Melodramma
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Melodramma

About this book

Antonia racconta la sua vita.
L'ambiente familiare torbido e selvatico ai margini di un bosco, sull'Appennino emiliano degli anni cinquanta. L'infanzia violata, un'ombra per il resto della vita. Il trasferimento a Bologna negli anni del boom economico. I genitori sporchi e cattivi, subito delusi dalle false promesse di benessere. Una madre che urla, un padre che ruba. Antonia cerca un lavoro e cerca se stessa. Bella e intraprendente, è commessa all'Upim mentre il mondo gira intorno ai grandi magazzini. Ma quella macchia l'insegue come una colpa. Si sposa, ha una casa, una famiglia, dei figli. Sembra aprirsi per lei una prospettiva di liberazione, ma non è così. Poi un amore sconveniente, di passione incontenibile, la travolge e la rigenera. Sola contro tutti. Orgogliosa,
eroica, tenace, Antonia riannoda il filo spezzato della sua vita.
Da una storia vera.

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Information

1.
«Vieni, ti porto a conoscere tuo nonno.»
Zia Vera mi prese per mano e mi trascinò per una mulattiera che saliva in mezzo al bosco. All’altro braccio portava un cestino di vimini coperto da un tovagliolo di canapa grezza. Dentro c’era il mangiare del nonno: due fette di polenta e lo spezzatino che aveva gorgogliato tutta la mattina sulle braci del camino.
Ci inerpicammo lente, per un sentiero umido e scivoloso. Nella notte era piovuto e un rigagnolo d’acqua scorreva fra i sassi.
«Hai voglia di vedere tuo nonno?» disse zia Vera.
«Sì, tanta.»
Nella mia classe ero l’unica che non aveva mai visto suo nonno. Frequentavo la prima elementare, conoscevo quasi tutti i nonni degli altri scolari, ma il mio no. Era una stranezza della mia famiglia, una delle tante.
«Chissà che faccia ha» pensavo mentre cominciavo ad ansimare per la fatica. Però, guardandomi attorno, non vedevo case, ma solo l’intrico della boscaglia, sempre più folto da una parte e dall’altra del sentiero.
«Dove abita?» chiesi.
«Lassù, nella torre. Eccola, ora si comincia a vedere.»
La torre, come la chiamava la zia, era l’avanzo di un’antica fortificazione che si ergeva in cima a un’altura, al centro di uno spiazzo disboscato. Era stata costruita secoli prima, immagino come bastione di guardia sull’alto Appennino bolognese. Poi, dopo anni di abbandono, già un po’ diroccata, qualcuno ci aveva rimesso piede decidendo che quel rudere poteva ancora servire per viverci e per alloggiarci gli animali, il foraggio, gli attrezzi da lavoro.
Così, non so come né quando, là si accasò la mia razza. E là da allora i miei hanno vissuto e hanno fatto figli e nipoti insieme a muli, asini, galline: praticamente sotto lo stesso tetto e sulla stessa paglia, per anni e anni.
Poi, in tempi di esodo dalla montagna, a poco a poco tutti i membri della famiglia abbandonarono quel posto, ruzzolando giù fino ai paesi sulla riga della via Emilia o alla piana dell’Arno, sul versante opposto. Tutti tranne il nonno. Che ancora si aggirava in solitudine dentro quel residuo di torre, fra mattoni ormai sfiniti dal sole e dalle piogge, dal vento e dalla neve.
Io allora avevo sei anni, e con il babbo e la mamma abitavo già in pianura, in fondo alla ruzzolata. Ero lassù per una breve vacanza da zia Vera, l’unica della famiglia che non aveva lasciato i monti. Per la verità, anche lei aveva abbandonato la vecchia torre, ma s’era stabilita in una borgata vicina, per non staccarsi del tutto dal padre, mio nonno, che io bruciavo dalla curiosità di conoscere, mentre arrancavo per la mulattiera dietro di lei. A casa mia non c’era neppure una fotografia che lo ritraesse. E anche questa era una cosa strana.
L’altro nonno, invece, cioè il padre di mia madre, era morto nel disastro della polveriera di Marano di Castenaso, nel 1940, dodici anni prima che io nascessi. «Un botto più forte di tutti i bombardamenti su Bologna messi insieme» diceva mia madre, che era solita esagerare nei suoi giudizi.
Ogni anno, il giorno dei morti, andavo con lei al camposanto. Lui, il mio nonno materno, un volto l’aveva: mi guardava da un ovale sfocato su una lapide cimiteriale e mi mandava un sorriso lontanissimo, come se per quella foto si fosse messo in posa mentre era già all’altro mondo.
«Questo sì che era un uomo perbene» ripeteva mia madre indicando la figura diafana sulla lapide. «L’unico uomo perbene che ho incontrato nella mia vita, a parte i miei fratelli» precisava.
Ne parlava quasi come di un santo e nelle sue parole sentivo un accento polemico contro tutti gli altri uomini, ma soprattutto contro mio padre e il nonno della torre.
