TRACIA
24 luglio-1 agosto
La vita è fortuna, la morte è sfortuna, l’uomo può fare qualcosa per se stesso ma non molto, e a volte per superbia non fa nemmeno quel poco.
[...]
Avevano interrato il ruscello Kàllò, era scomparso il giardino dove avevamo giocato a pallone fra i ciliegi acidi, non c’era più nemmeno il noce sotto la mia finestra, anzi, non c’era più la finestra perché l’avevano murata
Gyorgy Konrad, Partenza e ritorno
Spiraglio di confine
L’autobus è in cammino nell’entroterra, corre parallelo alle montagne ricoperte da spesse coltri di nuvole grigie. È sabato pomeriggio, ogni fermata coincide con la salita di affascinanti ragazze che sfilano lungo il corridoio una dietro l’altra, agghindate come splendide odalische in vestitini super attillati.
La stazione degli autobus di Xànthi e i suoi paraggi sono al contrario un raro concentrato di bruttezza e abbandono, tra strade deserte, negozi chiusi e vetrine impolverate. Il tutto sormontato dal profilo inquietante di ruderi e macerie di una gigantesca fabbrica in disuso.
Nella minuscola stazione ferroviaria – linea non elettrificata e a binario unico – un’altra odalisca un poco più attempata mi accoglie sotto le vesti gentili di una sorridente bigliettaia. «Ci sono quattro treni al giorno, due per Salonicco e due per il confine turco, il prossimo per Nea Vissa è alle 20.30. Ha un bel po’ di tempo, perché non va a visitare la nostra bella cittadina?»
Al tramonto, in questo spiraglio di oriente greco in cui Istanbul è ancora Costantinopoli, l’ultimo treno della giornata si affaccia più o meno in orario sui binari. Una quindicina di persone con ingombranti valigie al seguito è assiepata sullo strettissimo marciapiede in attesa di salire. Pochi minuti e il via libera alla partenza è dato alla vecchia maniera, con la stessa bigliettaia – odalisca del pomeriggio – che sventola in direzione della locomotiva una piccola bandierina verde.
Ad Alexandroupoli, dopo due ore di viaggio lentissimo, il treno si svuota dei turisti del Mar Egeo e si riempie dei pochi di rientro dalle vacanze. Salgono anche due militari che, rimanendo in piedi all’entrata dello scompartimento, tengono d’occhio altri due uomini. Sono migranti pakistani, o afghani o forse bengalesi. Lungo il tragitto vengono fatti scendere e consegnati ai poliziotti preavvisati del loro arrivo.
Il mare è definitivamente alle nostre spalle, il trenino procede ora in direzione nord, destreggiandosi con onore nella difficile morfologia balcanica-mediterranea, infilandosi nel collo di imbuto dove un brandello di Grecia finisce per strozzarsi tra Bulgaria e Turchia, in cui i binari seguono passo passo la linea di confine. La geografia si fa complicata e nel mettere insieme un bel guazzabuglio di toponimi, denominando questa regione Tracia Anatolica e Macedone, la carta che ho con me semplifica con toni democristiani una realtà a dir poco complessa.
Nea Vissa è la penultima fermata prima del capolinea. Una signora venuta a prendere i familiari in stazione mi comunica in francese che da queste parti di alberghi non se ne parla. «Doveva scendere a Orestiada, Nea Vissa è un piccolo villaggio.»
Una camminata di due ore nel buio è sufficiente per vedere vanificate le mie speranze di aspirante autostoppista notturno. Nel primo paesino illuminato alcuni giovani di rientro a piedi da un’allegra serata mi aiutano a chiamare un taxi.
«Volevi fare l’autostop?» Il tassista si mette a ridere. «Saresti rimasto tutta la notte all’addiaccio. Nessuno si sarebbe fermato.»
Stop Evros Wall
Lo spazioso e luminoso appartamento si trova al secondo piano di una silenziosa palazzina vicina al centro città. Varcato l’ingresso trovo due bambine, Aliki e Iro, già intente a studiare con lo sguardo il nuovo ospite. Conosco Dora, la loro madre, giusto il tempo di un saluto prima che esca di casa per sbrigare alcune commissioni.
«Da queste parti non si usa fare l’autostop?» chiedo, ancora perplesso per la maliziosa ironia del tassista della sera precedente. «In fondo questo ha tutta l’aria di essere un posto tranquillo...» «E lo è.», rispondono i coniugi nel darmi ragione: «È il luogo ideale per chi ha famiglia. Ma non è questo il punto.»
La tavola è imbandita con del riso, due ciotole stracolme di insalata greca e con del salmone appena impiattato che inebria i sensi con l’invitante profumo di griglia.
«Fermo restando che sfido chiunque a dare un passaggio, in piena notte, a un uomo della tua stazza, il motivo principale tuttavia è un altro», continua il marito di Dora, ancora affaccendato nella preparazione del familiare convito.
