Quale sinistra dopo la sconfitta?
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Quale sinistra dopo la sconfitta?

About this book

La sinistra deve con coraggio indagare a fondo la realtà e anche se stessa. Oltre la contingenza stucchevole di un'effimera citazione sui media, deve costruire risposte alternative a quelle delle classi dominanti e avere un suo progetto di società. Questi temi sono stati al centro di una riflessione che l'Ars (l'Associazione per il rinnovamento della sinistra) ha sviluppato nel corso dell'Assemblea "Quale sinistra dopo la sconfitta", che si è tenuta il 14 giugno del 2013. Il volume riproduce il dibattito che si è svolto in quella sede, insieme ai materiali preparatori. La domanda a cui i vari interlocutori hanno cercato di dare risposte è ineludibile: come uscire dall'afasia, dalla crisi di idee e prospettive della sinistra italiana. Come scrive Alfiero Grandi nell'introduzione al libro, "l'Associazione per il rinnovamento della sinistra ha sempre cercato di superare i limiti di una discussione reticente e schematica sugli errori della sinistra. Troppo soggettivismo nell'attribuire le sconfitte ai soli gruppi dirigenti della sinistra, che pure di errori ne hanno fatti tanti. Troppo consolatorio contrapporre la "base", che avrebbe in sé le risorse per reagire al meglio, ai vertici politici, talvolta anche sindacali, considerati incapaci di affrontare le situazioni. L'Ars ha cercato le ragioni degli errori e delle sconfitte più a fondo, in particolare nella debolezza dei fondamenti politici, sia nell'analisi che nelle proposte, con riflessioni dure, forse aspre, ma sempre con lo scopo di contribuire a capire, ad approfondire e per aiutare un lavoro di lunga lena che non si accontenta né di individuare i presunti colpevoli, né della ricerca della palingenesi risolutiva".

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SEZIONE PRIMA
I materiali preparatori dell’Assemblea
Documento base per l’introduzione dell’Assemblea dell’ARS, 14 giugno 2013
di Alfiero Grandi, Presidente nazionale ARS
1. La crisi politica e istituzionale evidenziata dalle ultime elezioni in Italia ha radici antiche e investe i fondamenti stessi della Costituzione che è considerata da molti – giustamente – il baluardo della convivenza civile nel nostro paese.
I risultati elettorali del 24/25 febbraio 2013, che hanno visto un’importante affermazione del Movimento 5 Stelle e scardinato il quadro politico bipolare, sono l’ennesima convulsione della politica italiana e insieme un segnale per l’intera Europa. Infatti tra le componenti che l’hanno generata ci sono sia la caduta impressionante di credibilità della rappresentanza politica e ancora di più le devastazioni sociali ed economiche causate da cieche politiche di austerità che chiamano in causa direttamente gli errori dei gruppi dirigenti europei.
Venti anni fa la crisi politica esplosa con Mani pulite portò alla scomparsa dei partiti che avevano dato vita all’attuale assetto costituzionale e si arrivò all’affermazione elettorale di Berlusconi, con la formazione di un blocco politico e sociale di destra che è diventato, malgrado gli scandali e il deficit politico, un protagonista della scena politica degli ultimi venti anni, troppe volte dato per liquidato con faciloneria. Le ultime elezioni politiche hanno visto l’affermarsi di tre blocchi politici non molto distanti tra loro. Tra questi il M5S è riuscito a raccogliere buona parte della diffusa critica alla politica, senza distinzioni. L’insoddisfazione e la protesta verso i partiti sono cresciute nel tempo e si sono radicate in profondità. La destra ha approfittato delle contraddizioni e dei gravi errori del centrosinistra, fino a realizzare una ripresa. Il centrosinistra e in particolare il PD sono in evidente crisi di identità e di prospettiva. A questo va aggiunto l’astensionismo dal voto che è ormai il quarto blocco politico.
