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L’Italia al naturale
Non c’è Italia che tenga
L’Italia (o, meglio, l’idea dell’Italia) proprio non “tiene”. Da qualsiasi parte la si sbirci, ci vengono incontro crepe, spiragli, varchi, addirittura voragini. Eugenio Montale diceva della storia che “non si snoda/come una catena/di anelli ininterrotta./In ogni caso/molti anelli non tengono”. Forse la storia non esiste. È soltanto una costruzione (abusiva) degli storici. Forse non esiste nemmeno l’Italia. È soltanto una costruzione a posteriori di coloro che hanno, da un po’ di tempo, cominciato a scrivere, a piene mani, le sempre più numerose Storie d’Italia.
Del resto, un altro poeta del Novecento, Mario Luzi, ha appena scritto: “L’Italia è un’illusione, anzi un miraggio, un oggetto del desiderio”.
Non basta la fede (e non bastano nemmeno le opere) perché un’entità immaginaria divenga reale anche se è stata immaginata da una minoranza devota, lungo gran parte del xix secolo, con indubbio fervore: fino all’istituzione in suo nome, dovuta, è bene rammentarlo sempre, alla volontà determinante di alcune grandi potenze europee, di uno Stato fornito di tutti i crismi previsti dal diritto internazionale (anche se dotato di scarso carisma).
Probabilmente, ci si accorge che l’Italia non c’è proprio perché c’è “questo” Stato che si definisce, in maniera allo stesso tempo ingenua e sfrontata, come “italiano”: nato nel 1861 per raccogliere entro i propri confini due modelli di Italia virtuale (considerati, barando con disinvoltura, uno solo), ha smarrito strada facendo la propria motivazione originaria trasformandola in una sorta di peccato originale e nascondendosi dietro di essa.
Dati entrambi, senza beneficio di inventario, come scontati e addirittura coincidenti, questi due modelli (del tutto astratti) sono: l’Italia-“regione naturale” e l’Italia-“nazione”. La prima sarebbe stata creata dalla natura stessa entro confini ben definiti; la seconda dalla millantata volontà della popolazione che abita all’interno di questi confini di avere un’esistenza comune. Si tratta, purtroppo, di un ircocervo, di una supposizione infondata cui non ha mai corrisposto un sentimento, come si suole dire, “nazional-popolare” (cioè diffuso e partecipato). Ne deriva soltanto una concezione che si potrebbe definire, al massimo, “nazional-naturale”: la natura “creatrice” di confini prevale così, di gran lunga, su ogni pretesa o presunta volontà popolare. Il popolo latita, dunque: ma anche il territorio non è poi così compatto come sembra. In realtà, come vedremo, è la somma di cinque regioni geo-fisiche del tutto distinte, anche se non distanti tra loro: una porzione dell’Europa continentale, una penisola, tre grandi isole. Il tutto gabellato come “la Penisola” (il telegiornale disse, un giorno d’agosto, che Palermo era stata quel giorno la città più calda della penisola!). Così come, in realtà, il popolo italiano è la somma di un pugno di popoli diversi sia pure, per loro sfortuna, tra loro confinanti. Vedremo anche questo.
È facile constatare come all’Italia-Stato siano sempre sfuggite alcune parti indispensabili di quest’Italia “nazional-naturale” (ieri Trento e Trieste, oggi magari Pola e Tenda) posta a fondamento della sua ragione di esistere. L’Italia-Stato è così soltanto una “frazione” di un “intero”: di un intero (l’Italia nazional-naturale) che però, come vedremo, con ogni probabilità non esiste. È, come dice Luzi, un miraggio. Una frazione di zero è sempre uguale a zero. L’Italia-Stato può apparire comunque un intero in quanto Stato (e non in quanto Italia poiché parte di essa gli sfugge): ma non è preparata a prendere atto di questa realtà sconcertante traendone le debite conseguenze.
Il suo comportamento in proposito è stato (ed è) schizofrenico. Nel 1863, Pietro Maestri, incaricato di redigere l’Annuario statistico ufficiale del neonato e ancora smilzo Regno d’Italia, ritenne opportuno raggruppare per “compartimenti topografici” i dati raccolti. I compartimenti da lui individuati furono diciotto, ma quelli attivati soltanto quattordici: quattro di essi rimasero, infatti, caselle vuote, sia pure con la fondata fiducia che sarebbero state riempite al più presto (cosa che del resto avvenne nell’arco di cinquantasette anni). Si trattava del Veneto (annesso infatti dal regno nel 1866); del Lazio (annesso nel 1870); della Rezia (in seguito Venezia Tridentina e infine Trentino-Alto Adige) e della Giulia (annesse entrambe nel 1919-20).
Maestri si era direttamente ispirato all’elenco semiufficiale delle “regioni italiche” stilato nel 1855 da Cesare Correnti, autore della prima ricognizione esaustiva e accurata dell’Italia nazional-naturale (una ricognizione eseguita alla corte sabauda sei anni prima dell’istituzione dell’Italia-Stato). Maestri espunse, tuttavia, dall’elenco correntiano due possibili compartimenti in esso indicati, senza riservare loro nemmeno il rango di caselle vuote: la Corsica e Malta.