Terminati i preparativi del pranzo, Panos mi invita a sedere. «Questa zona ha rappresentato per diverso tempo la porta d’ingresso principale per i migranti diretti verso l’Europa. Fino a qualche anno fa centinaia di persone ogni notte varcavano il confine con la Turchia.»
Passata la novità del momento, non senza qualche domanda sul mio conto sussurrata all’orecchio del loro papà, Aliki e Iro tornano a rifugiarsi nei giochini elettronici scaricati sul tablet. Ci accingiamo così ad azzannare il lauto banchetto e, tra un boccone e l’altro, il quarantunenne greco continua il suo ragionamento. «Oggi la situazione è cambiata e i flussi sono minori, ma chi ti ha visto camminare sul ciglio della strada a quell’ora avrà pensato a te come a un migrante che aveva appena attraversato illegalmente la frontiera.» «O magari non mi hanno visto...», la mia replica poco convinta. Il vino bianco, che accompagna il pesce, è fresco al punto giusto. «Credo che non sarebbe cambiato granché... Nel 2012 il governo greco decise così di costruire un muro tra i villaggi di Nea Vissa e Kastanies da dove entrava la maggior parte dei migranti, fu in quel momento che decidemmo che dovevamo fare qualcosa.»
Panos lavora nel ramo commerciale di un’azienda tessile che produce materassi. Quando prese piede l’idea della costruzione di un muro tra Grecia e Turchia, nella terra in cui è nato e cresciuto, decise di impegnare il proprio tempo libero opponendosi fin da subito a quel progetto. Insieme a un gruppo di amici, conoscenti o semplicemente persone che condividevano la sua stessa opinione si fece promotore di incontri, dibattiti e discussioni per sensibilizzare la popolazione sul tema. Da quell’esperienza nacque il collettivo chiamato Stop Evros Wall, omonimo dell’aggiornatissimo blog in cui Panos raccoglie articoli e saggi di giornalisti e studiosi che fanno riferimento alle migrazioni nella regione dell’Evros. Un territorio incastrato tra tre Stati che sui nostri media non ha quasi mai fatto notizia a causa della mancanza di barconi di cui parlare. «Il muro è stato costruito, l’importante però è aver lasciato una traccia per il futuro, in modo che rimanga memoria del fatto che non tutti erano d’accordo nell’innalzare nuove barriere. I muri erano forse le soluzioni del passato, erigerne di nuovi oggi è come se un medico proponesse al suo paziente una ricetta scaduta.»
In passato i muri erano fatti di mattoni, cemento e calcestruzzo. Il filo spinato compariva solo sulle loro sommità per meglio scoraggiare gli incauti intenzionati a passare dall’altra parte. Oggi invece quelle luccicanti punte acuminate e nuove di zecca rappresentano il più delle volte il muro vero e proprio insieme a reti, barre d’acciaio, telecamere, raggi infrarosso e sensori di ogni genere. Nel caso dell’Evros il filo spinato ha creato una tecnologica e robusta barriera metallica alta tre metri e lunga dodici chilometri e cinquecento metri. Dando per scontato che, come Berlino ci ha insegnato, la metamorfosi nel tempo del metallo in mattone non è mai da escludere. «Può sembrare strano ma prima non c’era niente a dividere il confine, due strade sterrate, una di qua e una di là, due torrette militari e nulla più. Le guardie dei due Paesi parlavano e scherzavano, talvolta si scambiavano dei regali. Potevi stare con un piede in Grecia e con l’altro in Turchia.»
Dopo aver giocato parecchio tempo tra di loro Aliki e Iro richiamano ora la nostra attenzione. «Quando andiamo in piscina con la mamma facciamo tutto con molta calma, quando ci andiamo con papà ci fa fare sempre le cose di fretta.» «Non è vero...», risponde lui ridendo. «Invece sì!», ribattono loro furbescamente, per poi alzarsi dal divano e mettersi a camminare per tutto il soggiorno a passi lenti e veloci a imitazione dei diversi comportamenti dei due genitori. «Basta stare attaccate al tablet, fate un po’ di compiti. Cosa dice quella pagina del vostro sussidiario sull’Europa? Europa era una principessa, rapita con l’inganno da Zeus e portata sull’isola di Creta...»
Ottenuto l’obiettivo, le bambine tornano tranquille e si mettono a leggere senza batter ciglio. Al termine del pranzo Panos accende il computer per mostrarmi una mappa dettagliata della zona. «Eccolo lì l’Evros.» Il puntatore del mouse scorre sullo schermo a indicare una lunga e sinuosa striscia verde che si allarga in un ampio delta prima di sparire in mare. «Nella parte nord, fin quasi a Edirne, si trova totalmente in territorio turco. Poi per centottanta chilometri segna il confine tra i due Stati fino alla foce. Un confine naturale insomma. La rete antimigranti è stata piazzata nel tratto di frontiera non segnato dal fiume.»