La critica alla rappresentanza politica, perfino feroce, si è intrecciata con gli effetti della crisi economica e sociale che dura da oltre cinque anni e che ha causato una regressione di decenni nei redditi, nell’occupazione, nei diritti di chi lavora e l’espansione della povertà a livelli sconosciuti. L’IRES CGIL denuncia che sono nove milioni le persone colpite da disoccupazione, precarietà, assenza di prospettive. La responsabilità della destra nella recessione è fuori discussione, anzitutto per avere negato e sottovalutato la crisi. La recessione economica si è aggravata anche per gli effetti nefasti dei provvedimenti del governo Monti, sottovalutati nei loro effetti dal PD che quei provvedimenti purtroppo ha votato. La ricerca da parte degli elettori di novità politiche ha origini diverse tra loro, che hanno in comune l’auspicio di una vera e propria svolta. Spesso la fiducia degli elettori è stata mal riposta, ma anche per questo c’è da interrogarsi con severità su quali errori abbiano commesso i partiti che hanno reso possibile questa deriva, che ha coinvolto anche la sinistra. Nel corso degli ultimi venti anni le coalizioni che in un modo o nell’altro incarnavano una proposta di centrosinistra hanno fallito perché spesso incapaci di rappresentare i bisogni delle persone che pure ne erano la base sociale, culturale e politica.
Queste coalizioni hanno avuto andamenti erratici, difformi nel tempo e quando hanno prevalso le esclusioni, o le auto esclusioni, la vittoria elettorale è diventata irraggiungibile. Fino all’ultima ulteriore perniciosa divisione che ha portato il centrosinistra alla sconfitta e altri alla scomparsa dalle sedi parlamentari.
La valutazione politica non può quindi limitarsi alle ultime elezioni, per quanto rilevanti siano le novità, ma deve cercare di cogliere quanto è accaduto almeno negli ultimi venti anni. In altre parole, se Berlusconi da venti anni è un problema politico, malgrado il conflitto di interessi e comportamenti inaccettabili, la ragione deve essere cercata più a fondo della sua presunta abilità o della mera proprietà dei mezzi di comunicazione.
Consentire alla magistratura di applicare le leggi e punire i colpevoli di reati, Berlusconi compreso, non risolve il problema politico di battere elettoralmente la destra, ma è vero anche il contrario e questo sembra troppe volte dimenticato.
La sfiducia è cresciuta di pari passo con l’immobilismo politico e l’incapacità della sinistra di distinguersi con nettezza dalla destra, di delineare uno scenario nuovo e diverso, politico e sociale, un sogno per il futuro del paese. Troppe volte i «vincoli europei» sono stati strumentalizzati per costringere il nostro paese a manomettere lo Stato sociale, ad accettare una flessibilità selvaggia del mercato del lavoro, a subire lo scivolamento dai settori produttivi alla finanziarizzazione dell’economia, per di più senza regole. I vincoli di bilancio sono diventati la leva per obbligare a una modifica di fondo dei meccanismi economici, con l’obiettivo di «affamare» la bestia dello Stato sociale, ritenuto non più compatibile con la competizione internazionale e con la globalizzazione. Purtroppo anche il governo Monti ha posto l’accento sui cosiddetti «compiti a casa», che sono emblematicamente la conferma di una subalternità di fondo alle decisioni dei paesi e delle culture conservatrici dominanti in Europa. In sostanza a sinistra è prevalsa una subalternità all’egemonia conservatrice e di conseguenza al ricatto dei mercati finanziari.
L’asse strategico dell’austerità ha spinto l’Europa ad avvitarsi in una recessione senza precedenti, che ha provocato costi sociali enormi non solo alla Grecia ma a molti altri paesi europei e da ultimo a Cipro, confermando il grave errore di consegnare la risposta alla crisi nelle stesse mani delle politiche che l’hanno generata e in particolare con una subalternità di fondo ai mercati finanziari, alle loro logiche e ai loro ricatti.
