Lo squalo e il dinosauro
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Lo squalo e il dinosauro

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La Fiat è stata in questi anni al centro dell'attenzione dell'opinione pubblica. Lo è stato soprattutto il suo amministratore delegato Sergio Marchionne con il suo stile (duro e diretto), con la sua battaglia senza esclusione di colpi nei confronti del più grande sindacato operaio (la Fiom), con condizioni poste o imposte ai lavoratori in nome del bene e della sopravvivenza dell'azienda nel mercato mondiale. Ma nessuno si è interessato a tutti coloro subiscono direttamente le conseguenze delle sue decisioni. Com'è realmente la vita in fabbrica nell'era Marchionne? Ritanna Armeni ce lo racconta con un reportage - da Mirafiori a Melfi - su quello che finora è stato nascosto: la condizione operaia negli stabilimenti Fiat dominati dalla minaccia della chiusura.

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Information

Publisher
Ediesse
Year
2012
eBook ISBN
9788823017498
PARTE SECONDA
La messa di Pomigliano
Il 24 gennaio 2012 sul Corriere della Sera è apparso un articolo di Pietro Ichino a proposito della Fiat di Pomigliano. Pietro Ichino è ritenuto uno dei massimi esperti di lavoro, uno studioso moderno e sensibile alle esigenze del mercato, le cui parole vengono ascoltate con grande attenzione. È apprezzato per i suoi tentativi di liberare la sinistra dagli schemi conservatori ed estremisti che – molti ritengono – bloccano l’economia, rendono obsoleto il sindacato e impediscono la realizzazione di tante personali aspirazioni.
Lo studioso racconta la sua visita a Fabbrica Italia, la nuova società di Via Giovan Battista Vico entrata in funzione da poco, dopo uno scontro aspro fra il Lingotto e la Fiom, con toni sinceramente sorpresi ed entusiasti. «Ho visto – scrive – moltissime fabbriche metalmeccaniche; ma una come questa di Pomigliano non l’ho vista mai. Non mi riferisco all’esercito dei robot del reparto lastratura, che compiono interamente da soli il lavoro più pesante e pericoloso: il montaggio e la saldatura della scocca, la struttura della Panda. Mi ha impressionato molto di più il resto della fabbrica, dove a operare direttamente sono le persone. La prima cosa che mi ha colpito è stata l’assenza di rumore, l’ampiezza degli spazi, la distribuzione della luce, l’azzurro della rete dei vialetti, con strisce spartitraffico e passaggi pedonali, che attraversano le zone di lavoro; gli uffici con le pareti di cristallo collocati in mezzo al percorso del montaggio, quasi a sottolineare il superamento di ogni distinzione tra operai e impiegati. Poi il serpentone giallo: la nuova ‘catena’ che catena non è più, collocata su di un largo nastro di parquet tirato a lucido, che si sposta lentamente, dove anche a me estraneo viene consentito di muovermi liberamente nei larghi spazi tra una postazione e l’altra». L’illustre giuslavorista appare convinto delle meraviglie che descrive. «Tutto – prosegue nella sua lettera – è strutturato in funzione della persona che lavora: è la scocca ad abbassarsi o rovesciarsi, non le braccia ad alzarsi. I lavoratori, per lo più giovani, ragazzi e ragazze, tutti con una tuta bianca pulitissima, suddivisi in gruppi di cinque o sei e tra loro intercambiabili. Scelgo a caso quelli o quelle con cui parlare a tu per tu. Tutti mi dicono che la nuova organizzazione è meno pesante della precedente. La paga base mensile lorda di un quinto livello, qui, è sopra i 1.700 euro, quasi 1.550 per un terzo livello; poi ci sono il premio e gli scatti; quando entrerà in funzione il terzo turno, a questi si aggiungerà il compenso per l’ora e mezza media settimanale di straordinario e la maggiorazione per il lavoro notturno».
