Il brevetto
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Andrea Capocci

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Il secondo titolo della stagione per la collana Fondamenti. Un approfondimento sul tema del brevetto, considerato da molti uno stimolo fondamentale all'attività di innovazione tecnologica. È grazie al brevetto, infatti, che un'invenzione cessa di essere un bene comune per diventare una merce da scambiare sul mercato. Ma, come tutti i monopoli, esso limita la competizione tra le idee innovative e può rallentare la diffusione del progresso. Gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone, che hanno finora scritto le regole del sistema brevettuale globale, devono ora fronteggiare la competizione della Cina, dell'India e degli altri paesi emergenti, che chiedono regole nuove. Gli sviluppi della tecnologia, dall'informatica alla genetica, spingono questo dibattito in territori finora sconosciuti e pongono nuove domande alla politica, al diritto e all'economia.

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Information

Publisher
Ediesse
Year
2013
ISBN
9788823017726
Capitolo quarto
Il brevetto in crisi
1. Quanto ci costa il brevetto?
Non sempre il brevetto assolve il suo compito di stimolo dell’innovazione e della sua diffusione nella società. Talvolta, infatti, il monopolio sull’uso di un’invenzione entra in contraddizione con uno dei fondamenti del metodo scientifico attraverso cui la scienza e la tecnologia progrediscono: la riproducibilità dell’esperimento, che prevede proprio la libera possibilità di accedere e utilizzare le conoscenze altrui per verificarle o correggerle. In altre occasioni, come nel caso dei farmaci resi inaccessibili dai costi delle licenze, è il mercato dei brevetti a fallire l’obiettivo di fare incontrare la domanda e l’offerta, cioè i malati e le terapie. Questo è solo uno degli esempi su cui si basano le richieste di riforma del sistema internazionale dei brevetti. È un’esigenza recente dettata da due fattori.
Il primo è la globalizzazione del diritto brevettuale, che oggi impone le stesse regole a tutti gli Stati e impedisce che aree con particolari esigenze ambientali, sanitarie o socioeconomiche possano adottare un regime diverso e più appropriato. La possibilità di produrre o importare brevetti dagli Stati in cui essi costano meno, per esempio, permette agli Stati più poveri di garantire cure essenziali alla popolazione. Dopo molte battaglie da parte delle organizzazioni non governative, questo diritto è stato conquistato, anche se gli accordi commerciali internazionali limitano ancora l’accesso ai farmaci. In questo senso, in effetti, molte critiche sono rivolte al Trips, più che al brevetto in sé.
Il secondo fattore riguarda l’organizzazione della ricerca scientifica, che sempre più spesso si intreccia con l’innovazione tecnologica. In precedenza, la ricerca priva di un’immediata applicazione commerciale non era tenuta a rispettare i brevetti e poteva disporre delle conoscenze con la massima libertà. Il progressivo ritrarsi dell’investimento pubblico nella ricerca e la crescente integrazione tra le università e le imprese hanno reso sempre più labili i confini tra ricerca disinteressata e innovazione tecnologica e la stessa ricerca di base oggi deve fare i conti con il mercato dei brevetti, oltre che con le regole della comunità scientifica.
Anche un’altra forma di proprietà intellettuale, il copyright, è stata messa in discussione sostanzialmente per gli stessi motivi. Il diritto d’autore sul software, sull’informazione, sulla musica e sui film, infatti, alza i prezzi, rende quasi inaccessibile il mercato legale di questi prodotti e, contemporaneamente, ne alimenta la pirateria. Le alternative però esistono: il software libero o open source, le produzioni con licenza «Creative Commons», le edizioni open access, per fare alcuni esempi, sono distribuiti con una diversa modalità: l’utente ha la libertà di copiarli e modificarli, ma è tenuto, in base a licenze perfettamente in regola con le leggi sul copyright, a distribuire ogni opera derivata con la stessa modalità. L’impatto del copyleft (come viene ironicamente denominato questo insieme di alternative al copyright tradizionale) è notevole: nel campo dell’informatica, per esempio, i prodotti open source sono spesso migliori e più diffusi dei concorrenti, tanto che molte società anche di grandi dimensioni si stanno convertendo a questa filosofia produttiva e distributiva.