Maestri non si peritò di irritare l’Austria, “padrona” di Veneto, Rezia e Giulia, ma si guardò bene dall’apparire irriguardoso nei confronti della Francia e del Regno Unito, che detenevano la sovranità su Corsica e Malta e grazie ai quali l’Italia-Stato era appena sorta (l’unica coraggiosa eccezione in proposito fu il Lazio, sotto la tutela francese: ma nel Lazio sorgeva l’irrinunciabile Roma).
Il problema del rispetto verso gli alleati (o verso terzi) non si pose, almeno formalmente, per altre porzioni di territorio nazional-naturale (indicate a chiare lettere da Correnti) in quanto sarebbero potute finire, con un po’ di fortuna e senza dare troppo nell’occhio, all’interno di compartimenti già istituiti: il Nizzardo (cui il re “sardo” aveva però rinunciato in favore della Francia ancora prima di cingere la corona d’Italia) e il Principato di Monaco, da convogliarsi entrambi, eventualmente, nella Liguria; il Canton Ticino e la Val Mesolcina, appartenenti alla Svizzera (destino eventuale: la Lombardia), la Repubblica di San Marino (destino altrettanto eventuale: l’Emilia). Va da sé che questi compartimenti erano soltanto articolazioni di comodo, escogitate esclusivamente a fini contabili, di uno Stato di destra sinistramente monolitico.
Stupisce, più della vicenda dei compartimenti, un comportamento politico del tutto anomalo dell’Italia-Stato: mentre si era ritenuto indispensabile privare, ad esempio, il Granducato di Toscana della propria sovranità statuale ai fini supremi dell’unità nazional-naturale, analogo ragionamento non è mai stato fatto a proposito di San Marino (con buona pace dell’ottimo Correnti e dei suoi numerosi predecessori) quasi fosse situata sui Carpazi. Forse si voleva una minuscola eccezione per confermare una regola “ferrea”. Incamerare San Marino sarebbe stato, del resto, uno scherzo: forse il Regno d’Italia non amava scherzare. Ambiva, invece, per compiere l’unità nazional-naturale, dedicarsi “seriamente” all’arte sottile della diplomazia e, quando gli sembrava conveniente, a quella, ben più grossolana, della guerra: purché sanguinosa e condotta all’ombra di alleati forti e rassicuranti.
Nel 1882, come si sa, l’ingresso furtivo del regno nella Triplice Alleanza, al fianco dell’Austria aborrita, spedì ufficialmente la Rezia e la Giulia nello stesso deposito dove erano parcheggiate da vent’anni la Corsica e Malta. Al contrario dei governi, i circoli irredentistici continuarono vigorosamente a rivendicarle, costringendo l’ipernazionalista Crispi a dichiarare più volte che quest’irredentismo a senso unico gli sembrava pura farina del sacco anglo-francese e che la Corsica e Malta non meritavano davvero di essere dimenticate e sacrificate per Trento e Trieste. In realtà mirava all’Africa: ma si trovava la strada sbarrata proprio dai francesi e dagli inglesi.
Grazie a un nuovo e repentino cambio di alleanze e alla vittoria dell’Intesa nella prima guerra mondiale, anche la Rezia e la Giulia vennero alla fine incorporate nell’Italia-Stato; la Corsica e Malta rimasero invece (e non poteva essere altrimenti) sotto la sovranità degli alleati di ritorno: Francia e Regno Unito. Per la Svizzera “italiana”, ci si limitò sempre a tutelarne dal di fuori lingua e cultura.
Prima di annettersi Rezia e Giulia, lo Stato italiano aveva tuttavia implicitamente tradito la propria ragione di esistere destinando fondi ed energie (rilevanti), anziché al compimento della propria (anche se supposta) “unità nazional-naturale”, alla contrastata conquista d’alcune sparute e macilente colonie.
Mussolini, una volta approdato al potere, riprese con coerenza a rivendicare, sia pure ufficiosamente, tutte le terre ancora irredente comprese nella mappa profetica di Correnti (ma si accontentò dell’istituzione di un regime fascista a San Marino) e, nel suo inarrestabile delirio imperialista, mise contemporaneamente gli occhi su molte regioni limitrofe e le mani sull’Albania e l’Etiopia. L’alleanza con la Germania gli fu tuttavia fatale. Nonostante un nuovo cambio d’alleanze escogitato fuori tempo massimo dal regno, la salutare sconfitta suggellata dalla fine della seconda guerra mondiale portò alla fine, oltre che di Mussolini, anche del regno stesso. E alla perdita delle colonie, di buona parte della Venezia Giulia e di un sopracciglio delle Alpi occidentali.
La nuova Costituzione repubblicana del 1948 sancì, con un barlume di coscienza rinnovatrice (offuscato però da un impotente quanto evidente rammarico), la rinuncia ad ogni...