Abbiamo riportato ampiamente la lettera di Pietro Ichino perché il professore riesce a comunicare questo suo entusiasmo ai lettori. Dopo la descrizione della fabbrica anche loro avranno provato pietà per l’ignoranza di quei giovani descritti nello stesso articolo che all’Università di Napoli lo avevano contestato al grido «contro Marchionne, contro il precariato». L’illustre ed entusiasta giuslavorista aveva provato «una stretta al cuore per l’inganno di cui quei ragazzi sono vittime. E per la responsabilità grave che tanta parte della sinistra italiana si assume demonizzando un insediamento industriale come questo». Ai giovani che lo contestano dice «tolto Marchionne resta solo il lavoro nei sottoscala controllati dalla camorra».
Quando Pietro Ichino pubblica questo articolo è passato un anno e mezzo dal referendum con cui gli operai di Pomigliano avevano accettato le nuove condizioni di lavoro richieste da Marchionne. Un anno da quando la Fiom aveva respinto quell’accordo votando no e nelle settimane seguenti aveva anche detto no al «modello Pomigliano» che l’amministratore delegato della Fiat aveva esportato in tutte le fabbriche del gruppo. Per il sindacato dei metalmeccanici della Cgil quella intesa raggiunta nel giugno 2010, lungi dal portare all’azienda le meraviglie descritte da Pietro Ichino, era gravemente lesiva dei diritti elementari dei lavoratori e delle lavoratrici. Era un ricatto che i lavoratori avevano dovuto accettare per non perdere il posto di lavoro, ma che tale rimaneva. Secondo l’organizzazione di Maurizio Landini, nella Fiat ridisegnata da Sergio Marchionne e osannata da Pietro Ichino, accettata dagli altri sindacati, la vita operaia, infatti, era cambiata decisamente in peggio. Un giudizio duro, preciso e pessimista, tanto quanto appare ottimista e fiducioso nei confronti dell’azienda quello di Pietro Ichino. E come era stato fiducioso quello di Fim Uil e Fismic che per quell’accordo avevano dato indicazione di votare sì ritenendo che avrebbe salvato l’occupazione e sarebbe stato l’inizio di un nuovo sviluppo. Due pareri radicalmente diversi che hanno diviso e dividono ancora opinionisti, esperti di lavoro, politici e sindacalisti. Era la Fiom troppo dura ed estremista, incapace di quella duttilità che le nuove condizioni del mercato mondiale esigono? Oppure era la Fiat che, incapace di rispondere con un progetto, alla crisi di vendite reagisce rendendo più dure le condizioni di lavoro? La questione si è posta, e con una certa drammaticità, a Pomigliano. Il professor Ichino, dopo un anno e mezzo, dà la sua risposta: la Fiom sbaglia, la Fiat ha ragione.
Mentre leggevo l’articolo mi sono tornate in mente le reazioni registrate molti anni fa quando è stata inaugurata la fabbrica Fiat di Melfi, che aveva assunto il nuovo nome di Sata. Ci ero andata insieme ad altri giornalisti in una visita organizzata ovviamente dalla direzione della Fiat, quindi in condizioni analoghe a quelle in cui è entrato a Pomigliano Pietro Ichino. Anch’io ero rimasta stupefatta. Anche lì pulizia, grandi spazi, organizzazione perfetta, silenzio. Gli operai tutti giovani e con le tute di un originale colore amaranto quasi a sottolineare, anche attraverso l’uniforme più elegante, un cambiamento di stile. Chi, come me, aveva avuto l’avventura di visitare in precedenza, sia pure sempre sotto l’attenta vigilanza della dirigenza Fiat, lo stabilimento di Mirafiori era rimasta colpita dalla differenza. E anche dalla fiducia nel futuro, dalla disponibilità di quei giovani operai che vedevano finalmente un posto di lavoro sicuro in una terra piagata dalla disoccupazione. E poi c’era la modernità, i robot, le nuove linee di montaggio che imitavano ed entravano in competizione con le fabbriche di auto giapponesi. La fabbrica era una comunità al cui sviluppo contribuivano operai e dirigenti uniti dallo stesso fine, si diceva con orgoglio. In tanti ci hanno creduto in quegli inizi degli anni novanta in cui cadevano muri e ideologie e si parlava di tramonto della classe operaia. Abbiamo appreso poi, prima da una lotta durata 21 giorni nel 2004, poi da qualche voce nel sindacato, e solo di recente ne abbiamo avuto conferma leggendo il bel libro di Giovanni Barozzino Ci volevano con la terza media, che il paradiso di Melfi non doveva poi essere proprio tale neppure all’inizio. Che le condizioni di lavoro erano difficilmente sopportabili, che già dal primo anno molti di quei giovani disoccupati, che avevano desiderato e cercato un’occupazione la lasciavano perché non ne potevano più. Preferivano tornare alla precarietà, al lavoro saltuario piuttosto che rimanere legati alla qualità totale della moderna Sata. L’idillio era durato poco e il motivo era ed è sempre lo stesso: una vita in fabbrica diventata insopportabile.