Per questo oggi l’ideale europeo è in crisi e nessun giuramento fideistico potrà scongiurarne la crisi. Solo il rilancio della solidarietà e dell’uguaglianza, della valorizzazione dei diritti, una risposta innovativa nella qualità dello sviluppo e rispettosa dell’ambiente, possono ridare slancio alla costruzione dell’Europa. Troppe volte si è sentito parlare di recente, a proposito e a sproposito, di uscita dall’euro di qualche Stato membro e questo è un segnale preoccupante. La minaccia dell’uscita dall’euro è stata usata come una clava per obbligare i paesi in difficoltà a subire le misure imposte dalla tecnocrazia europea, anche quando si sono rivelate cervellotiche e nefaste. Ora sappiamo con certezza che i calcoli su cui sono basate le direttive UE per la Grecia sono sbagliati, eppure non vi è stata nessuna correzione. L’Europa è precipitata dall’ambizione di realizzare la crescita della buona occupazione e del benessere delle persone, come era già nel piano Derlors, a una sostanziale indifferenza per le tragiche conseguenze sociali di una cieca politica di austerità ad ogni costo, che ha portato la disoccupazione a livelli insopportabili. Il Fiscal compact è un provvedimento sbagliato e purtroppo anche la sinistra presente in Parlamento lo ha approvato nella passata legislatura, sottovalutandone colpevolmente le conseguenze come il taglio del 5% di PIL all’anno per venti anni, con il sostanziale blocco della possibilità di autonome scelte nazionali. Non è vero che questa era l’unica scelta possibile e per di più è la prima volta che una teoria economica conservatrice non solo prevale ma si fa Stato ed esclude le altre. Era sufficiente – ad esempio – che la BCE venisse autorizzata a finanziare il debito pubblico degli Stati dell’eurozona eccedente il 60% anziché trasferire 1.000 miliardi di euro alle banche per consentire loro di lucrare sulla differenza tra i tassi della BCE e quelli dei debiti pubblici nazionali. Questa politica di miope austerità sta sempre più tracciando un solco difficile da colmare tra i paesi forti e quelli deboli dell’Europa, con i primi che finiscono perfino con il beneficiare delle disgrazie degli altri, pagando interessi bassissimi sui loro debiti e ottenendo credito conveniente per le loro imprese.
Il ripiegamento conservatore della prospettiva europea è un elemento costitutivo della crisi italiana, che le classi dominanti nel nostro paese affrontano in modo subalterno, mentre sarebbe necessario ribaltare le politiche dell’Unione Europea, ritrovando ispirazione sociale e solidarietà.
2. La globalizzazione è stata intesa come mero adattamento del nostro paese alle condizioni imposte dai mercati finanziari e non come occasione per ridefinire un ruolo dell’Italia, e dell’Europa, nel mondo. In questo c’è un’evidente responsabilità delle classi dominanti, anche di quelle imprenditoriali.
La globalizzazione è stata letta più come esigenza di abbassamento delle condizioni di lavoro dei paesi sviluppati al livello dei nuovi paesi concorrenti che come ricerca di una nuova ed equa divisione internazionale del lavoro. Questo ha generato una divaricazione sociale drammatica crescente, con l’emarginazione di settori sempre più ampi della società. Non era affatto scontato che questo ne fosse l’esito. Avere aperto ai mercati finanziari le frontiere senza introdurre regole e consentendo il libero spostamento dei capitali ha impresso una svolta epocale e ha creato le premesse per una situazione fuori controllo nella finanza e di conseguenza nell’economia. I capitali finanziari hanno finito con il dettare le loro regole agli Stati. La stessa crisi economica iniziata alla fine del 2007, tuttora in atto senza una soluzione visibile, nasce dai mercati finanziari, dalla loro ipertrofia (12 volte il PIL mondiale) dal progressivo distacco di ogni rapporto con l’economia reale, materiale e immateriale. Al punto che oltre il 90% della finanza opera per alimentare lo stesso mercato finanziario. Parafrasando Sraffa si potrebbe dire che si produce denaro attraverso la produzione di denaro. La riforma del sistema bancario di tipo generalista introdotta da oltre due decenni va rivista perché consente di usare i risparmi per speculazioni all’insaputa e alle spalle degli stessi risparmiatori, alimentando il turbocapitalismo finanziario.