Estendere un’analoga filosofia anche al campo brevettuale è difficile, in quanto un inventore non ha gli stessi diritti del titolare di un copyright. Quest’ultimo, per esempio, non ha bisogno di un riconoscimento da parte di un’istituzione esterna, mentre un’invenzione deve essere riconosciuta dall’Ufficio brevetti per dichiararsi tale. Quindi, il copyleft, limitandosi ad applicare le regole del copyright tradizionale in modo particolarmente innovativo, ha potuto diffondersi nell’attuale contesto giuridico internazionale senza attendere riforme dall’alto, che forse non sarebbero mai arrivate. Come si vedrà in questo capitolo, invece, le proposte di riforma del brevetto allo scopo di rimediare alle sue distorsioni si muovono tutte sul piano del diritto internazionale.
2. L’agricoltura brevettata
I paesi in via di sviluppo conoscono una lunga tradizione di sfruttamento delle proprie risorse naturali da parte dei paesi più industrializzati bisognosi di materie prime. Oggi, grazie anche all’ingegneria genetica, il benessere della parte ricca del mondo può beneficiare di un’altra risorsa detenuta in gran parte dai paesi poveri: la biodiversità, cioè la ricchezza di specie vegetali e animali che permette all’ecosistema di adattarsi a mutamenti climatici, epidemie o altre aggressioni esterne. In queste aree dell’Africa, dell’Asia o del Sud America, dove l’economia agricola è ancora molto sviluppata, le comunità contadine basano la propria sussistenza sulla conoscenza di una grande varietà di piante coltivate con metodi tradizionali per scopi alimentari e medicinali.
Le imprese agroalimentari e farmaceutiche dei paesi ricchi, da parte loro, hanno un grande interesse ad analizzare le caratteristiche biologiche (genetiche o meno) di tali specie, in quanto dispongono della capacità tecnologica di riprodurle in laboratorio e sfruttarle su scala industriale per produrre sementi, prodotti agricoli e farmaci. Ovviamente, per le società è essenziale brevettare l’uso delle varietà esistenti o le nuove varietà create per mezzo della manipolazione del Dna. In questi casi, l’azienda dovrebbe riconoscere alla popolazione locale un compenso economico o una licenza gratuita di utilizzo dell’invenzione per premiare l’opera di «bioprospezione», cioè l’innovazione originaria che si intende sfruttare. Ma non sempre ciò avviene, e non tutti ritengono che si tratti di un’equa ricompensa per la comunità. «Se tale sapere già esiste, la concessione di un brevetto su di esso è totalmente priva di giustificazioni dato che violerebbe i principi di novità e di non ovvietà. Concedere brevetti sul sapere indigeno equivale ad affermare che il sistema dei brevetti ha a che fare più con il potere e il controllo che con l’inventiva e l’innovazione», scrive la studiosa Vandana Shiva, che da anni si batte a sostegno dei contadini indiani messi a rischio dalle multinazionali agroalimentari. Secondo Shiva e molti altri difensori dei diritti dei paesi poveri, brevettare conoscenze già presenti in maniera informale e non scientifica nella tradizione indigena è un atto di biopirateria e costituisce una violazione del diritto brevettuale (Shiva, 2002: 62-63).
