Contributi di Luigi Alici, Rossana Berardi, Franco De Felice, Elena Imperio, Maurizio Mercuri, Fabrizio Volpini
Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
senza il permesso scritto dell’Editore.
Invito alla lettura (di Massimiliano Marinelli)
Quando con Elena Imperio si è pensato di organizzare un evento formativo a nome della sua Associazione l’Amore donato Onlus, ci siamo trovati subito d’accordo nel centrare il tema sulla cura e, successivamente, sulle persone che curano.
Da qui il titolo del convegno che rappresenta anche la proposta editoriale della quale si invita alla lettura.
Definito il titolo del convegno e determinati i temi, ci siamo accorti, tuttavia, in quale guazzabuglio ci eravamo cacciati poiché, quanto più si tentava di circoscrivere il significato della cura e di delineare la figura di curatore, tanto più tali confini si facevano indistinti e il curatore si arricchiva di nuovi connotati.
La cura sfuggiva ad una mera interpretazione medica e il curatore poteva trovare solo temporaneamente rifugio sotto le ali del professionista della salute.
Cura e curatori, infatti, possono essere meglio compresi solo attraverso una dinamica interdisciplinare che, seppure spesso evocata è altrettanto spesso disattesa, finendo per realizzare discorsi separati gli uni dagli altri, tenuti insieme solo dal collante dell’identico nome.
Ecco, l’obiettivo del convegno è stato mettere realmente a colloquio la Medicina con la Filosofia, la Psicologica con le Scienze sociali e tutti questi campi del sapere con la irruenza materiale delle storie di ferite e di sofferenza che ci interpellano quotidianamente, in modo da abbozzare un unico discorso, seppure polifonico, che potesse rappresentare uno spunto per la pratica della cura.
Quando si è proposto di pubblicarne gli atti, ci si è accorti che il non detto: ciò che era emerso nello spirito della giornata e nelle discussioni che ne erano scaturite: il tutto del convegno era superiore alla somma delle singole parti, poiché prospettava una via formativa: un modo di cogliere la cura e di realizzarla che non doveva essere perduto.
Per tali ragioni è nato questo testo.
Esso, pur non rispecchiando fedelmente le rispettive relazioni svolte, ne mantiene il senso, arricchendole di ulteriori significati e proponendo vie formative che ci appiano percorribili.
Il contributo che Elena ci ha offerto è nel contempo una commovente lettera d’amore, un’esigenza insopprimibile ed il racconto di un viaggio.
È una splendida lettera di amore e di riconoscenza per il marito che, nella stretta della sofferenza, ha mostrato “quali siano gli occhi con cui guardare i propri figli: quello sguardo che lui riusciva a far brillare ogni volta che li incontrava, nonostante il dolore e la sofferenza tra il doverli lasciare e il volerli ancora amare”.
Si tratta di un manifesto della potenza dell’amore tra due esseri umani che, seppure colpiti in modo irreparabile, trovano la forza per dipanare assieme tutto il filo rosso di vita che rimane.
Elena, inoltre, esprime l’esigenza di raccontare la sua esperienza, perché «l’intensità, la sofferenza e la bellezza di quei momenti, le mille sfumature legate ad ogni istante in qualche modo non vadano perse dalla sua memoria, non vengano sovrascritte da altre situazioni».
Raccontare significa non dimenticare, ma custodire nel ricordo che si dipana nel testo ogni possibile sfumatura di una storia che, ogni volta, rivive luminosa nella mente e nel cuore, frase dopo frase.
Infine, quello di Elena, è un racconto terribile e meraviglioso di un viaggio durato 84 giorni, compiuto con il desiderio di stare accanto al marito fino alla fine, scegliendo la libertà di esserci e di starci con tutta se stessa, decidendo assieme di trasformare quella serie cronologica di interventi, diagnosi, prognosi, e verdetti, in occasioni: la nostra umanità, ricorda Elena, è emersa in tutta la sua intensità e incredulità. Il tempo vissuto è stato kairos: occasione, grazia di crescita e di prova.
