OGGI
Crisi e finzioni
H o visto la grande crisi che sta sconvolgendo la nostra economia dal buco della serratura del conservatorio e ho visto in diretta, con il privilegio di una postazione in prima fila, gli atti, le finzioni, i quotidiani stratagemmi con cui un segmento della nostra amministrazione pubblica ha cercato di salvarsi dall’inondazione di leggi, regolamenti, circolari da cui è stata sommersa, nella spasmodica corsa dietro lo stracciato gonfalone del risanamento dei conti pubblici.
Uno spiraglio, ma sufficiente per capire come la macchina dello stato, abituata a specchiare solo se stessa e a muoversi seguendo impulsi semiautomatici, possa replicare alle tempeste finanziarie che hanno sradicato il mondo che abbiamo conosciuto e nel quale siamo vissuti con un’accelerata batteria di comportamenti incongrui; con decisioni e azioni del tutto asincrone e sproporzionate rispetto alla portata degli eventi, a volte addirittura involontariamente ridicole, come capita quando si reagisce a qualcosa che ci ferisce con una risposta che non c’entra niente e rivela solo il nostro imbarazzo; oppure come succederebbe se un prepotente ci sferrasse un calcio al ventre e, anziché piegarci in due per la botta e il dolore, scuotessimo educatamente il mignolo di una mano, accennando un inchino.
In queste risposte così inadeguate, però, si intuisce l’ansia di dimostrarsi consapevoli del disastro imminente, la volontà di escogitare una trovata efficace che innalzi il proprio piccolo frangiflutti per attutire la violenza dell’ondata. Non è difficile indovinare all’opera decine di funzionari, ciascuno con la sua paletta e il suo secchiello di commi, emendamenti, postille che fanno vibrare con il colpo di tamburo di perentori divieti e il tocco lieve di involute autorizzazioni tutte le fibre di quell’immenso castello mangiasoldi che è l’apparato dello Stato, senza tanto badare a ciò che si nega e alle conseguenze di quanto si impedisce o ostacola. L’essenziale è ostentare un paravento contro lo spreco, dare il via al vortice simbolico degli ammonimenti scommettendo che, per qualche imprevedibile casualità, si trasformino nello sperato e risolutivo deterrente da frapporre alla naturale e indomabile propensione allo sperpero. Non è solo questione di uomini, competenze, attenzione, dedizione al bene pubblico, qualità queste che probabilmente i dirigenti dell’apparato statale possiedono in misura sufficiente o, per lo meno, non inferiore a tanti altri esponenti della cosiddetta classe dirigente, pubblica e privata, alla quale piuttosto ottimisticamente è assegnato il compito di salvare il salvabile in tempi tanto procellosi.
C’è dell’altro, forse una stortura, un vizio genetico d’origine di cui non c’eravamo accorti e che, invece, con il passare dei decenni è cresciuto fino a diventare il carattere di fondo della pubblica amministrazione: è come se, legge dopo legge, regolamento dopo regolamento, circolare dopo circolare, si fosse consumato un progressivo ma inesorabile allontanamento tra vita reale e amministrazione dello Stato; una divaricazione culminata oggi nella scissione totale, nella creazione di un mondo parallelo, di una realtà due, una specie di second life retta da regole proprie officiate da sacerdoti la cui unica finalità è quella di non inceppare il funzionamento della macchina celibe affidata alla loro guida. Un apparecchio che propizia azioni solo accidentalmente utili e che, per non fermarsi, ha codificato l’algoritmo capace di respingere ogni richiamo alla prova di realtà o, per dirlo meglio, alla prova della falsificazione, cosicché la sua unica preoccupazione, pure davanti al prorompere dei fatti, è diventata l’urgenza inderogabile di confermare se stessa, le sue regole e le sue azioni. La pubblica amministrazione, in effetti, è l’unica ideologia che nel nostro paese sia riuscita a sopravvivere, anzi a rafforzarsi, dopo la morte delle ideologie; e, forse, il suo rafforzamento è proprio figlio della fine di tutte le altre onnicomprensive visioni del mondo che scontrandosi l’una con l’altra erano riuscite, prima del chiudersi della parabola, a contemperarsi e limitarsi reciprocamente. Esagero, ovviamente, nel raffronto, se non altro perché l’ideologia della pubblica amministrazione, a differenza delle altre ideologie novecentesche, apparentemente non è aggressiva, non ha la pretesa di fare proseliti e di permeare di sé l’intero mondo; le basta dettare le sue norme nell’ambito che le è proprio, governarlo secondo le sue formule e ottemperare i suoi riti, allargando il raggio d’azione di appena lo stretto necessario senza l’ambizione di influenzare l’operare di tutti. Il suo fine dichiarato si presenta con fattezze dolci, ma è in realtà duro, perché anche se limitato solo a quelli che entrano nella sfera dell’esercizio delle sue prerogative vuole metterli in riga, costringerli al suo ordine. C’è dunque una pretesa di portare tutto al livello di una normalità senza sorprese e per questa ragione si nega la capacità di affrontare le novità e le emergenze. Più che un’ideologia laica, perciò, è un’ideologia religiosa, ma non di quelle religioni che amano le guerre di conquista perché il fedele deve essere convinto o sottomesso. È più vicina alle religioni un po’ estenuate, o magari diventate sagge con i secoli e l’esperienza, che si accontentano del quieto vivere e, certe dell’irrimediabile colpevolezza degli uomini, chiedono loro solo di piegarsi a modesti ossequi formali, la partecipazione ai riti, la ripetizione di formule alle quali si attribuisce una virtù escatologica, a prescindere dal fatto che se ne condivida il messaggio o se ne comprenda fino in fondo il senso.