La questione, dal punto di vista giuridico, è intricata perché in alcuni casi una tecnologia nota solo all’estero può comunque essere brevettata (per esempio, secondo la legge statunitense sul brevetto del 1952). In ogni caso, come abbiamo visto nel primo capitolo, consultare le fonti più varie per accertare la novità di un’invenzione è un compito istituzionale degli Uffici brevetti. Le tradizioni culturali dei paesi in via di sviluppo non sono facilmente utilizzate da chi esamina le domande di brevetto (mentre gli albi della Walt Disney, come abbiamo visto, lo sono), per la scarsità di tempo e di risorse a disposizione. Né la pubblicazione della domanda di brevetto, che avviene in genere diciotto mesi dopo il deposito della domanda, è accessibile alle popolazioni rurali interessate, senza le conoscenze tecniche e le infrastrutture telematiche necessarie.
Un caso esemplare di tale strategia è rappresentato dal brevetto sull’uso dell’estratto di neem come fungicida. Il neem, nome indiano dell’Azadirachta Indica, è un albero ed è soprannominato «la farmacia del villaggio» o «l’albero gratuito»: secondo gli studi effettuati, infatti, il suo estratto risulta repellente contro quasi duecento specie di insetti, molti dei quali sono invece resistenti ai pesticidi chimici. Pesticidi, farmaci e cosmetici a base di neem sono comuni in tutte le case dell’India. Le proprietà curative di questa pianta sono menzionate già in testi di duemila anni fa ma, finché l’India è stata una colonia inglese, poca attenzione è stata rivolta ai metodi dei contadini locali. Solo nel 1981 un mercante di legname statunitense, Robert Larson, ha notato le utili proprietà del neem e, nel 1985, le ha brevettate. Anche imprese giapponesi e tedesche hanno ottenuto brevetti basati sull’uso dell’estratto di neem.
Uno dei brevetti più importanti e contestati è stato concesso dall’Ufficio europeo dei brevetti nel 1994, successivamente venduto alla società W.R. Grace e infine revocato nel 2000 dopo una mobilitazione dei contadini indiani (Shiva, 2002: 57-60). Secondo la Corte d’appello dell’Ufficio europeo dei brevetti, che ha confermato la decisione nel 2005, il brevetto non soddisfaceva i requisiti di novità e di sufficiente attività inventiva, proprio come sostenuto dalle associazioni di difesa dei contadini. La Corte ha dunque riconosciuto che l’uso del neem come fungicida è una pratica comune secondo la cultura rurale indiana, nonostante non compaia nelle tradizionali fonti scientifiche consultate per accertare la novità di un’invenzione. Casi analoghi a quello del neem sono numerosi e riguardano altre specie vegetali indiane, come il riso basmati, ma anche di diverse altre regioni del mondo, soprattutto l’Amazzonia e l’Africa subsahariana.
I critici dei brevetti sugli organismi geneticamente modificati (Ogm) denunciano anche lo stato di dipendenza in cui vengono poste le popolazioni rurali costrette a pagare un compenso per utilizzare sementi brevettate. I coltivatori che utilizzano questi semi devono interrompere il ciclo tradizionale dell’agricoltura basato sulla semina di una parte del raccolto degli anni precedenti: vengono obbligati a comprare nuove sementi ogni anno dal contratto con l’impresa agroalimentare che gliele fornisce. Utilizzando le sementi brevettate senza un’esplicita autorizzazione, si commette una violazione del brevetto. Ciò può avvenire persino contro la volontà degli agricoltori: una specie geneticamente modificata può diffondersi e impollinare le coltivazioni tradizionali circostanti e un contadino può ritrovarsi ad utilizzare una tecnologia brevettata senza saperlo e senza averne il diritto. Sembra una situazione paradossale, ma è quella in cui si è trovato l’agricoltore canadese Percy Schmeiser, i cui campi sono stati contaminati dalla colza transgenica prodotta dalla società statunitense Monsanto, il quale è divenuto una celebrità internazionale per l’avventura kafkiana di cui è stato protagonista: per aver coltivato a sua insaputa la colza geneticamente modificata, fu denunciato dal colosso agroalimentare, che chiedeva un risarcimento per violazione del suo brevetto. Dopo un lungo iter giudiziario, la Corte suprema canadese ha riconosciuto le ragioni di Schmeiser, che non ha dovuto corrispondere alcun pagamento alla Monsanto. La diffusione di una coltura Ogm, infine, ha un impatto letale sulla biodiversità dell’ecosistema e lo rende più vulnerabile.