Quell’episodio mi ha confermato che quando si descrive un’azienda non si ci può limitare a guardare le macchine, le tecnologie, ma occorre indagare fra gli uomini e le donne che lavorano, parlare con gli operai che oggi stanno sperimentato i metodi innovativi (?) di Sergio Marchionne. I loro giudizi spesso sono diversi, i loro racconti confusi non sempre coincidenti. Ma solo così si capisce.
Al telefono ha la voce incrinata, fra la rabbia e le lacrime. Chi parla è uno dei fortunati, uno dei 2.000 che a Pomigliano sono rientrati al lavoro e ricevono – finché dura – uno salario mensile. Uno di quelli che hanno votato l’accordo e hanno accettato l’aut aut dell’azienda. Lui non poteva fare diversamente. Moglie casalinga e tre figli. Ora lavora su due turni e con i suoi compagni produce molte più Panda di quante ne producesse prima dell’intesa e del referendum che l’ha approvata. La telefonata si svolge la sera, a fine turno, ed è ricevuta da uno degli attivisti della Fiom che è rimasto fuori dalla fabbrica e che quell’accordo non lo ha firmato, ma che con chi è rimasto dentro mantiene i contatti. «Perché – spiega – se andiamo davanti alla fabbrica fanno finta di non conoscerci, ma la sera al telefono si sfogano». Avviene così che la sera i telefoni diventano roventi. Da una parte del filo ci sono i racconti della vita in fabbrica, dei cambiamenti inaspettati, delle piccole e grandi angherie di ogni giorno, di molte umiliazioni. Racconti che si concludono con un saluto oppure con una imprecazione «domani vado in fabbrica e spacco la testa a qualcuno». Dall’altra c’è qualcuno che ascolta, ma non può far niente. Non è più in fabbrica, non è più delegato.
Questa volta chi parla al telefono racconta che quel giorno è toccata a lui «la messa», cioè l’umiliazione più grande.