La storia «burocratica» che passa dentro i conservatori, ripeto, è minore. Anche queste modeste vicende, però, possono raccontare qualcosa di serio e importante del tempo in cui viviamo e degli apparati che abbiamo costruito pezzo dopo pezzo per ingabbiare la nostra vitalità, la nostra voglia di fare, i nostri propositi migliori. È sempre andata così. Non tutto è colpa della crisi, anche se la maggior parte delle incongruenze che ho incontrato e hanno complicato la mia vita di responsabile di un’alta istituzione di formazione e di ricerca mi è stata presentata come frutto dei debiti dello Stato, risultato ultimo dello spreco passato e di norme troppo fidenti nel senso di responsabilità di tutti. È vero, ma è una verità parziale, che si ferma a un certo punto e trascura la forza di un altro meccanismo che è diventato la natura più autentica della pubblica amministrazione. I suoi effetti paradossali sono ingranditi e deformati dalla crisi, così come da ogni altra sollecitazione esterna, ma la macchina è sempre accesa, il suo motore funziona sempre, anche nei momenti normali e alimenta una fabbrica della finzione che produce maschere e paraventi a getto continuo dietro cui, a dispetto di tutti, tutti finiscono prima o poi col nascondersi per non veder turbato il quotidiano esercizio della propria pigrizia. Racconto qualche episodio per far capire.
Tutti i conservatori hanno la necessità di promuoversi, pubblicizzare le loro attività, stabilire una rete di buoni rapporti con le autorità locali e nazionali, favorire gli scambi con altri enti italiani e stranieri, tenere informata la stampa delle loro iniziative, mandare studenti, docenti e dirigenti a conferenze, seminari, concorsi artistici per farsi conoscere, per apprendere dalle idee e dal lavoro degli altri, mettere in mostra quelle che i testi ministeriali, nella loro schizofrenica e spesso pomposa ipocrisia linguistica, chiamano le eccellenze. Non è stato mai semplice impegnare soldi per queste finalità, ma da qualche tempo a questa parte è diventato addirittura impossibile, grazie a una serie successiva di norme e circolari che partendo dal generale e via via avvolgendosi in una teoria sempre più ristretta di centri concentrici sono arrivate finalmente a bloccare l’ultima preda. Il cardine di tutto, il cerchio maggiore, è il ministero dell’Economia, citato negli uffici pubblici con un acronimo che sembra uno sberleffo, il Mef. Il cerchio successivo è il ministero della Funzione pubblica, che si incarica di tradurre i diktat ragionieristici del Mef in lunghissime circolari che prendono la strada degli altri ministeri dettando criteri e imponendo modi di attuare le rigide prescrizioni escogitate dai custodi dei conti pubblici. L’ultimo cerchio, per i conservatori, è il ministero dell’Università e, più precisamente, la Direzione generale dell’Afam, che per chi non è addentro significa Alta formazione artistica e musicale: prima la sigla si chiudeva con una «c» che aggiungeva «coreutica» al resto, ma adesso è stata cancellata per qualche adeguamento, la cui necessità non ho afferrato del tutto, determinato dalla riforma del settore. Una circolare delle Finanze, dunque, ha vietato di spendere soldi per convegni, pubblicità, attività di rappresentanza; quella successiva del ministro della Funzione pubblica ha dettagliatamente descritto tutto ciò che non si deve fare per corrispondere all’obbligo; l’ultima dell’Afam, arrivata dopo un po’, quando stavamo appena riprendendoci dallo sbalordimento delle prime due seguito all’estenuante fase interpretativa, ha alluso alle possibili vie di uscita per forzare le regole più illogiche e controproducenti. In questi anni, a Frosinone, il conservatorio ha avuto un rapporto cordiale con il prefetto della provincia, un uomo appassionato di musica che ha messo a disposizione dei nostri concerti il salone di rappresentanza della Prefettura e si è preoccupato di richiamare gente intorno a noi facendosi paladino delle nostre cause. Abbiamo creduto, perciò, opportuno di offrirgli una targa e un piccolo rinfresco in coda alla cerimonia durante la quale gliela abbiamo consegnata. Questa spesa è caduta sotto gli occhi dei nostri revisori che, ligi come è giusto agli ordini delle circolari, l’hanno considerata non dovuta, per quanto modesta, e perciò non ammissibile. A meno che, appigliandoci alla deroga ideata per evitare il peggio dalla Direzione generale a sigillo della sequela di circolari, l’acquisto della targa non l’avessimo fatto rientrare