A più di cinque anni dall’inizio della crisi e malgrado questa sia tutt’altro che risolta i governi non hanno adottato un quadro di regole nuove ed efficaci per governare i mercati finanziari, tanto meno hanno attivato sedi internazionali. In proposito nel seminario che abbiamo promosso insieme alla Fondazione Di Vittorio un anno fa abbiamo avanzato un quadro di proposte. Solo recentemente si è parlato di nuove regole che però sono insufficienti e tardive di fronte ad una nuova massiccia crescita degli strumenti speculativi, già arrivati oltre il livello precrisi. La stessa «Tobin tax» adottata da 11 paesi a livello europeo, compresa la versione Monti, rischia di essere esattamente il contrario di quello che avrebbe dovuto essere: conoscenza, controllo e tassazione dei mercati finanziari per scoraggiare le derive speculative e quindi anzitutto sui derivati e i prodotti finanziari non trasparenti.
La fine dei blocchi politico-militari usciti dalla seconda guerra mondiale ha lasciato spazio all’egemonia dei mercati finanziari e dei grandi gruppi economici che hanno l’obiettivo di operare in condizioni di vera e propria extraterritorialità. La stessa evasione fiscale dei grandi gruppi, che ora preoccupa tutti i governi e non più solo l’Italia, è la manifestazione di un’extraterritorialità di fatto delle grandi attività economiche e finanziarie. Da ultimo la FIAT ci riprova portando la sua sede fiscale all’estero. Questo non ha nulla di oggettivo, è solo il risultato di scelte politiche che hanno permesso la crescita di questo devastante fenomeno, tollerando paradisi fiscali da operetta che esistono solo perché alle classi dominanti conviene che esistano.
A livello europeo si è arrivati ad affrontare le difficoltà e le crisi del sistema bancario, intrecciato a quello finanziario, con prestiti della BCE che hanno consentito alle banche di acquistare i titoli di Stato lucrando sulla differenza tra i prestiti della BCE e i tassi dei titoli pubblici. In pratica una sovvenzione pubblica nascosta alle banche. Mentre prestiti diretti della BCE alle stesse condizioni agli Stati già in difficoltà avrebbero consentito di non pagare un ulteriore aggio alle banche.
Purtroppo anche la voce internazionale della sinistra non è mai stata tanto debole come in questa fase. Dopo la caduta del muro anche la socialdemocrazia ha allentato i legami internazionali. I legami esistono ancora ma sono pressoché senza efficacia reale e solidale, in particolare non c’è una condivisa lettura del mondo, delle soluzioni ai suoi problemi. Proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di un ruolo internazionale della sinistra c’è la sua massima difficoltà a reagire unitariamente alla crisi e alle soluzioni conservatrici dominanti. Proprio quando i problemi sono globali la sinistra è debole, divisa, incerta, prigioniera di logiche nazionali, spesso limitate e grette. Un mondo sempre più globalizzato non può avere risposte adeguate da una somma incoerente di risposte nazionali. Per questo occorre ricostruire e dare ruolo a sedi internazionali della sinistra, dei sindacati, ecc. per organizzare attorno ad obiettivi comuni un’altrettanto comune battaglia della sinistra politica e sociale.
Il problema della sinistra è ritrovare un’analisi complessiva e condivisa dei processi mondiali, nel cui ambito individuare i punti di attacco comuni: a partire dal lavoro e dai suoi diritti, dalla lotta alla fame e alla povertà, dalla pace.