È chiamata «messa» dai lavoratori di Pomigliano una sorta di rito di pentimento, non sappiamo quanto importato dal Giappone o creazione diretta del Lingotto di Sergio Marchionne. L’operaio che durante la sua giornata di lavoro commette un errore, un qualsiasi errore, alla fine del turno è convocato nella sala degli impiegati e dei dirigenti. Questo non è propriamente un luogo discreto. Costruito in vetro tra-sparente è collocato, come apprendiamo dall’articolo sul Corriere della Sera di Pietro Ichino, «in mezzo al percorso del montaggio» in modo che i capi e i dirigenti siano sempre in contatto con gli operai. Per controllarli? Per agevolare nella nuova fabbrica il rapporto di squadra? Le versioni sono diverse. Ma è qui, nei grandi uffici di vetro che gli operai chiamano «l’acquario», che alla fine del turno si reca l’operaio colpevole. Qui trova i capi, i dirigenti, i team leader, qui comincia «la messa». La racconta nei particolari Antonio Di Luca, un delegato Fiom rimasto fuori della fabbrica ma che continua a raccogliere testimonianze su quel che avviene dentro. La messa – dice – «si apre con una dettagliata delazione dei capi o/e dei team leader sugli errori commessi... L’audizione è obbligatoria per gli operai e lo spettacolo viene rappresentato nella pausa mensa. Quindi senza mangiare, dopo che quei poveracci hanno trascorso dieci-undici ore lontano da casa e dopo un turno massacrante di lavoro. Per espiare i propri peccati il povero operaio, in mezzo alle gerarchie di fabbrica, è costretto al microfono a scusarsi dinanzi a tutti di errori che, magari, neanche ricorda, vista la densità delle operazioni cui è stato sottoposto. Deve fornire convincenti prove del suo pentimento, nella speranza che la sua esibizione sia accolta con benevolenza dai capi e dal direttore e che scongiuri l’inevitabile contestazione e multa. Provvedimenti che scatteranno comunque dopo tre messe fino a provocare il licenziamento del malcapitato dopo alcune contestazioni disciplinari». L’errore di cui si deve fare pubblica ammenda può essere causato da stanchezza o da disattenzione. Può, naturalmente, anche denunciare qualcosa che non va nell’organizzazione del lavoro. Ma è chiaro che non è il motivo dello sbaglio il fatto importante. Quel che importa è la contrizione, il pentimento, l’autoaccusa di fronte a chi comanda. Alla fine l’operaio viene lasciato andare con una sorta di assoluzione temporanea, o meglio, c’è la cosiddetta contestazione, una sorta di nota di condotta e poi la multa. Tutti sanno – come del resto spiega Di Luca – che dopo tre contestazioni e tre multe, il licenziamento è probabile. Comunque è previsto dai regolamenti aziendali.
Non è solo la paura di essere mandato via che quella sera induce l’operaio «fortunato» che è stato richiamato al lavoro, a telefonare, a sfogarsi con l’ex compagno di lavoro, con il militante Fiom che, invece, non è rientrato e, probabilmente, non entrerà più in fabbrica, bensì l’umiliazione, la più grande, forse, fra quelle che ogni giorno si è costretti a subire. Lui è stato messo «alla berlina», esposto a tutta la fabbrica, come un incapace, da indicare alla pubblica disapprovazione. «La messa» rito pubblico serve da ammonimento anche agli altri.
Oggi gli operai dell’ex Alfa Sud si dividono in due categorie, quelli che sono stati riassunti a Fabbrica Italia, la nuova società voluta da Marchionne, e quelli che stanno fuori, che non sono stati riassunti, che non sanno se lo saranno mai.
Gli operai che hanno la fortuna di essere tornati al lavoro non parlano e, quando lo fanno, vogliono mantenere l’anonimato. Passano muti e silenziosi davanti alle telecamere. Schivano le domande dei cronisti. La paura era ed è il sentimento dominante. Di quel che succede dentro Fabbrica Italia non si discute. Come sono cambiate le condizioni, se in meglio o in peggio non è dato saperlo direttamente da loro. È un ordine esplicito venuto dall’alto? Verrebbe il sospetto, ma probabilmente non c’è stato neanche bisogno di arrivare a questo. Tutti sanno che c’è un controllo molto serrato, che ogni critica sarà riferita e i critici non saranno guardati di buon occhio.
Così chi lavora a Pomigliano può sfogarsi solo al telefono. Si raccontano vessazioni che appaiono banali tanto sono diffuse e agite: «Oggi ci hanno detto che non possiamo tenere la bottiglia d’acqua minerale accanto a noi sulla linea»: «Ieri il team leader ha cominciato ad urlare perché mi ero appoggiato un momento ad un cassone. Gridava: ‘Vuoi che ci licenzino tutti e due?’». «Sono piena di lividi, urto da tutte le parti quando rincorro alla linea la macchina perché ho paura di perderla».