in un progetto. Appresa la parola magica, non abbiamo più avuto dubbi. L’addio al prefetto è stato inserito in un bene argomentato progetto di «sviluppo del rapporto con le istituzioni e facciamo conoscere il conservatorio»; l’aperitivo offerto agli sponsor di un’opera prima composta per il centenario del Futurismo da artisti e studenti, impreziosita da un pezzo scritto per l’occasione dal nostro vecchio docente Ennio Morricone, che ha avuto il patrocinio della stessa Direzione generale e del Comitato per le celebrazioni del manifesto futurista, l’abbiamo rubricato tra le spese ammissibili perché rientrante, tutto sommato, in attività didattiche o limitrofe alle stesse.
È evidente che queste rigidità sono la reazione agli sprechi e agli abusi, ma non è seria lo stesso un’amministrazione che non sa distinguere e per sfuggire al capestro della buona volontà che pezzo dopo pezzo sta innalzando arzigogola espedienti e li incoraggia.
È come la faccenda di un prete del mio paese, di cui mi raccontava mio nonno dicendo che era accaduta tanto tempo prima. Questo vecchio abate, insieme con la sua combriccola di amici, venne sorpreso davanti a un piatto di carne arrostita, in un giorno di vigilia. Senza scomporsi, né temere il sacrilegio, impose le mani e – grazie ai poteri che gli erano stati dati, precisò – trasformò l’arrosto in pesce e verdura. Noi abbiamo trasformato tutte le nostre modeste spese per i sobri atti di buona educazione che ci era sembrato doveroso compiere per il decoro dell’istituto, e in fondo per il suo vantaggio, in progetti.
Posso dire che l’attività di gestione e amministrazione del conservatorio per me è stata e continua a essere, anzi tutto, una strenua, permanente ribellione contro la pratica della dissimulazione, del fingere una cosa per farne un’altra; tutto questo, ovviamente, non per coprire omissioni, irregolarità, malaffare ma esattamente per il contrario: per realizzare attività dovute istituzionalmente o per correggere qualche errore che pure può starci e che in qualsiasi altro ambiente si potrebbe ammettere onestamente aggiustando alla luce del sole quello che si è sbagliato.
Appena entrato in carica, mi è capitato di affrontare la contrattazione integrativa del conservatorio. L’anno accademico era già finito da un pezzo e il problema era semplicemente quello di prendere atto di ciò che era avvenuto nei mesi precedenti distribuendo le risorse del fondo di istituto. Incontrati i sindacati e fatti i conti, abbiamo scoperto che per un eccesso di ore di lezione aggiuntive per i corsi sperimentali, una parte consistente dei soldi sarebbe servita a pagare i docenti, mentre una sorta di indennità promessa ai bidelli restava scoperta. Ancora poco a conoscenza dei rigidi paletti della contabilità pubblica e con l’occhio rivolto a come si sistemano questi problemi in un’azienda qualsiasi, ho chiesto, e dopo un po’ di malumore mi è stato concesso, di sottoscrivere un accordo in cui il conservatorio si impegnava, se ci fossero stati fondi a sufficienza, a riconoscere ai bidelli una cifra compensativa nel contratto dell’anno successivo. Era un modo di evitare che il contenzioso degenerasse, che i dipendenti e i sindacato si rivolgessero alla magistratura del lavoro, con spese sicure per tutti e con l’esito quasi scontato di dover pagare con gli interessi e tante scuse il lavoro svolto. Un paio di mesi dopo, detto e fatto. Abbiamo accertato le disponibilità del bilancio, abbiamo sottoscritto una bella clausola contrattuale che ricordava l’impegno ratificato dal Consiglio di amministrazione, abbiamo proceduto alla liquidazione delle modestissime cifre, dopo aver verificato che sul fondo di istituto avevamo realizzato addirittura un’economia rispetto al preventivo. La mia tranquillità è stata squarciata, diversi mesi dopo, quando il Collegio dei revisori ha preso in mano il fascicolo e ha notato l’operazione bene evidenziata dalla netta trasparenza dei documenti. Una telefonata concitata del direttore mi ha informato che stavamo per essere denunciati alla Procura della repubblica per aver commesso un reato penale. Il fatto è che non si possono pagare, con somme poste in bilancio nell’anno successivo, spese dell’anno prima, soprattutto se riguardano compensi ai dipendenti. Ma, eccepivo, erano soldi dovuti; anche la contabilità pubblica – ricordavo la mia esperienza di amministratore comunale in un municipio – ammette il debito fuori bilancio e, con le dovute procedure, ne permette il risanamento. Niente da