Il problema è riconosciuto a livello internazionale e regolato da diversi accordi. L’Unione internazionale per la protezione di nuove varietà di piante, aggiornata nel 1991, prevede un diritto di monopolio esclusivo per chi crea nuove specie vegetali. La Convenzione internazionale sulla biodiversità del 1992 affida alle comunità indigene il ruolo (l’obbligo, anzi) di preservare la biodiversità. Infine, lo stesso Trips lascia agli Stati l’opzione di proteggere la proprietà intellettuale sulle varietà di piante e animali attraverso istituti giuridici diversi dal brevetto. La coesistenza di diversi regimi giuridici in materia, tuttavia, più che tutelare dagli abusi, ha creato un clima di incertezza favorevole ad essi.
Altre iniziative tese a contrastare il fenomeno dei brevetti sulle conoscenze tradizionali si muovono su un terreno diverso da quello del diritto internazionale. Dal 1999, il Consiglio della ricerca scientifica e industriale indiano e il Dipartimento di ayurveda, yoga, naturopatia, unani, soìddha e omepatia del Ministero della Sanità e della famiglia del governo indiano collaborano per creare una banca dati digitale dei saperi tradizionali, in cui sono riunite migliaia di descrizioni di tecniche a scopo agricolo o medicinale. L’archivio si chiama Traditional Knowledge Digital Library (Libreria digitale delle conoscenze tradizionali, Tkdl), è disponibile su internet all’indirizzo www.tkdl.res.in e, grazie ad accordi con gli uffici brevetti statunitense, europeo e giapponese, oggi fa parte del corpus di conoscenze esistenti con cui si devono confrontare le invenzioni da brevettare per dimostrarne l’originalità. L’archivio contiene anche le descrizioni video di oltre mille asana, le posizioni degli esercizi yoga, per impedire che esse siano brevettate. Non si tratta di un timore infondato: l’Ufficio brevetti e marchi degli Stati Uniti ha già concesso oltre cento brevetti sullo yoga. Dall’introduzione del Tkdl, decine di brevetti sono stati invalidati grazie alle informazioni contenute nell’archivio.
3. L’accesso ai farmaci
L’attenzione dell’opinione pubblica al tema dei brevetti deriva in massima parte dall’impatto della proprietà intellettuale sul mercato farmaceutico. Il monopolio su un farmaco può aumentarne il prezzo fino a renderlo inaccessibile ai malati. È la situazione che fronteggiano le vittime di pandemie come l’Hiv, la tubercolosi o la malaria nel sud del mondo. Il brevetto va difeso anche al costo della loro salute?
La posta in gioco, evidentemente, è grande. Da un lato, i costi del sistema dei brevetti appaiono moralmente insostenibili per chi difende i diritti dei malati; dall’altro, secondo le società farmaceutiche, quei farmaci non sarebbero esistiti affatto senza gli incentivi necessari. Ma quanto costa «inventare» un farmaco? In effetti, l’innovazione in questo settore è particolarmente impegnativa e incerta. La sviluppo di un nuovo farmaco dal laboratorio di ricerca al bancone di una farmacia implica uno sforzo duraturo e costoso e non è certo un investimento sicuro. Oltre ai rischi connessi ad ogni impresa scientifica, un farmaco deve anche superare prove di sicurezza da parte di vari organismi pubblici. Inoltre, al prodotto finale non basta essere efficace, ma deve anche risultare redditizio sul piano economico, soprattutto se il produttore è un’impresa privata. Valutare l’importanza di ciascuno di questi fattori non è facile, anche perché le imprese non mettono i loro dati a disposizione della comunità scientifica. Di conseguenza, le stime degli investimenti delle case farmaceutiche variano notevolmente a seconda del metodo applicato dagli economisti che vi si sono cimentati. Il valore più citato dalla comunità scientifica è quello stimato dagli economisti Joseph A. DiMasi, Ronald W. Hansen e Henry G. Grabowski, secondo cui l’intero sviluppo di un nuovo farmaco costa circa 800 milioni di dollari (Di-Masi, 2003). Senza un’alternativa al brevetto altrettanto efficace, è difficile che un’impresa farmaceutica sopporti volontariamente costi così elevati.