Perdere la macchina, in effetti, è uno dei guai più grossi che possa capitare. Se per un motivo o per un altro si rallenta, se non si rispetta quella cadenza di un pezzo ogni un certo numero di secondi allora la macchina che stai montando va avanti e ti tocca inseguirla e se la perdi c’è il richiamo, il capo (ora si chiamano team leader ma è la stessa cosa) che «urla e sclera» e minaccia. Ritornano di nuovo in mente le parole di Ichino sull’«assenza di rumore», sull’«ampiezza degli spazi, nell’azzurro della rete dei vialetti con strisce spartitraffico e passaggi pedonali che attraversano le zone di lavoro», e poi quelle sugli «uffici con le pareti di cristallo collocati in mezzo al percorso del montaggio, quasi a sottolineare il superamento di ogni distinzione tra operai e impiegati». E ancora l’ammirazione davanti a quella nuova «catena» «che catena non è più, collocata su di un largo nastro di parquet tirato a lucido, che si sposta lentamente, dove anche a me estraneo viene consentito di muovermi liberamente nei larghi spazi tra una postazione e l’altra». Che cosa manca in quella descrizione? Che cosa è sfuggito al noto esperto di lavoro? Qualcosa che non si tocca, che viene taciuta anche dai diretti interessati, ma che attraversa la fabbrica, è penetrata in ciascun lavoratore e ormai impregna l’aria: la paura, secondo alcuni addirittura il terrore. Si può intuire dai silenzi di chi in Fabbrica Italia ci lavora, ne parlano esplicitamente quelli che sono rimasti fuori e che la sera ricevono decine di telefonate, ascoltano parole di rabbia e poi di rassegnazione. Da quelle telefonate emerge che lo stabilimento di Via Giovan Battista Vico non è più un luogo di lavoro duro, dove si pratica una rigida disciplina, ma vigono anche diritti e dove i rapporti sono sottoposti a regole condivise, ma un luogo dove ogni diritto è stato cancellato e si fa solo ed esclusivamente, fino al più piccolo movimento, quel che viene deciso dall’alto. Del resto che le condizioni di lavoro siano peggiorate lo ammettono, sia pure con molta prudenza, anche quei sindacalisti che l’accordo lo hanno voluto e firmato e ancora oggi sono convinti di aver fatto la scelta giusta. Giovanni Sgambati, segretario della Uilm, riconosce che c’è «maggiore rigidità», che si tratta di una fabbrica «molto gerarchizzata» e che comunque «lavorare in uno stabilimento Fiat è sempre più duro che in altre aziende». Alla Fim, dopo aver fatto notare che grazie alle tecnologie alcune mansioni sono più leggere, si ammette che «in certi reparti le condizioni sono peggiorate soprattutto per i ritmi». «È stato un errore ridurre le pause» riflette Gerardo Giannone, dirigente Fim. Se oggi in fabbrica si sta male, secondo Giannone, non si è mai stati bene. Lui ricorda il 2008, quando Marchionne fece la grande ristrutturazione. La direzione chiamò gli operai e rese loro noto semplicemente che le cose da quel momento cambiavano, si sospendevano tutti i diritti del contratto. Nelle settimane seguenti ci furono 500 contestazioni. La nuova disciplina era dura da far passare. Per questo la Fiat – prosegue Giannone – inventò il reparto di Nola, dove trasferì le teste calde e gli operai con ridotte capacità lavorative. E così facendo intimorì tutti. «Allora – conclude Giannone – si accettò davvero un progetto di schiavizzazione. Tutti capirono che dovevano solo obbedire».