Nel pianeta si manifestano gravi crisi e guerre che è riduttivo definire locali, spesso valutate con criteri ondivaghi, nella sostanziale assenza di una credibile iniziativa internazionale.
È inaudito che la produzione per la guerra, essenzialmente distruttiva, entri nel calcolo del PIL e lo spreco rappresentato dall’emarginazione crescente, dalla povertà, dalla distruzione dell’ambiente venga ignorato, così il benessere sociale e l’uguaglianza non sono considerati parametri fondamentali per calcolare la vera ricchezza delle nazioni. La proposta di rivedere le modalità di calcolo del PIL introducendo altri parametri è un modo per riaprire un dibattito culturale e politico sul fine e i limiti dello sviluppo e in questo senso la stessa idea della decrescita, in sé non convincente, può tuttavia contribuire a provocare risposte nuove rispetto al continuismo sviluppista tuttora dominante. Anche in una fase di risorse scarse è possibile compiere scelte diverse, decidere altre priorità, come ad esempio tagliare gli investimenti in armamenti, a partire dagli F35 su cui insiste il governo Letta, investendo invece in occupazione e socialità. La soluzione dei problemi economici intesa come crescita di uno sviluppo uguale al passato, con la conseguente distruzione delle risorse naturali sempre più scarse, è destinata ad accelerare i processi. O si cambia, o il pianeta rischia ed è l’unico che abbiamo.
In questo senso una strategia mediterranea di crescita comune di tutta l’area resta la risposta migliore all’ansia esplosa con le rivolte nel Nord Africa, soprattutto tra i giovani, che ora rischiano di essere respinti nel sottosviluppo, nella disperazione, prigionieri della regressione fondamentalista.
3. La crisi attuale non è congiunturale. Non si tratta di aspettare che passi la nottata. La crisi pone con forza l’esigenza di un nuovo sistema economico, in cui la società deve collettivamente ritrovare le ragioni e le condizioni per determinare gli obiettivi di interesse generale, quindi comuni, da realizzare nel pieno rispetto della libertà. La ricerca culturale e politica sui beni comuni della collettività ha anche questo significato.
La dominanza del capitale finanziario ha moltiplicato il sequestro da parte della rendita di quote crescenti del PIL, riducendo lo spazio salariale e delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, e ha condizionato drammaticamente gli investimenti che si sono spostati dai settori produttivi di beni materiali e immateriali alla rendita finanziaria e con questo ha condannato le economie al blocco e alla recessione. La finanziarizzazione dell’economia ha accentuato la rapina delle risorse naturali, lo spreco di risorse e di energia. La finanziarizzazione ha invaso anche aspetti delicatissimi come il diritto alla vita, all’istruzione, all’assistenza, ad una vecchiaia serena, mettendo sopra ogni altra cosa il fine del profitto di una parte. Per questo è indispensabile porre il problema di un nuovo modello di sviluppo fondato sulla qualità, sull’ambiente e sul benessere delle persone. Perché già oggi lo sviluppo che conosciamo non è sostenibile nel tempo, né sul piano della disponibilità delle risorse, né su quello delle conseguenze sull’ambiente fragile del nostro paese. Anche il mondo imprenditoriale dovrebbe comprendere che decidere in comune il futuro della società non è un vincolo negativo ma è garanzia di futuro per le stesse imprese. Le conseguenze dello sviluppo sono più che mai profondamente interconnesse, ma nello stesso tempo risulta difficile controllarle all’origine per la chiusura in logiche nazionali che la crisi economica ha profondamente accentuato. Anche la visione europea attuale è l’ombra delle visioni ambiziose che sono state all’origine della suggestione europeista dopo la seconda guerra mondiale. Prevalgono infatti interessi nazionali che condizionano pesantemente le politiche europee.