Il periodo con il maggior numero di attraversamenti è stato quello compreso tra il 2009 e il 2012. Una volta arrivati in Grecia i migranti speravano di essere presi dai poliziotti. E se non venivano trovati erano loro a presentarsi direttamente alla stazione di polizia per farsi identificare e ottenere la carta che dava loro diritto di rimanere sul suolo greco per trenta giorni. In questo modo potevano prendere il treno per Salonicco per poi proseguire lungo la rotta balcanica. Non sono mancati casi di migranti respinti illegalmente dalle forze dell’ordine greche, rimandati indietro senza aver compiuto in merito alcun accertamento. «Ci sono quelli che scappano dalle guerre e quelli in fuga da regimi illiberali, è corretto distinguere gli uni dagli altri? Non lo trovo giusto, entrambi hanno buoni motivi per fuggire dai propri Paesi.»
I numeri erano altissimi, arrivavano in media trecento migranti al giorno. La stazione ferroviaria di Orestiada era sempre piena, un viavai di persone che prendevano il treno al mattino presto per raggiungere Alexandroupoli. «Tutta gente di passaggio con nessuna intenzione di stabilirsi da queste parti.» A un certo punto, in una Grecia in piena crisi economica e con il partito di estrema destra, Alba Dorata, in crescita di consensi, ecco farsi strada l’idea del muro. «Tra gli abitanti di Orestiada vi era un sentimento ambivalente. Da un lato c’era timore per essersi trovati di punto in bianco con tanti estranei a girare per le strade, vicino alle proprie case. Non avendole mai conosciute prima si tratta di paure condivisibili, poteva capitare di trovarsi di fronte al buio a gruppi di sconosciuti che spuntavano all’improvviso dalle campagne attorno alla città. In fondo non è facile avere a che fare con tanta diversità tutta in una volta. Ci vuole qualche tempo per metabolizzare il tutto. Dall’altro lato ci sono stati notevoli slanci di solidarietà, cittadini che hanno messo a disposizione cibo e vestiario di ogni genere alle famiglie che passavano di qui con tanto di figli piccoli al seguito.»
È da questo sentimento ambivalente che, in nome della sicurezza, l’idea del muro è piaciuta fin da subito alla maggioranza della popolazione. «Anche da parte di coloro che a suo tempo dimostrarono tanta generosità. Come in tutto il resto del mondo la gente vuole vivere senza problemi. Ed è bastato purtroppo toccare astutamente i tasti sensibili dell’identità e della sicurezza per far emergere facilmente il “problema immigrazione”. Con il muro si è scelta la soluzione più semplice, si è preferito distogliere lo sguardo in nome della politica dello struzzo.» Infilare il collo sotto la sabbia, oscurare gli occhi, ammutolire le corde del cuore. «In realtà si è solo spostato il problema da altre parti senza risolverlo.» Dirottando, cioè, i flussi verso le isole greche, appena un po’ più a nord – in Bulgaria – o in direzione dello stesso Evros. Dove parecchi migranti invece di trovare il “paradiso di Schengen” hanno trovato l’inferno della morte per annegamento. «È capitato di trovare nel fiume corpi completamente congelati. In inverno le temperature vanno parecchi gradi sotto zero e la portata d’acqua dell’Evros è molto più ampia che in estate. Il fiume si fa pericoloso, le correnti possono essere estremamente violente e i migranti non sanno nuotare. In pratica è come se il muro avesse fatto indirettamente delle vittime. Un muro costruito per soli motivi politici, per rassicurare psicologicamente le persone, senza pensare alla sua inutilità e alle nefaste conseguenze che ne sarebbero derivate.»
A causa delle sue prese di posizione Panos è parecchio conosciuto dalle forze dell’ordine locali. In occasione di una delle pacifiche manifestazioni di dissenso e di raccolta firme contro il muro, lui e gli altri di Stop Evros Wall si sono trovati di fronte centinaia di poliziotti. «Venivano da tutta la Grecia per noi», commenta sarcastico il greco. «Un inutile spreco di risorse, pensavano di avere a che fare con dei fanatici violenti quando il nostro intento era quello di portare un elemento di discussione e di riflessione tra la gente.» Uno scopo ben diverso da altri gruppi organizzati che, loro sì, hanno inscenato proteste violente. «Come è avvenuto pochi giorni fa.» Panos mi mostra un video dove si vede un folto gruppo di No border, ragazzi dai volti coperti che si incamminano armati di spranghe verso il confine turco di Kastanies provocando volutamente scontri e tafferugli con le forze dell’ordine già schierate in assetto antisommossa. «Tanto rumore e tanta pubblicità per cosa? Provenivano da tutta Europa, per lo più si trattava di persone che non avevano la minima idea della realtà di qui. Una manifestazione del genere non fa altro che convincere ancor di più la gente del posto che il muro sia la giusta soluzione. Non si costruisce nulla di condiviso in questo modo.»
L’accordo tra Unione Europea e Turchia ha di fatto bloccato ancor di più l’arrivo di migranti. «È molto difficile incontrarne ora, può capitare di vederne qualcuno sui t...