C’è comunque una cosa di cui Uilm e Fim sono orgogliose. Per oltre duemila operai è rimasto un posto di lavoro, un salario, è aumentato un reddito sottoposto per anni ad una cassa integrazione da 850 euro al mese. E questo, finché dura, dà una relativa sicurezza. Non è poco in una terra del Sud dove di lavoro non ce n’è. Meglio sfiancarsi e subire che non avere occupazione e non ricevere la busta paga alla fine del mese, questo è stato ragionamento di chi ha accettato le condizioni imposte dal Lingotto, dei sindacalisti che hanno firmato l’accordo e di quegli operai che adesso non vogliono parlare né con i cronisti, né con i loro compagni rimasti fuori dalla fabbrica. E quando lo fanno difendono la direzione e i suoi metodi. Ne sono veramente convinti? Evidentemente pensano che sia utile. Poco prima della manifestazione Fiom del 9 marzo 2012 un gruppo di loro ha inviato una lettera al presidente del Consiglio Mario Monti e ai presidenti della Rai e dell’ordine dei giornalisti. «Per noi – scrivono – Marchionne non è un amico, ma la controparte con cui stipulare un accordo per lavorare. Ma vogliamo ricordare che parlare male della Fiat significa far odiare il prodotto, e se l’opinione pubblica odia la Fiat non compra auto prodotte in Italia, e ciò comporterà la reale chiusura di fabbriche e di conseguenza la reale possibilità di perdita di posti di lavoro».
La vicenda Pomigliano, secondo i firmatari, è strumentalizzata in ogni dove, creando divisioni nell’intera classe operaia. Alcune trasmissioni e alcuni giornali, nel descrivere l’accordo sottoposto a referendum il 22 giugno del 2010, lo definiscono come un’intesa che «straccia la Costituzione, toglie i diritti, e che ci vede passare come uomini e donne privi di ogni dignità e coraggio».
Loro precisano che «che la malattia ci è consentita, la mensa è sempre aperta, i 10 minuti di sosta in meno vengono pagati, i 18 turni esistevano anche nel vecchio contratto nazionale di lavoro. E poi – concludono – possiamo scioperare quando vogliamo».
Dopo quella lettera molte cose sono avvenute. Prima fra tutte la cassa integrazione anche per chi era rimasto in fabbrica. È calata la produzione anche della nuova Panda e molti hanno capito che, accordo o meno, la situazione della Fiat rimaneva grave. Giovanni Sgambati, che è uno dei sostenitori dell’accordo del 2010, afferma che Marchionne ha avuto il merito di «rivalorizzare la Fiat» e di contrastare il declino, ma aggiunge che «fra i lavoratori c’è amarezza». Le 800 auto prodotte qualche mese fa sono diventate 700. «Loro vedono che da luglio non si corre più di tanto, che la produzione è troppa. Sanno che in altre aziende, quelle della componentistica, si sta lavorando e producendo di meno». Insomma non sono più ottimisti. Il segretario della Uilm è, invece, comunque fiducioso.
Nei prossimi mesi si fermerà la produzione della Panda in Polonia e riprenderà quella di Pomigliano. Le minacce di Marchionne di andare a produrre a minor costo in Polonia non hanno fondamento. «Non è realistico – dice – produrre altrove quel che si produce in Fabbrica Italia. E i lavoratori – aggiunge – sono disponibili ad ulteriori sacrifici perché vengono dalla cassa integrazione e temono il futuro». Lui qualche mese fa, nella prefazione ad un libro di Paolo Picone sulle lotte alla Fiat di Pomigliano, ha scritto che grazie all’intesa raggiunta a Pomigliano la nuova Panda sarebbe stata prodotta in 280.000 unità l’anno. «Questo output – prevedeva – costituirà il primo risultato dei 700 milioni di euro investiti da Fiat, ma se il mercato dell’auto volgerà al meglio per la casa torinese sarà solo il primo modello di tanti altri che saranno prodotti in Campania, chi lo avrebbe detto solo due anni fa che si sarebbe realizzato questo miracolo!».
Il miracolo non si è realizzato, ma i sindacalisti di Uilm e Fim continuano a sperare. Gerardo Giannone, uno dei dirigenti Fim che con più passione ha difeso l’accordo, crede che le cose...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. Parte prima
  6. Parte seconda
  7. Parte terza