Di questo nonno della torre, oltre a non averlo mai visto, non sapevo quasi nulla. In famiglia si diceva che per anni avesse fatto il boscaiolo, lontano dalla gente, con la sola compagnia di un’accetta e di un mulo, dall’alba al tramonto.
Si diceva anche che in gioventù fosse stato uno degli ultimi carbonai, altro lavoro misterioso che si praticava lontano dagli occhi del mondo. So che a ogni autunno partiva con un garzone, sceglieva un punto nel bosco, tracciava un cerchio sull’erba e ci costruiva sopra una catasta di legna verde, appena tagliata. Poi la ricopriva di foglie e terriccio. Accendeva il fuoco sotto il coperchio, e stava lì a vigilare la bruciatura giorno e notte, alternandosi con il suo garzone. Che da bravo garzone aveva da essere muto e servizievole, come il mulo.
Così il nonno, scalcinato demone del fuoco, allevava il carbone e lo accudiva. All’addiaccio, nel gocciolio delle piogge e delle nebbie. Nel sottobosco umido, con il solo riparo di una capanna di frasche. Lui e il suo garzone, solitari, selvatici. E questa, dicevano, era stata la sua vita per lunghi periodi dell’anno.
Dopo circa mezz’ora di cammino, zia Vera e io sbucammo su una piccola radura spelacchiata in cima al monte. Adesso la torre incombeva di fronte a me, sotto il sole, silenziosa in tutta la sua decrepita desolazione.
Aveva poche finestre, piccole. Le imposte, a un solo battente, erano tutte sbrecciate e picchiavano contro il muro a ogni colpo di vento. Qualcuna ciondolava appesa a un solo cardine. Il tetto, composto da lastre di ardesia, era rattoppato qua e là con strati di lamiera arrugginita.
In basso, addossato alla costruzione come un fungo, c’era un casotto in muratura. Fino a non molto tempo prima doveva essere servito come ricovero per il mulo o per le pecore; attraverso un varco mal chiuso da una staccionata si vedevano ancora resti di paglia sudicia. Dietro, come un altro fungo, spuntava una specie di capanno, che probabilmente era stato un fienile o un riparo per gli attrezzi.
Al centro di tutte queste escrescenze, la torre sembrava una catapecchia abbandonata. Ma in alto, sul tetto, un camino fumava.
«Il nonno è in casa» disse zia Vera.
2.
Il cuore mi batteva forte mentre seguivo zia Vera negli ultimi passi sotto la mole di quell’edificio così diverso dalle altre case. Alla base della costruzione c’erano tre gradini alti e consunti. Li scalai, aggrappata al braccio della zia. Poi, eccomi di fronte a una specie di portale, con un architrave di pietra e due pilastri laterali.
Dentro questa cornice, che conservava un impassibile decoro d’altri tempi, c’era una porta grezza e scolorita. Zia Vera la sospinse: il battente girò a fatica sui cardini, ed entrammo.
Per qualche secondo il passaggio dalla luce al buio mi accecò. Poi cominciai a vedere. Mi trovavo in una stanza alta e tutta annerita, che fluttuava in un tremolio di ombre. Una scala senza parapetto, con i gradini smangiati dal lungo uso, saliva lungo il muro portando al piano di sopra. Una tenue illuminazione pioveva attraverso una piccola finestra dalle pareti strombate come quelle della segreta di una rocca.
L’unica vera fonte di luce era il ceppo acceso in un grande camino, nero di fuliggine. Un uomo era seduto davanti al fuoco su un grezzo seggiolone di legno, e ci dava le spalle, nel controluce della fiamma.
«Papà» disse zia Vera, «guarda chi ti ho portato.»
L’uomo girò adagio la testa, senza alzarsi. I suoi occhi si volsero a me, luccicanti ai bagliori del fuoco; sembrava che fiammeggiassero anche loro nel folto di sopracciglia e di barba.
«Chi è quella lì?» borbottò.
«È l’Antonia, la figlia di Sesto» disse zia Vera.
Lui si rizzò in piedi faticosamente, restando appoggiato con una mano allo schienale del seggiolone.
Poi esplose in un grido terribile: «Fòra!» e tendendo il braccio con il dito indice puntato come una freccia, quasi volesse indicare il punto più lontano del mondo, sbrait...

Table of contents

  1. COPERTINA
  2. 1.
  3. 2.
  4. 3.
  5. 4.
  6. 5.
  7. 6.
  8. 7.
  9. 8.
  10. 9.
  11. 10.
  12. 11.
  13. 12.
  14. 13.
  15. 14.
  16. 15.
  17. 16.
  18. 17.
  19. 18.
  20. 19.
  21. 20.
  22. 21.
  23. 22.
  24. 23.
  25. 24.
  26. 25.
  27. 26.
  28. 27.
  29. 28.
  30. 29.
  31. 30.
  32. 31.
  33. 32.
  34. 33.
  35. 34.
  36. 35.
  37. 36.
  38. 37.
  39. 38.
  40. 39.
  41. 40.
  42. 41.
  43. 42.
  44. 43.
  45. 44.
  46. 45.
  47. 46.
  48. 47.
  49. 48.
  50. 49.
  51. 50.
  52. 51.
  53. 52.
  54. 53.
  55. 54.
  56. 55.