fare, e il guaio era che tutto stava scritto nei registri del Consiglio di amministrazione in modo chiaro e senza ombra di equivoco. Qualcuno, per venir fuori dall’impiccio, ha suggerito di fingere una nuova contrattazione e nuovi lavori aggiuntivi da assegnare ai destinatari delle somme, ingiungendo contemporaneamente agli stessi la restituzione di quanto percepito nella maniera un po’ irrituale da me autorizzata, che comunque – lo hanno ammesso tutti – era riuscita nell’intento di impedire guai maggiori e oneri più consistenti per l’amministrazione. Insomma, avremmo dovuto far finta di compensare un lavoro inesistente di oggi per rimediare al fatto di aver pagato quello vero di ieri, inscenando una specie di teatrino che ci avrebbe visto tutti protagonisti e coinvolti in una pochade preoccupata solo di asseverare il rispetto di una regola, importante quanto si vuole ma certo non tanto da giustificare questa imbarazzante ammoina. Alla fine, dopo mesi di batticuore, note argomentate, risposte a quesiti, colloqui ufficiali e meno con i dirigenti del ministero, l’anomalia è stata riconosciuta tale e sanata; ma è come se questa ragionevole soluzione fosse stata presa in esame solo dopo aver scartato tutte le altre, dopo aver convenuto, alla fine, che nessuno di noi era riuscito a immaginare una finzione tanto finta da sembrare vera.
Ma la finzione, nella maggior parte dei casi, è la soluzione più semplice e sicura. In alcune circostanze è addirittura l’unico modo per non creare pasticci o per non fermare l’attività normale provocando danni a studenti, insegnanti, collaboratori, fornitori. Perché c’è un disallineamento temporale tra regole e procedure da rispettare, controlli cui sottoporre le proprie decisioni prima di metterle in pratica, esigenze cui cercare di dare una risposta prima che diventino emergenze o degenerino in omissione dei propri doveri.
L’attività didattica, per esempio, ha una data certa di inizio, quella che segna a novembre l’avvio dell’anno accademico. Ora accade che, specialmente per alcuni insegnamenti – come il jazz, che con il nuovo ordinamento si è frantumato in decine di specializzazioni –, una quota consistente di lezioni venga svolta da docenti esterni assunti a tempo come collaboratori. Per rispettare tutto il processo previsto da leggi e regolamenti, si deve, prima di procedere all’assunzione, predisporre il bilancio, aspettare che sia esaminato dai revisori dei conti che lo rendono valido e poi approvarlo; quindi chiamare i docenti individuati con un bando (nell’ipotesi che si sia stati previdenti e la fase sia stata anticipata scommettendo sul buon fine degli altri passaggi), stipulare il contratto e poi dare il via libera per i corsi. Queste azioni, in genere, non durano meno di tre mesi e non possono cominciare prima di metà novembre, quando il bilancio deve essere pronto, anche se in quei giorni si è ancora all’oscuro di tutta una serie di informazioni su entrate e uscite che perciò vengono scritte nel documento con ampio beneficio di inventario. Se si segue tutta la trafila, le lezioni possono cominciare non prima della fine di gennaio, quando l’anno accademico è andato avanti già da un bel pezzo. Ma se si aspetta tanto, si materializza un evidente danno alle spalle degli studenti, una vera e propria truffa contro chi ha pagato il suo cospicuo contributo didattico senza ricevere nulla in cambio. Nessuno è tanto incosciente da trascurare questo aspetto facendo finta di niente, e allora si ricorre a uno dei trucchi più collaudati a disposizione nel grande bazar delle finzioni a fin di bene: si autorizza, o tacitamente si tollera, che le lezioni inizino nel tempo giusto, i docenti fanno le loro ore di lavoro senza contratto, quando poi tutto l’iter di atti e autorizzazioni è stato completato si stipula il contratto come se le lezioni iniziassero da quel momento, coprendo anche quelle che sono state tenute in precedenza. Qualche volta, nei casi in cui le procedure si allunghino oltre misura (basta che il Collegio dei revisori non sia sollecito, o che il bilancio venga redatto qualche settimana dopo il previsto), si arriva all’effetto grottesco di concentrare, per finzione naturalmente, in poche settimane l’orario annuale, con la certezza che nessuno troverà da ridire: perché a un certo punto – e per fortuna – tutti capiscono di essere prigionieri di una logica che rischia di generare mostri e chiudono gli occhi, sia pure accettando così di recitare l’ultima finzione, quella di non vedere.