La piena libertà di movimento dei capitali, l’esasperata concorrenzialità costruita essenzialmente sul fattore lavoro e quindi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori, hanno determinato la crisi delle precedenti aggregazioni produttive e sociali, con la conseguente crisi dei legami sociali e di solidarietà che hanno caratterizzato in particolare il Novecento.
4. La sinistra italiana è uscita duramente sconfitta dalle ultime elezioni, e purtroppo non è la prima volta che accade. La dimensione della sconfitta elettorale e la successiva formazione del governo Letta, che ha il sostegno parlamentare della destra e della sinistra e che ha quindi contraddetto drammaticamente tutto quanto è stato detto in campagna elettorale dal centrosinistra, è destinato a provocare una crisi ancora più grave proprio a sinistra.
Il tentativo di rivoluzione civile, malgrado l’ampia aggregazione di soggetti, ha dato risultati negativi e oggi non è rappresentata in Parlamento. L’aggregazione di centrosinistra non è riuscita ad interpretare la diffusa richiesta di rinnovamento perché il risultato elettorale ha contraddetto diffuse previsioni di successo, con la perdita di tre milioni e mezzo di voti. La crisi non riguarda solo la sinistra italiana, ma certo in Italia la crisi è particolarmente grave. La gestione della crisi economica e sociale nel quadro delle politiche di austerità si sta rivelando impossibile senza rimuovere i blocchi e i vincoli che essa impone. Questo è certamente vero in Italia, ma lo è anche nel resto dell’Europa, a partire dalla Francia.
Le risposte della sinistra alla crisi, dopo questa ennesima sconfitta, non sembrano tenere conto della gravità della situazione che non può essere nascosta né dal ritorno in Parlamento di SEL, né tanto meno dalla sopravvalutata rappresentanza parlamentare del PD. PD la cui parabola discendente è tutt’altro che conclusa dopo l’infausta decisione di dare vita al governo con la destra, che è segno della confusione politica di questo partito che si aggiunge alle disastrose prove date in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, sulle quali per di più sembra avere rinunciato a compiere un’analisi franca e senza remore. Probabilmente l’elezione di Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica avrebbe potuto dare una soluzione diversa alla crisi aperta dal risultato elettorale.
Proprio il PD è oggi il centro della crisi a sinistra ed è destinato ad un travaglio profondo, a causa anzitutto della sconfitta elettorale, aggravata dalla scelta di formare un governo con la destra, scelta esclusa fino all’improvviso e improvvido voltafaccia, che ha portato alla crisi anche della stessa coalizione di centrosinistra.
Da questo travaglio il PD non uscirà senza avere ritrovato connotati di sinistra, a partire da una rinnovata consapevolezza della profondità della crisi e del bisogno di proporre un’alternativa politica credibile, visibile e unitaria perché in grado di superare le differenze di condizione sociale, di cultura, di esperienza.
In gioco c’è qualcosa più di fondo, perfino dell’esistenza dei partiti. Non basta più ripetere la parola sinistra per essere identificati come una forza da sostenere. Occorre una lettura adeguata, non solo tattica, della crisi. Occorrono soluzioni politicamente autonome nella lettura della crisi. Occorre il ritorno ad un rapporto di massa, utilizzando certo anche le forme tecnologiche più innovative, ma soprattutto ricostruendo un rapporto di fiducia tra rappresentanti e rappresentati, che è particolarmente in crisi a sinistra.
Il successo del M5S è anche frutto di una parola d’ordine pericolosa come il superamento dei partiti, il cui ruolo è incardinato nella Costituzione e la cui assenza condannerebbe le classi subalterne a rimanere tali. Né convince la fuga salvifica nell’empireo incontrollato della rete. Ciò non toglie che se si vuole ridare senso e forza alle parole politica e partito, almeno a sinistra, occorre una svolta netta nei comp...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Presentazione dell’e-book di Alfiero Grandi
  5. Sezione Prima
  6. Sezione Seconda
  7. Note