Il saggio di Luigi Alici presuppone le storie come quelle di Elena, dove, in un euristica della debolezza, «la fragilità che illumina e costituisce, senza eccezioni, la condizione umana non è un ostacolo, ma è un fattore imprescindibile per la crescita spirituale e umana, che ci accomuna e ci rende, in misura di volta in volta diversa, debitori gli uni degli altri».
Nel suo importante contributo, Alici esplora il rapporto tra ferita e limite: la ferita che è nell’ordine dell’eventualità e che nelle sue infinite sfaccettature ci rende tutti diversi, è resa possibile dal fatto essenziale che il limite con la sua fragilità e mortalità rappresenta la condizione umana.
Ecco allora che se «la ferita presuppone il limite come sua condizione di possibilità, il limite preannuncia la ferita come una eventualità prevedibile, anche se inaccettabile. La ferita che si aggiunge al limite testimonia un vulnus che offende la finitezza, ma non sconfessa l’originaria dignità antropologica: al contrario, giustifica la risposta della cura».
Siamo entrati, quasi in punta di piedi, nel territorio della cura alla quale l’autore dedica un triplice approfondimento: «in primo luogo, occorre motivare il rapporto tra l’esperienza negativa della ferita e il compito, moralmente vincolante, della cura; in secondo luogo, è possibile ricavare dalla differenza tra limite e ferita l’idea di una doppia articolazione dell’etica della cura; infine, questa doppia articolazione potrebbe aiutarci a ritrovare nuove forme di dialogo ravvicinato tra filosofia e medicina».
In questa riflessione sulla cura, della quale è pur necessario ritrovare la matrice unitaria di un processo che ha conosciuto, soprattutto nella modernità, troppe scissioni, si innesta il pensiero femminile che la valorizza nel senso della immediatezza del contatto, della compassione e dell’empatia.
Nasce così una doppia articolazione etica, nella quale è possibile far conciliare una versione ristretta ove la cura del corpo e delle sue ferite si configura come una pratica, finalizzata, in condizioni di evidente asimmetria, al contrasto di fenomeni difettivi ai quali l’homo patiens non può far fronte autonomamente e una accezione più ampia in cui la cura è intesa come una vera e propria modalità esistenziale, relativa a una condizione umana di fragilità.
A questo livello, afferma Alici, il dato di fatto della coesistenza assume, sul piano etico, un valore di reciprocità compartecipe, trasformandosi così in vero e proprio paradigma culturale, che configura lo spazio della convivenza secondo le coordinate di una condizione insuperabilmente fragile e solidale.
La valorizzazione di tale paradigma culturale rappresenta un compito dove Filosofia e Medicina sono entrambe impegnate, il cui punto di incontro è situato nel riconoscimento di un’antropologia relazionale che la fragilità trasforma in reciprocità della cura e dove il terreno operativo è quello della saggezza pratica condivisa.
Maurizio Mercuri declina il significato della cura nella pratica infermieristica e ci propone un affascinante viaggio in compagnia del pensiero dei numerosi autori che, nei loro rispettivi campi, hanno contribuito a coniugarne la semantica.
Prima di entrare nella ricca varietà di significati della cura, che rappresenta un aspetto fondamentale nel rapporto tra infermiere e paziente, Mercuri si sofferma a riflettere sulla dimensione antropologica della malattia, vissuta come difettività, come perdita d’integrità, di certezza, di controllo, della libertà di agire ed infine del mondo familiare.
È a questa difettività che, ad un primo livello, risponde la cura.
Attraverso una lettura attenta dei differenti ambiti semantici che caratterizzano la cura, Mercuri si sofferma successivamente sul dibattito al femminile in merito all’etica della cura, per «descrivere l’infermiere come colui che si prende cura, sia per riferimento alle cose che fa, sia per riferimento al modo in cui le fa, ed infine per le motivazioni che lo spingono ad agire in quel certo modo».