Il tema ha conquistato un’enorme rilevanza dopo l’entrata in vigore del Trips, che obbliga gli Stati aderenti a riconoscere i brevetti sui farmaci. In precedenza, tra i paesi in cui i farmaci non erano brevettabili esisteva un mercato parallelo che permetteva ai governi di fronteggiare le emergenze sanitarie acquistando farmaci a basso costo. Dopo l’accordo, le società farmaceutiche sono potute diventare monopoliste globali dei farmaci tanto da guadagnarsi il nomignolo collettivo, non certo benevolo, di «Big Pharma»: dunque, possono fissare il prezzo secondo le loro convenienze. Secondo i sostenitori del Trips, il libero mercato farà in modo che nei paesi poveri, pur di andare incontro alla domanda, le case farmaceutiche abbasseranno il prezzo di vendita dei farmaci o cederanno le licenze a prezzi ridotti.
Purtroppo, non è così semplice. Gli economisti Sean Flynn, Aidan Hollis e Mike Palmedo hanno esaminato il mercato dei farmaci in mercati a basso tenore di vita e con elevate disparità: è proprio la situazione di molti paesi poveri a sud del Sahara, in America latina o nell’Asia sud-occidentale. Quando la maggior parte dei potenziali acquirenti ha un bassissimo potere d’acquisto, al produttore conviene alzare il prezzo dei farmaci: nella fascia di reddito più elevata della popolazione, infatti, l’aumento dei prezzi non provocherà la perdita di molti «clienti», cioè malati in grado di pagarsi le cure. In un sistema in cui i redditi sono elevati ma sono distribuiti in maniera più equa (per esempio, in Norvegia), il produttore invece ha interesse a mantenere bassi i prezzi, alla portata della maggior parte dei potenziali acquirenti. Ciò spiegherebbe perché alcuni farmaci abbiano un prezzo inferiore in paesi ricchi rispetto ai paesi poveri (Flynn, Hollis, Palmedo, 2009). D’altronde, prima del Trips in molti paesi i brevetti sui farmaci non erano ammessi proprio perché il monopolio poteva limitare l’accesso alle cure.
Per tali paesi, l’accordo firmato nel 1994 prevedeva la possibilità di istituire licenze obbligatorie: in altre parole, se un produttore non riesce ad ottenere una licenza ordinaria dal detentore del brevetto, in modo da soddisfare la domanda di farmaci, il governo poteva autorizzare la produzione di quel farmaco anche senza il consenso del detentore. Nonostante le apparenze, si trattava di una deroga di portata limitata: infatti, nei paesi poveri in cui il brevetto impedisce l’accesso a farmaci, spesso non esiste nemmeno la capacità industriale di produrli in proprio. Questi paesi, dunque, sono costretti a rivolgersi al mercato parallelo, comprando i farmaci da altri paesi in cui simili infrastrutture esistono. Ma se nel paese esportatore la licenza obbligatoria non è permessa, l’Omc può bloccarne il trasferimento verso altri paesi. Questo vicolo cieco, com’è evidente, rende inefficace la flessibilità permessa dal Trips.
La questione è esplosa in tutta la sua evidenza quando il governo sudafricano, alla fine del 1997, ha deciso di riformare il sistema sanitario per fronteggiare l’epidemia di Hiv. All’epoca, il 20 per cento della popolazione adulta ne era affetta e la terapia basata sui farmaci anti-retrovirali costava circa...

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