La grande crisi delle finanze dello Stato di sicuro non ha aiutato a liberare la pubblica amministrazione, o almeno quella parte che io ho visto all’opera direttamente, dall’impalcatura posticcia che, in ultima analisi, le permette di non procurare eccessivi danni. Al contrario, ha alimentato i suoi arabeschi; ha moltiplicato non tanto i suoi riti quanto le sue scaramanzie, quei piccoli atti quotidiani che servono, nella puerile immaginazione di chi attende ossessivamente a essi, a scansare il pericolo, a deviare verso un percorso controllato l’energia negativa che si teme di non poter controllare.
Ho visto recentemente un documentario sulla vita di Manuel de Falla, un grande compositore spagnolo, la cui stessa capacità creativa è stata incenerita dalle fobie che cercava di controllare con ripetuti e laceranti riti quotidiani, come lo stropicciarsi lo spazzolino sui denti tante volte con movimento verticale e tante volte, le stesse, in orizzontale. Per lo Stato, la forza pericolosa da tenere sotto occhio sono i suoi stessi dipendenti, le persone che ha scelto per mandare avanti la propria macchina. A essi chiede di passarsi lo spazzolino sui denti secondo una sua legge, che non ha niente a che vedere con l’igiene dentale. Pretende la prova costante della loro sottomissione a una regola, pensando che sia l’argine capace di riportare nell’alveo ciò che minaccia di fuoriuscirne. Fino al punto conclusivo ed estremo di imporre la ristrutturazione della realtà dentro la norma.
Ho parlato prima di finzione, ma forse sarebbe necessario cercare un’altra definizione per questo gioco di specchi che non ha altra preoccupazione se non di condurre, attraverso la proiezione di immagini che rimbalzano da un riflesso all’altro, il fatto vero al fattoide: quello costruito con brandelli di verità ricomposti dentro la rassicurante sagoma di una procedura.
Canto barocco
S e a Francesco Divito, che è nato a Cerignola, domandi chi siano i cittadini illustri di questo paesone pugliese che spicca su un colle al confine della piana del Tavoliere, o i personaggi famosi che vi hanno vissuto, risponde cominciando l’elenco con Nicola Zingarelli, il linguista dell’omonimo grande dizionario; poi gli viene in mente che il livornese Pietro Mascagni ha composto Cavalleria Rusticana a poche decine di metri dalla sua abitazione di famiglia, in una casa deturpata oggi, nonostante il balconcino d’epoca e una lapide commemorativa, dalla saracinesca di quello che nelle foto appare come un garage; quindi riflette ancora un attimo e come terzo cita Pasquale Bona, l’ottocentesco autore del Metodo completo per la divisione, testo che da ben oltre un secolo resta fondamentale per l’apprendimento della letteratura musicale. Solo a questo punto, al quarto posto della sua lista delle celebrità, Francesco mette Giuseppe Di Vittorio, che io mi sarei aspettato nominasse per primo e non quasi all’appendice del suo discorso: su di lui si sofferma, però, più a lungo ricordando che è stato un uomo che ha lottato per la giustizia e per i braccianti, con tenacia: nell’unico modo, cioè, in cui i pugliesi sanno affrontare la vita, perché senza tenacia hanno imparato che il sole, le scorribande costiere, la scarsità dell’acqua, le tentazioni dell’eterno narcisismo del Sud possono sopraffarli ogni momento, o paralizzarli come basilischi che si proteggono dal pericolo annullandosi nella luce abbacinante dei campi, a prezzo dunque della loro esistenza.
La tenacia è una compagna della vita di Francesco, studente di Canto barocco al conservatorio di Frosinone già pronto per il diploma finale: il sigillo conclusivo di un lungo percorso di studio che tutto sommato è, però, ...