Tuttavia la cura nelle sue articolazioni, si realizza in atti che sono strutturati in tre parti:
la cura per l’altro ovvero le azioni dirette sul paziente;
la cura del contesto ovvero le azioni che gli operatori compiono sul contesto sia relazionale che fisico;
la cura invisibile ovvero quel pensare e quel riflettere che strutturano lo sfondo immateriale della pratica del caring.
Nel vasto territorio della cura così configurato esiste uno spazio, non molto frequentato, ma anch’esso essenziale che è il luogo della cura di sé e del prendersi cura di chi si prende cura.
E prendersi cura di se stessi e delle persone che curano diviene così un compito ed un impegno che interpella ognuno di noi.
In questa dimensione esistenziale della cura, conclude Mercuri, «tutte le persone hanno bisogno di attenzioni, i malati anche di più. E “non c’è dubbio che una medicina a mani nude, fatta di attenzione estrema e di tutti quei piccoli gesti che comunicano rispetto e tenerezza, sia una medicina preziosa».
Franco De Felice ritiene che occorra più cura dei servizi sociali, intesa come attenzione ai reali e nuovi bisogni della comunità e prende in considerazione l’età geriatrica, spostando l’attenzione dalle prestazioni sanitarie ed assistenziali alla promozione del benessere, alla conservazione e allo sviluppo delle capacità di ciascuno a svolgere una vita di relazione soddisfacente.
Tale promozione, seppure sia ben presente nella definizione dei servizi sociali operata dal Servizio Sanitario Regionale, non riceve di fatto alcuna remunerazione nel determinare la quota delle rette,
Eppure è nota l’importanza delle figure professionali dello psicologo, dell’educatore geriatrico e del laureato in scienze motorie, all’interno dei servizi residenziali per anziani ed è accertato che ogni anziano, in qualsiasi condizione sociale o sanitaria si trovi, può parlare di sé e della sua storia.
Si tratta, quindi, di declinare la cura nell’ambito della comunicazione dell’anziano, attingendo anche alla creatività che può indirizzarci verso prospettive di benessere individuale in ogni condizione della vita.
Nell’analizzare tale pragmatica della comunicazione, De Felice è consapevole sia delle difficoltà comunicative, sia di come la prospettiva di abbandonare la propria casa, ricca di storia, custode degli affetti e dei ricordi e di varcare definitivamente la soglia di una istituzione possa rappresentare per la persona anziana un’esperienza drammatica, alla quale spesso segue un accelerato declino emotivo e cognitivo.
Proprio per questo è necessario riannodare le fila di una nuova storia che si innesti positivamente nel complesso biografico del soggetto.
La vecchiaia, afferma De Felice, raccoglie le esperienze vissute, positive e negative, la loro validità e a volte il loro declino.
Il vivere da anziani non prescinde dalla propria storia: ogni anziano è potenzialmente interprete della sua età, della sua narrazione e di qualsiasi sua condizione.
Anche quando incombe la demenza è indispensabile non liquidare pregiudizialmente il demente come privo di capacità e sensibilità affettive. Non si deve mai dimenticare che il demente è una persona che può soffrire, provare emozioni, desideri, avvertire il bisogno di esprimersi e di essere compreso.
A tal fine è essenziale coinvolgere nel progetto di cura i familiari che entrano così di diritto in ogni equipe terapeutica.
Solo poche parole, infine, per delineare il saggio che conclude l’opera.
Il titolo Medicina Narrativa, Comunicazione ed Etica della Cura è quello di un Master che la Facoltà di Medicina dell’Università Politecnica delle Marche ha del tutto recentemente attivato. Si tratta di un tentativo di formare le persone che curano sotto il segno della narrazione, della comunicazione e dell’etica della cura. Il contributo che leggerete tenta di fornire le ragioni per una tale impresa didattica.
Buona lettura