seconda iniziativa che abbiamo fatto ha portato al recupero del chiostro della basilica di Santa Maria, dove sta padre Antonio, che era in condizioni penose e che abbiamo totalmente ristrutturato. Una parte di soldi l’ha tirata fuori lo stesso padre Antonio attraverso un finanziamento della Sovraintendenza, in realtà dato che non bastavano i soldi era stata fatta una cosa mezza sì e mezza no. Noi invece, grazie a un finanziamento Bnl, abbiamo investito altri 120 mila euro, abbiamo totalmente pavimentato e illuminato il chiostro trasformandolo in uno spazio utilizzabile per attività di aggregazione sociale: in pratica i ragazzi invece di stare buttati per strada si ritrovano nel chiostro, ci passano i pomeriggi, d’estate ci fanno il teatro, i bambini dell’orchestra ci suonano, insomma è diventato un posto ben tenuto. Ernesto c’è stato qualche tempo fa e ha notato con soddisfazione che avevano tinteggiato, perché poi i ragazzi sono così, se le cose le tengono loro ne hanno cura.
Un’altra cosa che abbiamo fatto è stata la ristrutturazione integrale de l’Altra Casa, un appartamento molto grande, attiguo al giardino, dove ancora una volta abbiamo volutamente rifatto la facciata, se ci venite a trovare è il palazzo color giallo, non c’è un graffio ma non è un miracolo, è che, come vi ho detto, il bello educa, è rispettato da tutti. Ormai sono tre anni che sta lì e non è stato vandalizzato come invece è accaduto per altri palazzi. Non c’è niente da fare, se hai cura delle cose, se quando un deficiente scrive sul muro tu il giorno dopo cancelli la scritta, il deficiente dopo un po’ non lo fa più. Una volta ho sentito Ernesto che diceva che questa cosa la deve dire a padre Antonio, perché invece la basilica è piena di graffiti: bisogna prendere un secchio di vernice e coprire, perché se gliela dai una volta, e poi la seconda, una mano di vernice, la gente capisce che c’è uno più ostinato e non lo fa più, diventa un fatto di tigna, si va avanti sino a quando il cretino non viene isolato.
Il passo successivo è stato la creazione dell’orchestra. All’inizio sembrava un sogno, persino Ernesto era molto scettico, invece Eusebio Brancatisano, il nostro amministratore, ci credeva molto e ad Ernesto è sembrato giusto sostenerlo. Ancora una volta come associazione siamo partiti con un impegno anche economicamente...
Table of contents
- Copertina
- Colophon
- Indice
- Per cominciare
- Le storie
- Post scriptum